DELITTI ESOTERICI
Stefano Vignaroli
La prima indagine del Commissario Caterina Ruggeri
Copyright © 2011 - 2018 Stefano Vignaroli
Tutti i diritti riservati
PROLOGO
Estate 1989
Confine tra Nepal e Repubblica Popolare Cinese
Quando gli Sherpa giunsero in prossimità dell'ennesimo ponte sospeso, in uno stentato inglese, spiegarono alle due donne, che li avevano assoldati a Kathmandu, che non sarebbero mai andati oltre quel punto. A loro non era consentito sfidare le proprie divinità, avevano troppa paura. Nessuno di loro si era mai avventurato oltre quel ponte e chi, in passato, aveva osato farlo, non era mai più ritornato. Se le donne avessero voluto proseguire, lo avrebbero fatto a loro rischio e pericolo. Avrebbero lasciato loro lo stretto indispensabile da portare in spalla negli zaini, alcuni viveri, delle tavolette di cioccolato, un fornelletto da campeggio e la leggera tenda biposto a igloo. Loro sarebbero rimasti tre giorni, non di più, ad aspettarle.
La giornata era tersa, l'aria rarefatta dei quasi quattromila metri di quota donava al cielo un colore azzurro intenso, e le vette delle montagne più alte della Terra sfidavano, con le loro guglie innevate, lo stesso cielo limpido. Aurora e Larìs avevano sfilato le calde giacche a vento in goretex, che le avevano fino allora protette dalle improvvise bufere di neve, spesso affrontate durante i cinque giorni precedenti. Il loro scopo non era certo quello di provare l'ebbrezza di una vacanza estrema, bensì quello di raggiungere il Tempio della Conoscenza e della Rigenerazione, per incontrare il Grande Patriarca. Avrebbero potuto attingere al sapere universale conservato al tempio e divenire così adepte del livello più alto della setta. Sapevano già che, da quel punto in avanti, avrebbero dovuto proseguire da sole, affidandosi al loro intuito e ai loro poteri. Se avessero fallito, se avessero sbagliato strada, sarebbe stato impossibile per loro salvarsi. Avrebbero solo trovato la morte tra quelle montagne. Aurora pagò il pattuito al capo Sherpa dicendogli che, se voleva, se ne poteva andare anche subito. Ma l'uomo dai lineamenti asiatici, che reggeva le redini di un lama, scosse la testa e ripeté: «Three days.»
Scaldò un tè forte per le due donne e le congedò, salutandole con un cenno della mano. L'anziana e la sua giovane amica issarono gli zaini in spalla e si avventurarono sul ponte, sospeso sopra un abisso di almeno ottocento metri di altezza.
CAPITOLO I
Caterina Ruggeri
La voce del comandante dell'aereo che avvertiva i passeggeri dell'ormai imminente atterraggio mi riportò alla realtà. Solo un'ora di volo da Ancona a Genova, ma la mia mente era stata impegnata in un turbinio di pensieri. I fatti degli ultimi giorni avevano portato la mia vita a una svolta. Pensavo al mio passato e pensavo al mio futuro. Ora avevo un incarico importante, ero stata nominata commissario a Imperia e non avrei mai creduto che questa nomina arrivasse così presto. Come responsabile delle Unità cinofile della Polizia di Stato presso l'aeroporto Raffaello Sanzio di Ancona avevo trascorso anni entusiasmanti. Avevo avuto la possibilità di realizzarmi in ciò che mi era sempre piaciuto fin dalla tenera età, lavorare con i cani della polizia e addestrarli, dai cani antidroga a quelli per il soccorso nelle macerie, dai cani antisommossa a quelli cosiddetti molecolari, adatti alla ricerca di tracce e persone scomparse. D'altro canto, oltre a essere impegnata in un lavoro che mi piaceva moltissimo, avevo avuto anche il tempo di dedicarmi allo studio e laurearmi in Giurisprudenza, specializzarmi in Criminologia e sperare nell'agognato avanzamento di carriera.
Di sicuro la passione per i cani non l'avrei mai abbandonata, quella passione che mi era stata trasmessa da un mio cugino veterinario, Stefano, ora cinquantenne, direttore sanitario della Clinica Veterinaria Aesis. Stefano era stato sempre il mio segreto amore, fin da ragazzina. Mio cugino di secondo grado, dodici anni più grande di me, mi aveva sempre attratto in maniera particolare. Il ricordo di un Ferragosto di venticinque anni prima era sempre vivo nella mia memoria. Allora ero poco più che una bambina, avevo frequentato la seconda media e dovevo ancora compiere tredici anni, mentre lui si era da poco laureato in Veterinaria a Perugia.
Ero in vacanza con la mia famiglia, il papà, la mamma e i miei due fratellini gemelli, Alfonso e Stella, in un'amena località dei Monti Sibillini, a 1.400 metri di quota. Mio padre, patito di vacanze alternative, non ci avrebbe mai portato in vacanza in albergo, e quindi usufruivamo del nuovissimo carrello tenda, da lui appena acquistato.
La mia famiglia e quella di Stefano erano molto unite. Il mio cugino ci aveva raggiunti di buon mattino, insieme alle sue due sorelle e sua madre, per trascorrere insieme a noi il Ferragosto. La giornata si presentava già splendida, serena, limpida, senza nuvole in cielo. L'aria frizzante della montagna ispirava una bella camminata e così decidemmo di raggiungere un rifugio distante un'ora e mezzo di cammino dal luogo in cui eravamo accampati. Da lì, un'altra mezz'ora di salita impegnativa permetteva di raggiungere una cima denominata Pizzo Tre Vescovi. Per tutto il percorso avevo ignorato la mia cuginetta coetanea, cercando di rimanere il più vicino possibile a Stefano e conversare con lui. Mi aveva parlato dell'Università, dei suoi progetti attuali e futuri, del come e del perché di recente avesse lasciato la sua fidanzata, con cui aveva condiviso oltre cinque anni di vita. Io e Stefano eravamo i più appassionati di montagna e i più temprati alla fatica fisica, così, giunti al rifugio, mentre gli altri avevano deciso di riposarsi e dedicarsi alla raccolta di mirtilli e lamponi, noi due avevamo prolungato l'escursione fino in vetta. Mio padre ci aveva accordato di ritrovarci al campo per pranzo entro l'una. Con un gesto un po' infantile ma mirato, avevo preso Stefano per mano e mi ero avviata con lui su per il sentiero scosceso e faticoso. Lo spettacolo in vetta aveva ripagato la fatica per arrivarvi. In una giornata così limpida si poteva scorrere lo sguardo dai monti dell'Umbria verso Ovest, al Mar Adriatico verso Est, dai monti del Pesarese verso Nord, alla sagoma massiccia del Monte Vettore verso Sud, che chiudeva l'orizzonte e impediva di gettare lo sguardo verso i monti della Laga e l'Abruzzo.
Osservavo il panorama, ma soprattutto guardavo i meravigliosi occhi verdi di Stefano, che mi indicava i nomi delle varie montagne che riusciva a riconoscere. Più lo osservavo e lo ascoltavo, più mi sentivo attratta da lui, che aveva un viso simpatico, ornato da una leggera barba, i capelli folti e scuri e due occhi che a me piacevano in una maniera incredibile. Essendo poco più che una bambina, non sapevo di preciso cosa significasse innamorarsi, ma in quei momenti capivo che stavo provando delle sensazioni nuove e che forse, per la prima volta, ero caduta vittima di questo strano sentimento.
Eravamo ridiscesi sempre conversando e scherzando, e avevamo raggiunto il resto della compagnia, giusto in tempo per il pranzo preparato da mia madre, un'ottima amatriciana, accompagnata da salsicce alla brace e, per finire, i lamponi raccolti da fratelli e cugine durante l'escursione. Al termine del pasto avevo proposto a Stefano di sdraiarci al sole. Avevo recuperato un plaid e ci eravamo allontanati un po', fuori dalla vista degli altri. Mi ero sfilata maglietta e jeans ed ero rimasta con un bikini rosa, appena sufficiente a coprire i miei seni ancora immaturi. Anche lui si era liberato della maglietta. Ci eravamo sdraiati l'uno accanto all'altra, godendo del sole pomeridiano che riscaldava la pelle. A un certo punto, mi ero girata verso di lui e avevo premuto i miei piccoli seni contro il suo torace.
«Insegnami come si bacia un ragazzo!»
Lui mi aveva guardato con aria interrogativa, ma io, affatto intimorita, avevo avvicinato il mio viso al suo, socchiudendo gli occhi. Avevo percepito le sue labbra unirsi alle mie e, per un attimo, ero andata in estasi. Non so quanto fosse durato, credo pochi attimi. Quando Stefano si era reso conto di ciò che faceva si era arrestato e, sia pur in maniera delicata e forse a malincuore, mi aveva allontanato da sé.
«Caterina, non è cosa possibile tra noi due, non dovevo lasciarmi andare. Sei una ragazzina molto carina e diventerai una bellissima donna. Hai due occhi azzurri splendidi, che spiccano ancor di più sotto la tua cascata di capelli mori. Non avrai alcuna difficoltà a trovare un bel ragazzo, adatto a te. Io ti conosco da quando eri in fasce e ti assicuro che ti voglio tanto bene, ma come a una sorella! E poi dodici anni di differenza sono un abisso. Tu sei poco più che una bambina e io sono già un uomo quasi pronto a sposarsi. Comunque, a Settembre partirò per la scuola di specializzazione in Malattie dei Piccoli Animali e rimarrò a Pisa per due anni. Ti assicuro che ti scriverò e ti farò avere il mio indirizzo. La mia amicizia e il mio affetto per te ci saranno sempre, ma consideriamo l'episodio di oggi come un gioco e non parliamone più.»
Arrossendo, avevo fatto sì con la testa, ma quel bacio sarebbe rimasto nella mia mente e nel mio cuore come il più bello che avessi mai ricevuto.
A quel tempo i cellulari non esistevano, e quindi i contatti si potevano tenere solo scrivendosi lettere e cartoline o tramite i telefoni fissi. Perciò, per qualche tempo, i rapporti con Stefano erano stati sporadici e solo due anni dopo ero riuscita a trascorrere di nuovo qualche giorno con lui.
Avevo terminato il primo anno di Scuola Superiore ed ero stata promossa con ottimi voti, ma l'estate si preannunciava noiosa e senza grandi prospettive di vacanze in quanto, in famiglia, i litigi tra mio padre e mia madre erano sempre più accesi e i due non riuscivano più a trovare un accordo su alcunché. Inoltre mio padre stava andando incontro a crisi depressive sempre più frequenti.
Era una calda giornata di Luglio quando mia madre mi aveva chiamato, dicendomi che mio cugino Stefano chiedeva di me al telefono. Mi ero precipitata all'apparecchio con il cuore in gola.
«Ciao Caterina, ho superato l'esame del secondo anno di specializzazione e ho qualche giorno di vacanza prima di iniziare i due mesi di tirocinio nella Clinica universitaria. Poi, a Ottobre, dovrò presentare la mia tesi, quindi per me si preannuncia un'estate molto impegnativa! Perché non mi raggiungi qui a Pisa e ci concediamo un giro in turistico Toscana? Una bella vacanza farà bene a entrambi, per te come distrazione dalla tua situazione familiare, per me come breve pausa dalle fatiche dello studio!»
Chiesto il permesso ai miei, che non avevano creato alcun problema, avevo preso il treno e raggiunto Pisa. Stefano mi aspettava nell'atrio della stazione. Gli avevo affibbiato il mio borsone e mi ero ritrovata a bordo della sua auto, una Citroen 2CV, con la quale avremmo girato la Toscana nei giorni successivi, pernottando in ostelli od ospitati presso suoi amici dell'università. Avevamo visitato bellissime città, Pisa stessa, San Gimignano, Siena, Arezzo. Ci eravamo spinti anche sull'Appennino Tosco-Emiliano per una breve escursione fino alle sorgenti dell'Arno, sempre animati dalla nostra ormai assodata passione per la montagna. Infine avevamo raggiunto Firenze, dove ci aveva ospitato suo fratello, iscritto alla facoltà di Architettura, ma che tutto faceva tranne che studiare. L'ultima sera, dopo cena, faceva caldo e io ero stanca. Passeggiando sul Lungarno, avevamo raggiunto Ponte Vecchio. Era una splendida serata, la luna quasi piena in cielo si rispecchiava nel fiume e lo spettacolo era proprio romantico. Approfittando della stanchezza, mi ero appoggiata a Stefano, passandogli un braccio intorno al collo. Lui, in risposta, aveva afferrato delicatamente la mia mano, che penzolava dalla sua spalla, carezzandola un po'. Poi aveva stretto i miei fianchi con l'altro braccio. Eravamo rimasti così, in silenzio, vicini e abbracciati, guardando il paesaggio fiorentino. Mi aspettavo un bacio, e invece non accadde nulla. Avrei voluto che quel momento non finisse mai, sarei voluta rimanere lì così per sempre, e invece, il mattino seguente, mi ero ritrovata alla stazione di Firenze, pronta a far ritorno a casa. La breve vacanza era terminata, ma io pensavo ancora all'abbraccio della sera precedente, sentivo ancora la mano che sfiorava la mia. Ero innamorata? Forse.
Giunta a casa, avevo trovato mio padre e mia madre impegnati nell'ennesimo litigio, e questo fatto aveva spento tutta la poesia creatasi nei giorni precedenti. Com'è possibile, avevo pensato, che due persone che si sono amate, che hanno condiviso la loro vita per oltre ventanni, arrivino a trattarsi così? In quel momento avevo realizzato che il matrimonio non faceva proprio per me.
Avevo quasi 19 anni quando, in una tiepida giornata di inizio autunno, mio padre si era ucciso, sparandosi un colpo alla tempia. Come fosse venuto in possesso di una pistola, non lo seppi mai. Fatto sta che la sua vita era stata segnata da una tragedia, avvenuta circa dodici anni prima, in cui era rimasto ucciso il mio fratellino di circa tre anni.
A mio padre la domenica piaceva cucinare, preparando la brace nel caminetto, dove cuoceva di tutto, spiedini, salsicce, verdure gratinate, polli allo spiedo e altre prelibatezze. Il giorno dell'incidente, come suo solito, aveva acceso il fuoco e preparato tutto l'occorrente sul tavolo. Alfonso, per gioco, aveva preso una graticola e si era messo a correre per la stanza. Cercando di scongiurare un pericolo, mio padre lo aveva rincorso, lui era inciampato e caduto a terra. La graticola era volata in aria e gli era ricaduta sulla nuca. Una punta metallica aveva trovato giusto lo spazio tra due vertebre cervicali, infilandosi nel midollo spinale e provocando la morte immediata del piccolo. Il papà non si era mai dato pace per questo episodio. Insieme a mia madre, avevano deciso di avere un altro figlio per compensare la perdita e così, dopo qualche tempo, nacquero i due gemelli. Il fatto di chiamare uno dei due bimbi di nuovo Alfonso non era stata affatto una brillante idea, perché ogni volta che i miei pronunciavano il suo nome ritornava loro in mente la tragedia. Col passare del tempo, miei genitori litigavano sempre più spesso. Mia madre ogni volta faceva ricadere la responsabilità della morte del bambino sul marito, che era andato incontro alla depressione, per combattere la quale aveva iniziato a frequentare delle sedute di psicoterapia. Il suo terapeuta, a un certo punto, lo aveva imbottito di psicofarmaci che, anziché farlo star meglio, lo avevano portato al tracollo psichico e, alla fine, al suicidio.
Avevo sentito un forte rumore provenire dallo studio e mi ero precipitata nella stanza di mio padre con un brutto presentimento. Lo avevo trovato accasciato alla scrivania, con accanto un laconico biglietto, dove aveva scritto solo una parola: Perdonatemi.
Non ero riuscita a versare una lacrima. Mia madre non sembrava neanche troppo dispiaciuta della perdita, anzi forse per lei era stata una liberazione. Sentivo il bisogno di parlare con qualcuno che non fosse mia madre, con qualcuno che mi comprendesse, e l'unico che poteva farlo era Stefano. Lo avevo raggiunto nel suo Studio Veterinario, alla periferia di Jesi e solo tra le sue braccia ero riuscita a dare sfogo a tutte le mie lacrime.
«Ho sofferto troppo in questi ultimi anni, ho visto troppo male intorno a me e vorrei rimediare impegnandomi in un lavoro che sia utile a qualcuno e, nello stesso tempo, che sia di mia soddisfazione personale. Dammi tu un consiglio, ti prego!»