- Vieni stasera. È lultimo dellanno.
Voglio stare con lei, ultimamente lho trascurata e sono sorpreso che mi abbia chiamato.
- Non sono di compagnia, non stasera - rispondo, raccogliendo la spesa nel carrello. Non dimentico la rakija.
- Lo so, ma vieni lo stesso. È ora di lasciar andare i brutti ricordi, per lamor del cielo, sono passati così tanti anni!
In silenzio, ascolto il suo respiro. Lei sa che ne dubito e che è inutile cercare di convincermi. Mi lascia condurre la battaglia tra ciò che desidero e il mio destino segnato. Una battaglia persa.
- No, tesoro, non posso, mi dispiace.
- Lo sapevo, ma dovevo provare. Vieni a pranzo domani?
- Assolutamente sì. Ti auguro tutto il meglio. Ti amo.
Quindi riattacco, vado alla cassa e mi chiedo da dove derivi tanta tenacia. È sola con un bambino ed io non voglio stare con i bambini. Non stasera. Immagino che si chiami amore. Amore cieco, una cosa da donne.
Stasera evito il bar. Le risate sguaiate, dallinterno del bar, mimpediscono di entrare, ma non voglio tornare a casa per ciò che mi sta aspettando lì.
Tuttavia, torno subito a casa. Per un attimo penso ai ragazzi. Probabilmente si stanno vestendo e preparando per la festa. Spensierati e felici, lontani dalloscurità che emana da Azra. Se ci fosse un centro di raccolta degli auguri di Capodanno, ne manderei uno intitolato Urgente: fate crollare il tunnel K-14 Azra per sempre con dentro sia vivi sia morti.
Quando entro nellappartamento e metto giù la spesa, mi preparo per farmi una doccia. In un istante, il bagno si riempie di vapore. Mi strofino energicamente; il fetore dellolio meccanico è in ogni poro della mia pelle. Il fetore del duro lavoro. Come quello di mio padre.
Lui è in piedi accanto alla lavatrice, dandomi le spalle. Attraverso il vapore non riesco a vedere cosa sta facendo con le sue mani e attraverso lacqua non riesco a sentire se sta sussurrando. Sussurra sempre, non parla mai ad alta voce.
In cucina mi verso un bicchierino per farmi compagnia mentre preparo la cena. La televisione illumina la stanza, dove non accendo mai le luci. Mi sento più a mio agio al buio e anche lui, credo. Si nasconde nellombra quindi non posso vederlo, anche quando cerca di farmi sapere che è lì.
Mentre taglio la carne con un grosso coltello affilato e basta un momento di sbadataggine per farmi sanguinare il dito. Impreco e lo tengo sotto un getto di acqua fredda. Un filo di sangue è attaccato al coltello.
Quella notte non cera acqua per lavare via il sangue. La pozza di sangue era in cucina e nella pozza cerano loro. Tutti loro. Scuoto la testa per dissipare quei pensieri, mi lego una benda attorno al dito, mi verso un altro bicchiere e riprendo a sistemare la carne. Ogni taglio mi ricorda le ferite che ho visto e che ho causato.
Azra. Il male. Lui.
Finisco il mio drink e ne verso un altro.
Non sono mai stato nel tunnel, nonostante le innumerevoli richieste che avevo fatto a mio padre. Aveva capito il segreto di Azra ed era per quello che non mi aveva portato mai lì, ora lo so. Anche i minatori lavevano percepito e volevo controllare il tunnel dopo la loro visita e la breve conversazione al tavolo.
E ora bevo dalla bottiglia.
Maledetta Fiat. Tra le tante officine in Serbia, aveva scelto la mia. Azra me laveva mandata per ricordare. Dopo un altro sorso, metto la carne nel forno e porto in soggiorno il piatto con gli spuntini. La televisione trasmette il programma dellultimo dellanno, proprio come allora. Cerimoniale e pomposo.
Invece di conduttrici televisive scadenti e cantanti folkloristiche mezze nude, vedo gli amici di mio padre a tavola, mia madre in cucina e la mia sorellina sullaltalena. Su altri canali, le stesse immagini dei miei ricordi si mescolano agli spettacoli dellultimo dellanno. Mi alzo e controllo la carne, non sarà pronta ancora per un po. Voglio mangiare, ubriacarmi, sdraiarmi e tuffarmi nelloblio. Prima di mezzanotte.
Dagli appartamenti vicini sento risate e musica. Le sento ovunque intorno a me. Ed io, come fossi maledetto, resto seduto da solo con una bottiglia di liquore, i miei demoni e gli orribili ricordi di quella notte. Così prendo un altro sorso e mi godo il liquido che mi alleggerisce la gola e mi riscalda la pancia.
Unombra si sposta davanti a me. Lui.
Lo guardo entrare nel corridoio a testa bassa.
- Dove vai, papà? Hai visto la tua Fiat oggi? - chiedo beffardo.
Resta sulla soglia di casa. Bevo un altro sorso e continuo:
- Sotto la radio ha ancora ladesivo che mi hai comprato al negozio allangolo
Non si muove e inizia a mordicchiarsi le unghie.
Dalla TV suonano le prime note: Love me tender, di Elvis Presley.
Ancora una volta il destino avverso segue il suo corso; non può essere una coincidenza, ce ne sono state troppe oggi. Questa canzone stava suonando anche allora, in quella notte di Capodanno, quando mio padre era tornato a casa dal lavoro, dal tunnel K-14, Azra.
Allimprovviso tutto mi diventa chiaro, forse a causa dellalcol o forse del suo comportamento insolito; tuttavia le nuvole di terrore lasciano la mia anima e scompaiono per sempre.
Non è stata colpa sua. Lho sempre saputo, bruciava nel mio subconscio ma non lavevo mai capito. Avevo bisogno della sua colpa come laria che respiro per giustificare la mia.
Elvis continua a cantare, riportandomi a quella notte.
Mia madre prepara una torta e canta la melodia con Elvis, mia sorella salta intorno al tavolo ed io sono seduto nellaltra stanza a leggere i fumetti. Non mi è mai piaciuto Elvis ed è per questo che non faccio caso alla TV. Il lampeggiare delle luci sullalbero di Natale che io e papà abbiamo montato e decorato mi annoia.
Allimprovviso mia madre mi urla dalla cucina di prendere un grosso coltello dalla dispensa; è nel vassoio con le altre torte. Lo zio adora la torta della mamma, lha fatta apposta per lui. Questanno festeggiamo insieme il Capodanno.
Ho finto di non sentire, a causa di Elvis e della sua canzone disgustosa, che contagiava le donne della casa. Mio padre diceva sempre - figliolo, sono donne - e rideva, ma mia madre si accigliava e gli rispondeva con rabbia con parole cattive.
Mia madre mi chiama di nuovo e chiede il coltello. Pigramente mi alzo dal divano, percorro il corridoio verso la dispensa, apro la porta e trovo il vassoio sullo scaffale e il coltello su di esso. La porta dingresso si apre. Mio padre mi passa accanto, non mi vede e lascia una nuvola puzzolente di polvere di carbone. Prendo il coltello.
Non è andato in bagno a lavarsi, come fa sempre quando torna a casa dal lavoro, ma è andato subito in cucina. Non aveva nemmeno con sé i regali promessi. Sono sicuro che li abbia lasciati nella Fiat. Ora mia madre lo rimprovererà per essere entrato in cucina con i vestiti sporchi.
Lo seguo e sento mamma:
- Va a lavarti, perché ti muovi in quel modo?
Mio padre non risponde. Lei continua:
- Sei ubriaco? Per lamor di Dio, lo zio sta per venire e tu ...
Lei non finisce la frase. Mio padre le afferra i capelli e le sbatte il cranio contro il tavolo. La sua espressione è fredda come la pietra e gli occhi neri come il carbone che sta scavando.
Mia sorella inizia a urlare. Elvis canta di tenerezza e amore.
Inorridito, non mi muovo dalla porta della cucina e non riesco a credere ai miei occhi, come se in sogno cogliessi le scene davanti a me. Mio padre continua, la testa di mia madre è insanguinata, e quando la solleva e la spacca, vedo che la sua faccia non cè più. È scomparsa nella pozza di sangue sul tavolo. Mia sorella continua a urlare coprendosi gli occhi.
Lui fa cadere mia madre, che crolla come uno straccio dal manico della stufa e si volta verso mia sorella. Alla fine mi rimetto in sesto e riprendo forza nelle gambe, cammino verso di lui attraverso la cucina e gli grido: Per favore papà, fermati, per favore, fermati!
Lo ripeto, apparentemente innumerevoli volte, ma mio padre non mi sente. Lui afferra mia sorella, la solleva sopra la testa e la getta sul pavimento della cucina con tutte le sue forze.
Lorrore è permanentemente impresso nella mia coscienza.
Mia sorella è sdraiata sul pavimento come una delle sue bambole. I suoi occhi sono vitrei, sembra che la vita la stia lasciando. Il sangue esce dalle sue orecchie. Mio padre si china e la picchia con il pugno. Lentamente la solleva e colpisce di nuovo.
Lui mi volta le spalle, sento il peso del coltello nella mia mano, le mie gambe iniziano a muoversi e gli conficco la lama nella sua ampia schiena. Non sente il pungiglione, continua a colpire mia sorella senza curarsi di me e della ferita che gli ho inflitto. Lo pugnalo ancora e ancora con il coltello ma lui non smette di colpire la ragazza indifesa che la vita aveva già abbandonato. Alla fine crolla sul pavimento di linoleum, accanto al minuscolo cadavere, morto.
Le mani di mio zio mi afferrano, mia zia strilla ed Elvis finisce la sua canzone.
Un altro grande sorso dalla bottiglia mi scorre in gola mentre le lacrime mi scorrono sul viso. Non ricordo il viso di mia madre, né quello di mia sorella, ma ricordo ogni singolo momento di quella notte mentre Elvis cantava quella stessa canzone.
Asciugo le lacrime che non mi asciugo da decenni. Le ultime sono scese mentre pregavo mio padre di smetterla. Vivere in un orfanotrofio le aveva allontanate per sempre.
Fino ad ora.
Lui nel suo cappotto verde, pantaloni bianchi e berretto in testa, sta sulla soglia, immobile come una lapide. Non muove le mani né sussurra. Per la prima volta lo vedo in piedi, immobile. Come se potesse leggere i miei pensieri.
- Papà ... - Lo chiamo.
Gira lentamente la testa verso di me e finalmente, dopo tutti questi anni, vedo i suoi occhi. Non sono neri come quella notte, ma marroni e caldi, come lo sono sempre stati. Ci guardiamo per qualche istante, momenti che sembrano lunghi quanto gli anni che ho passato senza mia madre, mio padre e mia sorella.
- Papà, ti perdono. Ti perdono con tutto il cuore. Ti perdoniamo tutti. Per favore, perdonami anche tu.
Le lacrime gli rigano le guance. Lui si avvicina a me, allarga le braccia e mi offre un abbraccio.
Lo abbraccio, sento le sue mani e respiro il dolce profumo. Sento tutti gli anni passati, il sorriso di mia madre, le chiacchiere di mia sorella, il nostro giardino, laltalena e la povera casa. Tutte le corse della nostra Fiat e gli anni rubati da Azra.
La sua voce, che non sentivo da tanti anni, improvvisamente riempie la stanza.
- Va tutto bene, figlio mio. Va tutto bene, non ho niente da perdonarti.
Poi scompare. E con lui, il suo odore.
- Papà?
Non ricevo risposta.
Allimprovviso mi sento vuoto, ma questa sensazione non è nulla in confronto al sollievo che si apre come un pozzo nella mia coscienza, un pozzo in cui affondano tutta la colpa, il rimorso e il dolore, anche se so che il tunnel ha lasciato cicatrici di terrore in me e quel qualcosa che mi perseguita ancora.
Il telefono è sul tavolo. Lo prendo e compongo un numero, ora non voglio stare da solo.
- È troppo tardi se vengo adesso?
Non ottengo subito la risposta, lei è piuttosto sorpresa.
- Certo che no, sbrigati, sono molto felice.
Riattacco, mi preparo e cerco papà, ma non lo trovo.
Se nè andato per sempre.
Ma la vita continua e anche la felicità. So cosa farne.
Nonostante il tunnel K-14 di Azra.