La finestra si spalancò, una saetta entrò nel salone e andò a incendiare il contenuto del calice. Si levò un fumo grigiastro, dal cattivo odore di carne bruciata, che ricordava l'odore della strega messa al rogo quattro secoli prima. Il fumo si modellò e prese le sembianze di una donna che, volteggiando e danzando, raggiunse Aurora e si fuse con il suo corpo. Adesso Aurora era Artemisia e Artemisia era Aurora. Larìs assisteva inerme a questo fenomeno. Quando l'ultimo filo di fumo scomparve assorbito dal corpo di Aurora e il contenuto del calice si fu dileguato del tutto, le due donne caddero in un sonno profondo ed ebbero la visone di ciò che era accaduto quattrocento anni prima. Aurora viveva la visione in prima persona, nei panni di Artemisia, mentre Larìs la viveva come spettatrice, mescolata alla folla che assisteva al supplizio della strega.
Artemisia era legata al palo, sotto i suoi piedi erano state sistemate fascine derivanti dalla potatura degli olivi, e poi ciocchi più grossi di legna resinosa di pino e di abete. Il tutto era stato anche cosparso di olio per lampade. Agli altri quattro pali, che erano stati disposti a semicerchio dietro il suo, rispetto agli spettatori, erano state legate le sue quattro compagne: Viola, Emanuela, Alessandra e Teresa. Quest'ultima detta anche "il maschiaccio", in quanto era stata sorpresa più volte mentre giaceva con altre donne, era stata addirittura tacciata di essere un ermafrodita, persona in cui convivevano organi sessuali maschili e femminili. Era una donna dal clitoride talmente sviluppato da simulare un piccolo pene, capace anche di raggiungere l'erezione. Queste ultime quattro donne non sarebbero state bruciate, anche se qualche fascina era stata deposta ai loro piedi. Avevano confessato le loro colpe e avevano indicato Artemisia come loro guida spirituale, pertanto erano state legate ai pali, sia come monito alla popolazione locale, che per assistere da vicino al supplizio della loro ispiratrice. Come mai stava per aver luogo l'esecuzione, dal momento che il Doge di Genova aveva messo il veto agli Inquisitori della Chiesa, assicurando alle donne che non avrebbe permesso, in quei tempi moderni, una condanna a una morte così atroce? Il Doge andava fiero del fatto che un suo concittadino avesse scoperto, neanche un secolo prima, una nuova terra, l'America, mettendo fine a quel periodo buio che era stato il Medioevo. Non avrebbe pertanto mai permesso che la Chiesa, tramite l'Inquisizione, facesse bruciare vive queste donne, anche se erano state giudicate colpevoli di stregoneria, eresia, commistione con il diavolo, delitti contro Dio, contro la Chiesa e contro gli uomini. Il tutto era cominciato un anno e mezzo prima, nell'autunno del 1587, quando il Podestà, Stefano Carrega, e il parlamento locale, avevano indicato le streghe abitanti alla Ca Botina come principali responsabili della grave carestia, che da qualche tempo si era abbattuta su tutta la zona, e avevano chiesto al Vescovo di Albenga di istituire un processo alle presunte streghe, affinché fosse messa fine alle loro malefatte con una punizione esemplare, la condanna al rogo. Erano giunti in paese due inquisitori, due frati domenicani vestiti di nero, uno era il Vicario del Vescovo e l'altro il Vicario dell'Inquisitore di Genova. I corvi, come li chiamava la gente del luogo, fecero arrestare le cinque streghe abitanti alla Ca Botina, le quali, sotto tortura, accusarono molte altre donne del paese, non solo di origini contadine, ma anche appartenenti alle famiglie più nobili. A un certo punto gli inquisitori erano arrivati ad arrestare circa duecento presunte streghe e il Consiglio degli Anziani, considerato anche che già due donne erano morte, una per le torture inflitte, un'altra caduta da una finestra in seguito a un tentativo di fuga, decise di rivolgersi al Doge di Genova, perché ponesse fine al processo e facesse sì che venissero condannate solo le vere streghe, quelle della Ca Botina, il gruppo legato ad Artemisia, in tutto tredici donne e una fanciulla di 13 anni. Il governo genovese, quindi, non del tutto convinto della regolarità del processo a Triora, decise di interessarsene più da vicino. Passarono alcuni mesi in cui, mentre il Doge di Genova e il Vescovo di Albenga non trovavano un accordo sulla competenza per procedere, le donne rimanevano in prigione alla mercé di carcerieri che non risparmiavano loro umiliazioni e ne abusavano anche sessualmente. Nel successivo mese di Maggio, giunse a Triora l'Inquisitore Capo, per visitare le donne in carcere e accertarsi della situazione. Dopo averle di nuovo sottoposte alla tortura del fuoco, confermò le accuse per le tredici donne e lasciò libera la ragazzina. Le donne furono processate con le accuse di reato contro Dio, commercio con il demonio, omicidio di donne e bambini. Ad Agosto si giunse alla conclusione del processo, con la condanna a morte per Artemisia e le altre quattro donne più unite a lei: Emanuela Giauni, detta Emanuela la Capricciosa, Viola e Alessandra Stella e Teresa Borelli, detta Teresa il Maschiaccio, per la sua abitudine di portare i capelli corti, vestire abiti maschili e giacere con altre donne. Quando sembrava che ormai l'esecuzione della condanna delle cinque donne, per impiccagione e incenerimento dei resti, fosse imminente, intervenne il Padre Inquisitore di Genova, chiedendo che fosse rispettata la sua carica, fino a quel momento estromessa dal processo. Spettava a lui, infatti, in quanto rappresentante dell'Inquisizione di Roma, giudicare i crimini delle streghe. Così le cinque condannate vennero trasportate a Imperia e da lì, a bordo di una nave, fino a Genova, dove furono rinchiuse nelle carceri governative, in quanto l'Inquisizione non aveva posto sufficiente, andando a far compagnia ad altre presunte streghe di altre cittadine della zona. Tutto sembrava andare per il meglio, in quanto il Doge aveva promesso che avrebbe fatto in modo, ora che erano sotto la sua protezione, di salvare loro la vita. Le avrebbe tenute in carcere per un periodo, poi, quando la popolazione si fosse dimenticata di loro, le avrebbe rese libere, col patto di non fare ritorno al loro paese di origine. Ma il maligno, sotto le spoglie mortali del Podestà e del capo del Consiglio degli Anziani di Triora, ci mise lo zampino. Non fu difficile, per gli scagnozzi assoldati dai due illustri personaggi, corrompere i carcerieri con poche monete d'argento, sostituire le cinque streghe con altrettanti cadaveri di povere donne, morte per malattia o per gli stenti dovuti alla carestia che ancora imperversava tra i monti dell'alta Valle Argentina, e riportare le cinque streghe a Triora per un'esemplare esecuzione pubblica.
Legata al palo, Artemisia ripercorreva con la mente le principali tappe della sua vita, a partire dalla sua iniziazione, quando, poco più che tredicenne, si ritrovò al centro del cerchio magico, creato da sua mamma, sua nonna e altre adepte della setta, nei pressi della Fonte della Noce, una fontana situata sotto un grande albero di noci. Già allora aveva percepito la forte presenza del Maligno, una forza negativa all'esterno del cerchio, che voleva le sue vittime per assimilarne i poteri e diventare impareggiabile nella sua malvagia potenza. Gli insegnamenti trasmessi dalla mamma e dalla nonna, l'acquisizione dei poteri della veggenza e dell'uso del tatto e della vista per percepire e guarire i mali del corpo e dell'anima, erano stati da lei sempre utilizzati a fin di bene. Aveva appreso i poteri curativi delle erbe,diventando abile nel produrre pozioni che abbassavano la febbre, che toglievano i dolori, che aiutavano le donne partorienti durante il travaglio. Aveva imparato a usare, nelle giuste dosi, spore di funghi velenosi, da applicare su ferite infette per far regredire le secrezioni purulente. Aveva imparato a fabbricare talismani, a recitare le formule magiche di rito, a eseguire incantesimi di invisibilità, a formare i cerchi magici protettivi. Ma non aveva mai usato i suoi poteri per scopi malvagi, mai. Eppure, alla fine, era stata additata come strega e, insieme alle sue quattro compagne più fidate, Emanuela, Viola, Alessandra e Teresa, era stata imprigionata e torturata con la corda, con il fuoco e con l'acqua. All'inizio dell'estate del 1588 era giunto nella sua cella il Podestà, Stefano Carrega, che era colui che aveva iniziato la caccia alle streghe e, in quel momento, Artemisia aveva capito che era lui che rappresentava il male, la grande minaccia che incombeva su di lei e sulle sue amiche. Già indebolita dalle torture, fu denudata e legata mani e piedi a due pali di legno disposti formare una croce di Sant'Andrea, cosicché avesse braccia e gambe divaricate. I carcerieri le rasarono i peli della zona genitale, poi la lasciarono sola con il Podestà che le si avvicinò sollevando la tunica e mostrando un grosso membro già in erezione. Non c'era possibilità per Artemisia, legata com'era, di sottrarsi alla violenza sessuale, ma era conscia di dover essere forte in quella situazione, di non dover cedere al piacere, altrimenti, con l'atto sessuale, l'uomo le avrebbe sottratto tutti i suoi poteri e le sue conoscenze, assumendole su di sé. Ne uscì vittoriosa. Mentre sentiva il caldo eiaculato penetrare nelle sue viscere, dispose la sua mente a essere il più lontano possibile da lì, a vagare per i boschi a lei cari, e il suo corpo a non provare neanche un fremito, neanche un sussulto. Il Podestà, non essendo riuscito a raggiungere i suoi scopi, divenne furibondo.
«Peggio per te, strega! Morirete sul rogo, tu e le tue compagne, e la forza delle fiamme trasferirà su di me i vostri poteri.»
Il fatto di aver vinto quella battaglia le aveva dato un barlume di speranza e quando, nonostante la condanna degli inquisitori, lei e le sue quattro compagne vennero trasferite a Genova, pensò che il pericolo si fosse allontanato. Certo, dopo il rapporto col Podestà non le era più venuto il ciclo mensile. Era evidente che portava in grembo un figlio, o meglio, come poteva percepire, una figlia. Si rifiutava di ammettere che fosse figlia del maligno. L'avrebbe comunque iniziata alle pratiche magiche ed esoteriche, proprio come era stato fatto con lei da sua madre e da sua nonna, anzi, sentiva in cuor suo che quella figlia avrebbe avuto dei poteri soprannaturali davvero forti, in grado di contrastare qualsiasi potenza maligna e portare avanti nel bene la sua stirpe. Ma, dopo qualche mese, il maligno era rientrato in attività, si era alleato con il Consiglio degli Anziani e aveva inviato a Genova degli uomini incappucciati per riportare lei e le sue quattro compagne a Triora, dove sarebbero state giustiziate. Nel mese di Marzo Artemisia era quasi a termine gravidanza. Quando giunse a Triora, il capo del Consiglio degli Anziani, Giulio Scribani, volle accertarsi di persona del suo stato, in quanto non poteva permettere che, insieme alla strega, fosse bruciata sul rogo una creatura innocente. Artemisia usò tutti i suoi poteri per penetrare nella mente dell'anziano, in cui inculcò il concetto che lei si sarebbe sacrificata sul rogo, purché il suo sacrificio fosse servito a salvare sua figlia e le sue compagne. Il Podestà aveva fatto allestire i cinque roghi e già pregustava lo spettacolo di quella sera, in cui, per una rara congiunzione astrale, in quel giorno di equinozio di primavera, giorno di plenilunio, si sarebbe verificata un'eclissi totale della luna. Ma Giulio impose il suo volere.
«Non voglio assistere a una barbara strage. Ho mandato una levatrice da Artemisia, conosce i sistemi per procurarle un parto anticipato. Il neonato sarà affidato a una nutrice. Solo Artemisia, che è la più potente delle streghe, sarà bruciata. Le altre, legate ai loro pali, assisteranno alla sua esecuzione, poi saranno marcate in modo tale che chiunque le incontri le riconosca come streghe e le eviti. Ognuna di loro ha già uno strano tatuaggio sulla gamba destra, nella parte interna del polpaccio. Vi sono raffigurati tre tomi, che rappresentano i libri che hanno consultato e che hanno studiato per diventare adepte della loro setta. Faremo completare il tatuaggio con delle fiamme che avvolgono i libri e lo stesso tatuaggio sarà fatto a ogni primogenito femmina nella discendenza di queste streghe!»
Il Podestà lanciò lampi di odio nei confronti dell'anziano, ma non poteva contraddirlo. Almeno avrebbe potuto assumere la parte dei poteri di Artemisia. Ma questa, legata al palo, in attesa che le fiamme fossero appiccate alla sua catasta, rimaneva concentrata e formava una barriera protettiva nei confronti delle sue amiche, che erano in contatto telepatico con lei. La posizione a semicerchio degli altri patiboli dietro il suo favoriva la protezione. Così, quando dalla folla degli spettatori si levarono grida «Non le risparmiate, bruciatele tutte!» e un uomo, con una torcia accesa in mano, riuscì a scavalcare la barriera delle guardie e avvicinare la fiamma al rogo di Teresa, due armigeri lo presero sottobraccio e lo rispedirono in mezzo al pubblico con un calcio be assestato nel sedere. L'uomo rotolò a terra e si fermò proprio ai piedi di Larìs, che gli lanciò uno sguardo di disapprovazione.
Pochi istanti dopo, il boia prese una torcia da un braciere, prima la sollevò in alto per mostrare a tutti le fiamme, poi la avvicinò alla catasta di legna ai piedi di Artemisia, che si incendiò.
Artemisia, prima che le fiamme cominciassero ad avvolgere il proprio corpo, rivolse lo sguardo alla luna, che in quel momento era oscurata dal fenomeno dell'eclissi e percepibile solo come una sfera rossastra circondata da un alone, e lasciò andare il suo spirito. Doveva evitare che i suoi poteri e la sua sapienza si trasferissero a Carrega, indirizzandoli invece, con l'aiuto telepatico delle compagne, alle quali il suo sacrificio aveva salvato la vita, verso la bambina che aveva da poche ore partorito e che si sarebbe chiamata Aurora, la prima luce del mattino. In breve, le fiamme ebbero ragione del corpo di Artemisia e lo avvolsero, la donna si trasformò in torcia umana, i capelli bruciarono, i vestiti si incenerirono, lasciando scoperta la carne, che diventò prima rossa, poi nera. La sagoma di Artemisia, che ancora si torceva, era ormai solo intuibile in mezzo al muro di fuoco, che ardeva rombante. Alla fine Artemisia, con un ultimo prolungato grido di dolore, spirò, mentre le fiamme continuavano a svolgere il loro crudele lavoro. Al termine, al suolo sarebbe rimasto solo un mucchietto di ceneri.
Quando Aurora e Larìs ritornarono alla realtà erano ancora nude, distese sul freddo pavimento di marmo, con i corpi imperlati di sudore per la tensione dell'esperienza appena vissuta. Aurora, ancora stordita, afferrò un kimono di seta, lo indossò, e ne offrì uno simile alla ragazza, che era in preda ai brividi e fu ben felice di indossarlo. Quindi Aurora andò in cucina a preparare una tisana rilassante, tornando dopo qualche minuto con due tazze fumanti, che spandevano un aroma di menta nel salone.
«Perché abbiamo avuto questa visione? Qual è il significato?» chiese Larìs, cominciando a riprendersi.
«Credo di aver capito che il maligno, che è rimasto quiescente per quattro secoli, stia riprendendo vigore e voglia sacrificare delle vittime per aumentare la sua forza e la sua potenza. Dobbiamo fare attenzione, perché quelle vittime potremmo essere io, tu o le altre nostre sorelle, discendenti di coloro che quattrocento anni fa scamparono alla morte tra le fiamme.»
«Come possiamo prepararci ad affrontarlo? Abbiamo abbastanza forza per farlo?»
«Mia cara Larìs, tu e io dovremo affrontare un lungo e periglioso viaggio fino al tempio dove vive il Grande Patriarca, che ci offrirà l'accesso al sapere universale, di cui egli è custode. Ci saranno date la forza e la sapienza necessarie.»
Passo dopo passo, reggendosi alle corde laterali, erano giunte circa a metà del ponte che oscillava a ogni loro movimento, quando una folata di vento più forte fece gelare il cuore di Larìs, che cercò di nuovo gli occhi di Aurora per sentirsi rassicurata. Con cautela, le due sfilarono gli zaini dalle spalle, indossarono le giacche a vento e proseguirono fino a raggiungere la radura erbosa al di là del ponte. Da lì iniziavano almeno cinque sentieri, che si dirigevano in direzioni diverse. Quale poteva essere quello giusto da seguire? Aurora vide due rami incrociati con della terra smossa intorno, cercò un lungo ramo e, facendo attenzione a non andare a calpestare la terra smossa, distrusse la croce poi, con lo stesso ramo, disegnò un cerchio in terra, recitando delle parole che Larìs riconobbe come quelle di un contro incantesimo. Qualcuno aveva messo in atto un sortilegio, per metterle in difficoltà sul cammino da seguire. Ma Aurora aveva molta esperienza. Completato il cerchio e rivolte le parole verso il cielo, fu evidente che dalla radura aveva inizio un solo sentiero, che era quello da seguire. Attraversata la lingua di un ghiacciaio, il sentiero volgeva in discesa, fino a che le praterie d'altura lasciavano il posto a un bosco, sempre più fitto man mano che si scendeva. Ad ogni bivio, ad ogni biforcazione del sentiero, le due, d'istinto, sapevano sempre quale direzione seguire.
Il bosco offriva frutti e bacche mangerecci e ogni tanto si rinveniva una fonte d'acqua fresca per cui, anche se i viveri di scorta cominciavano a scarseggiare, non c'era modo di dover soffrire la fame o la sete. Anche le temperature si erano fatte più gradevoli e non vi era più necessità di avere indosso le giacche a vento. Il quinto giorno di cammino, uscendo dal fitto bosco, si ritrovarono in un'amena vallata, in fondo alla quale videro la loro meta.