Quinto Fabio e Publio Decio, giunti sul posto, avevano visto la voragine prodotta dalla palla di fuoco piovuta dal cielo. Poco più in là, dalla terra smossa fuoriusciva la testa di un uro dalle grosse corna.
«Quell'animale è ancora vivo, tiratelo fuori e soccorretelo, può esserci utile. E scavate quella terra, deve esserci un altro bovino e un uomo», ordinò Publio Decio ad alcuni uomini. «Di solito i galli fanno lavorare questi animali in coppia e il contadino guida l'aratro a tracciare i solchi.»
Quinto Fabio si preoccupò invece di guardare cosa ci fosse in fondo alla voragine e notò dell'acqua, ma non si accorse nella maniera più assoluta dei due strani esseri che stavano risalendo lungo le pareti di terra. Ordinò a un soldato di legare un secchio a una corda e di prelevare l'acqua.
«Quell'oggetto ha scavato per noi un pozzo, proviamo se l'acqua è buona!»
Ordinò poi a uno dei suoi uomini di assaggiarla. Come questi bevve, subì una trasformazione evidente. La pelle, resa rugosa dal sole e dalle cicatrici delle battaglie, ridiventò liscia come quella di un ragazzino dedito ai primi esercizi con le armi, i muscoli divennero vigorosi ed evidenti sulle superfici lasciate scoperte dalla tunica, l'aria malaticcia del soldato, dovuta a un enfisema polmonare incipiente, si dileguò. Quinto Fabio prese la spada e abbatté l'uomo, in quanto non poteva sopportare che uno dei suoi soldati apparisse più forte e più bello di lui. Poi bevve con avidità l'acqua del secchio fino a non farne rimanere neanche una goccia. Nel giro di pochi secondi, il suo corpo di veterano si trasformò in un robusto e giovane guerriero. Quinto si sentiva come quando, sedicenne, aveva preso per la prima volta in mano una spada di ferro e aveva sfidato i suoi commilitoni sopraffacendoli uno dopo l'altro. Mentre ammirava i suoi poderosi bicipiti, i due esseri viscidi fuoriuscirono dal pozzo, attirando l'attenzione del manipolo di soldati romani che, vedendoli come strani nemici o come fonte inusuale di cibo, si avventarono su di loro. Ogni colpo che cercavano di sferrare con lance, spade, asce o con le mani nude, veniva bloccato da un'invisibile barriera che circondava i due strani soggetti.
Alfa comunicò con Beta per mezzo delle onde cerebrali.
«Questi esseri sono strani, non sono affatto intelligenti come ci aspettavamo. Anche l'ambiente è del tutto diverso da quello che avremmo dovuto trovare in base alle nostre osservazioni.»
«Cerchiamo di catturare i soggetti più interessanti e portiamoli all'interno della navetta, avremo modo di studiarli e di fare le opportune considerazioni. Prendiamo quello che sembra il capo e l'uomo che hanno appena tirato fuori dalla terra, sembrano i più forti. Neutralizziamo tutti gli altri. Meglio non avere testimoni per il momento.»
Puntando il dito indice della mano destra verso i loro bersagli, neutralizzarono uno per uno i soldati Romani, che caddero tramortiti sul terreno, colpiti da un intensissimo raggio laser. Non sarebbero morti, sarebbero in seguito rinvenuti, ma non avrebbero ricordato nulla dell'incontro con gli alieni.
Alfa prese Kakin, mentre Beta si caricava sulle spalle Quinto Fabio, anch'egli reso innocuo dal raggio laser, e si addentrarono di nuovo nel pozzo verticale, per rientrare nell'aeronave con i loro prigionieri. Sia Kakin che Quinto Fabio vennero sistemati, ancora inermi, in una nicchia apposita, in cui il computer di bordo avrebbe studiato la loro costituzione chimica e fisica, le funzioni vitali e il corredo genetico. A polsi e caviglie furono applicati degli elettrodi, mentre la testa dei due soggetti veniva inserita all'interno di una specie di casco.
Mentre il computer elaborava i dati relativi ai due terrestri, Beta faceva rapidi calcoli nella sua mente. Quando giunse alle conclusioni, le comunicò ad Alfa.
«Mentre eravamo ibernati, la navetta ha viaggiato a una velocità mille volte superiore a quella della luce. Abbiamo percorso uno spazio infinitamente grande in poco tempo. Considerando che il nostro pianeta è distante 2.600 anni luce da qui, noi abbiamo osservato la Terra come sarà tra più di due millenni rispetto al periodo in cui siamo ora!»
«E quindi non abbiamo speranze di sopravvivenza qui?»
«Non è detto. L'autonomia di queste apparecchiature è di circa duemila dei nostri anni, corrispondenti a tremila anni terrestri. Possiamo lasciare ibernati i nostri compagni e programmare il loro risveglio in un periodo più idoneo.»
«Le celle di ibernazione hanno questa autonomia, ma non il computer di bordo. La procedura dovrà essere attivata manualmente da qualcuno. Chi lo farà fra più di 2.500 anni?»
«Dobbiamo appropriarci dei corpi di questi due terrestri. Addestreremo la nostra progenie in modo che al momento opportuno sia in grado di attivare le procedure e risvegliare i nostri compagni», disse Beta, cominciando a visionare i risultati delle analisi eseguite dal computer sui corpi dei terrestri.
Su un monitor scorrevano dati relativi a Kakin.
Funzioni vitali interrotte, ma facilmente ripristinabili.
Soggetto giovane, cellule in buono stato.
Circonvoluzioni cerebrali dallo sviluppo piuttosto limitato.
La superficie della corteccia cerebrale può essere notevolmente aumentata artificialmente.
Possibilità di respirare solo in ambiente ossigenato.
Possibilità di resistere a lungo in apnea, grazie a una grande capacità polmonare. Niente branchie.
Corredo genetico costituito da ventitré coppie di cromosomi, dati dalla combinazione di nucleotidi complessi.
Beta applicò due elettrodi piatti alla zona toracica di Kakin. L'elaboratore inviò una serie di stimolazioni elettriche, alla giusta intensità e distanziate tra loro in maniera calcolata, fino a riportare il cuore, dopo alcune extrasistoli, a un ritmo sinusale normale. Il torace si sollevò una, due volte, poi anche il respiro si fece regolare. A quel punto, Beta cercò una vena nel braccio del terrestre, vi infilò un ago, collegato tramite un tubo flessibile a uno strano contenitore, poi elaborò nella sua mente delle istruzioni e osservò di nuovo il monitor.
Prima inoculazione di nanobot in corso.
Inoculazione completata.
Nanobot pronti ad adattare i codici genetici dell'ospite al corpo di Alfa.
Eseguito.
Alfa si coricò a fianco del corpo di Kakin e, in breve, i due corpi si fusero: Alfa scomparve all'interno del terrestre, che cominciò a dare segni di rianimazione.
Seconda inoculazione di nanobot in corso.
Inoculazione completata.
Nanobot in opera su circonvoluzioni cerebrali e manipolazione della memoria.
Eseguito.
Tutti i nanobot rimarranno in stand by nel torrente circolatorio, pronti a intervenire nella riparazione di cellule degenerate, invecchiate o impazzite.
Processo completato.
Kakin Alfa si alzò.
Le stesse fasi furono ripetute sul corpo di Quinto Fabio. Dopo aver inoculato l'ago in una vena dell'altro individuo, anche Beta si distese accanto al terrestre che gli avrebbe donato il suo corpo. Dopo qualche minuto, Quinto Fabio Beta si sollevò dalla sua nicchia. I due adesso erano anche in grado di comunicare tra loro, e con i terrestri con cui sarebbero venuti in contatto, per mezzo del linguaggio verbale. Entrambi potevano parlare sia il linguaggio dei Romani, che quello dei Galli, e le loro menti avevano la possibilità di sviluppare quei primordiali linguaggi per renderli molto più fluidi e adatti alla comunicazione. Un nuovo senso, mai utilizzato nel loro pianeta d'origine, era l'udito. Era strano, ma molto interessante, riuscire a elaborare i suoni che giungevano a quegli strani nuovi accessori della loro testa, che erano le orecchie. Anche se potevano ancora comunicare per via telepatica, riuscivano ora a intendersi anche per mezzo dei suoni. Era incredibile come emettendo aria dalla bocca e sincronizzando i movimenti di gola, labbra e lingua riuscissero a pronunciare un'infinita varietà di suoni. Ci avrebbero messo pochi minuti, grazie alla loro intelligenza, a imparare a utilizzare queste due nuove funzioni, la voce e l'udito.
Processo completato.
Kakin Alfa si alzò.
Le stesse fasi furono ripetute sul corpo di Quinto Fabio. Dopo aver inoculato l'ago in una vena dell'altro individuo, anche Beta si distese accanto al terrestre che gli avrebbe donato il suo corpo. Dopo qualche minuto, Quinto Fabio Beta si sollevò dalla sua nicchia. I due adesso erano anche in grado di comunicare tra loro, e con i terrestri con cui sarebbero venuti in contatto, per mezzo del linguaggio verbale. Entrambi potevano parlare sia il linguaggio dei Romani, che quello dei Galli, e le loro menti avevano la possibilità di sviluppare quei primordiali linguaggi per renderli molto più fluidi e adatti alla comunicazione. Un nuovo senso, mai utilizzato nel loro pianeta d'origine, era l'udito. Era strano, ma molto interessante, riuscire a elaborare i suoni che giungevano a quegli strani nuovi accessori della loro testa, che erano le orecchie. Anche se potevano ancora comunicare per via telepatica, riuscivano ora a intendersi anche per mezzo dei suoni. Era incredibile come emettendo aria dalla bocca e sincronizzando i movimenti di gola, labbra e lingua riuscissero a pronunciare un'infinita varietà di suoni. Ci avrebbero messo pochi minuti, grazie alla loro intelligenza, a imparare a utilizzare queste due nuove funzioni, la voce e l'udito.
I loro corpi nel tempo sarebbero comunque invecchiati. I nanobot avevano infatti la capacità di riparare e rimpiazzare cellule malate, ma avevano una limitata possibilità di rallentare il processo di invecchiamento corporeo. Nel loro pianeta di origine, i nanobot mantenevano in perfetta efficacia un corpo per circa settanta, settantacinque anni, che corrispondevano a circa cento anni terrestri. Per cui Alfa e Beta sapevano che ogni cento anni sarebbero dovuti ritornare alla loro navetta per trasferire il loro essere e la loro mente in un nuovo corpo terrestre. Ma avrebbero avuto tutto il tempo di pensare alle strategie da adottare. Adesso dovevano risalire in superficie e iniziare la loro dura vita sul pianeta Terra.
Ritornati alla luce del sole, un sole che scaldava la loro pelle in maniera inaspettata, si divisero i compiti, per avere la possibilità di proteggere al massimo il sito nel tempo. Kakin Alfa sarebbe rimasto sulla collina, avrebbe costruito un pozzo in muratura che avrebbe garantito l'accesso alla navetta in qualsiasi momento. Avrebbe continuato a coltivare la terra come se fosse il Gallo Kakin e niente fosse accaduto, ma avrebbe comunque costruito delle fortificazioni in pietra, per difendere la collina da eventuali curiosi, male o bene intenzionati.
Dal canto suo, Quinto Fabio Beta, con il suo manipolo di uomini, che non ricordavano nulla se non che erano andati a vedere gli effetti della caduta di quello strano oggetto infuocato, sarebbe ritornato a dirigere i lavori di costruzione della nuova città romana: Aesis. Avrebbe applicato alla sua realizzazione delle nozioni di ingegneria che i Romani non conoscevano e, nel giro di cinquanta anni, la città sarebbe stata una tra le colonie romane più fiorenti e inespugnabili, protetta da possenti mura, avamposto dei Romani verso i territori ancora occupati dai Galli. Sulla parte più alta della città si trovava il Foro, dove banchieri, commercianti e agrari si incontravano. Poco distante sorgevano l'anfiteatro e le Terme. L'enorme cisterna d'acqua, situata nel settore nord orientale della parte più alta della città, comunicava, per mezzo di un ingegnoso e nascosto canale sotterraneo, con il pozzo dall'acqua portentosa situato nella collina opposta. Quinto Fabio aveva provveduto a uccidere tutti gli schiavi utilizzati per la costruzione di quel canale, in quanto nessuno doveva essere a conoscenza della sua esistenza.
Cinquecento anni dopo la fondazione di Roma, a cinquant'anni circa dalla battaglia del Sentino, Aesis era ancora retta dall'anziano console Quinto Fabio Rulliano, che aveva debellato le limitrofe popolazioni di Galli Senoni e Sanniti, per aprire la strada alle conquiste romane verso le coste dell'Adriatico. Ma la collina abitata dal Gallo Kakin, noto alleato dei Romani e di Quinto Fabio, non era mai stata attaccata e ne era stata sempre garantita l'indipendenza, mai messa in discussione da nessun abitante di Aesis.
1 FINALE DI CHAMPIONS LEAGUE
26 Maggio 2010
La piccola Aurora aveva ormai due mesi, e le giornate trascorrevano veloci, una dietro l'altra. La bambina era tranquilla e dormiva beata per tutta la notte. Avevo ormai iniziato ad alternare l'allattamento al seno con poppate a base di latte artificiale. Stefano non era affatto restio ad accudire Aurora, cambiarle i pannolini e alimentarla con il biberon. Avendo già avuto a suo tempo altri due figli, si vantava di avere una certa esperienza in merito, così io ne potevo approfittare per avere un minimo di libertà personale e cominciare a pensare di riprendere la mia attività lavorativa nel più breve tempo possibile. Ma quello che mi sorprendeva di più della bambina, alla faccia delle teorie sullo sviluppo mentale di Piaget, era che già a due mesi Aurora aveva la piena percezione del proprio corpo e delle relazioni di esso con l'ambiente esterno. Potevo immaginare anche che Aurora emanasse un'intensa aura bianca, che indicava la sua purezza di neonata, ma che faceva anche presagire che sarebbe stata in futuro una persona dalle grandi capacità intellettive e buona e altruista per natura. Mi sarei potuta godere quella splendida creatura in tutte le fasi della sua crescita, con grande soddisfazione di essere la sua mamma. Non vedevo l'ora di farla conoscere a Clara che, con i suoi poteri esoterici, avrebbe potuto rivelarmi qualche interessante dote innata della piccola che magari a me sfuggiva. Nel frattempo mi godevo lo sguardo vivace e i sorrisi che si stampavano sul viso tondo di Aurora, caratterizzato da due enormi occhi azzurri. Durante la giornata spesso la vedevo osservare tutto quello che la circondava con quegli occhioni, ed era difficilissimo sentirla piangere, anche se era sveglia, se non per reclamare il cibo all'ora delle poppate.
Era un mercoledì sera quando notai Stefano mettersi davanti alla televisione per seguire una partita di calcio.
«Da quando in qua sei un patito del calcio? Non ti sei mai appassionato a questo sport!», dissi accoccolandomi sul divano accanto a lui e ricevendo in cambio un tenero abbraccio.
«Stasera c'è la finale di Champions League: Fiorentina Chelsea. È un evento straordinario, in quanto l'allenatore, Roberto Gloriani, colui che viene chiamato Mister nel gergo calcistico, è originario della nostra città, lo conosco da quando eravamo ragazzi. Era un gran giocatore fin da bambino, ha giocato per diversi anni in squadre di Serie A, riuscendo a mettersi da parte un bel gruzzolo. A trentasette anni, valutando i sei zeri del suo conto in banca, si era ritirato dal campo di gioco, ma dopo un paio di anni trascorsi in tutta tranquillità, ricominciò a frequentare gli stadi italiani come allenatore. Per diversi anni è stato il Mister della Fiorentina, riuscendo a riportare la squadra a vincere il maggiore campionato italiano, dopo decenni che non vedeva più uno scudetto. L'anno scorso, nonostante la Fiorentina abbia vinto comunque il campionato, è stato tutto un susseguirsi di dissapori e polemiche, sia con alcuni giocatori che con i dirigenti della squadra, per cui Gloriani è arrivato a rompere il contratto con la società con un anno di anticipo, trovandosi a dover pagare anche una bella penale. Ma ha trovato subito di che rifarsi. È stato chiamato ad allenare un'importante squadra inglese, il Chelsea, che doveva rimettersi in carreggiata dopo essere arrivata negli ultimi posti della classifica della Pemier League Britannica e aver rischiato di retrocedere. Il Gloriani ha così accettato un nuovo contratto milionario, con la clausola che la squadra avrebbe acquistato dalla Fiorentina anche il suo giovane pupillo, un giocatore di colore, di nazionalità Italiana, ma la cui famiglia è originaria del Ghana, tanto bravo quanto indisciplinato: Annibale Burk. Il Chelsea, quest'anno, non ha vinto la Premier League, ma si è comunque sempre mantenuto nei primi posti della classifica. Il nostro caro Mister, per rifarsi del mancato scudetto, ha promesso alla dirigenza e alla squadra la vittoria della Champions League, una delle più ambite coppe internazionali. Ironia della sorte ha voluto che la finale fosse giocata proprio contro la sua vecchia squadra, e così stasera ci sarà da vederne delle belle.»