Non potevo portare due zaini, quindi tenni tutto nel mio, che era in condizioni migliori, tranne una delle coperte, il cuscino che occupava molto spazio e tutte le figure di legno, inutili in questo ambiente, che seppellii e coprii con resti di foglie. Mentre scartavo alcune cose, ricordavo le persone per le quali erano; Elena, la mia famiglia, i miei amici, Alex, Juan... e non passò molto tempo prima che ricominciassi a piangere. Non li avrei rivisti mai più, nessuno di loro. Beh, avrei rivisto presto Alex e Juan, in paradiso o dovunque si vada una volta morti.
In quel momento mangiai le barrette di cioccolato disfatte dal calore, pulendo l'involucro con la lingua fino a quando non ne rimase traccia. Erano buonissime. Bevvi anche quella poca acqua rimasta nella bottiglia. Fu allora che mi resi conto che dovevo fermarmi un attimo per riflettere sui miei passi successivi. Mi vennero in mente alcune domande: i ribelli sapevano che ero vivo? Dove sarei andato adesso?
Rispetto alla prima domanda, non avevo risposta. Forse erano riusciti a convincere qualche passeggero a confessare che mi aveva visto, forse avevano cercato nei dintorni e avevano trovato le mie tracce o la lattina che avevo gettato a terra dopo averla bevuta (era stato un grosso errore, anche se in quel momento ne avevo abbastanza col problema di dover scappare), forse stavano dappertutto e mi avrebbero trovato comunque, o magari non sapevano nulla. Qualunque cosa fosse successa da quel momento in avanti, avrei dovuto cercare di stare più attento e lasciare il minor numero di tracce possibile ovunque andassi.
Rispetto a dove andare. Mi sembrava di ricordare che dall'aereo, durante latterraggio vertiginoso, avevo visto un villaggio all'orizzonte, in una grande radura nella giungla. Quello che non sapevo era se sarebbe stata la base dei ribelli o no, ma era molto probabile, visto che era molto vicino a dove ci avevano attaccato. Dato che stavamo viaggiando dal Sud Africa verso il nord, dovevo presumere che continuando sempre verso nord avrei lasciato la giungla, sarei arrivato in un altro paese e avrei avuto più possibilità di trovare aiuto. Come mi mancavano i miei amici adesso! In quel momento mi sarebbero serviti l'entusiasmo, l'ottimismo e la gioia traboccanti di Alex e la fredda capacità di analisi, calma e determinazione nellaffrontare le situazioni di Juan. Quanto avevo bisogno della loro compagnia per trovare abbastanza coraggio e per affrontare questa sfida indesiderata che mi si presentava inevitabilmente! Con loro sarebbe stato più facile, addirittura un'avventura da raccontare al ritorno; ma erano morti, assassinati, sterminati come mosche volgari senza pietà, annientati nel fiore della vita... e io dovevo sopravvivere in un modo o nellaltro. Bastardi, figli di...! Tranquillo, Javier, tranquillo, dovevo cercare di mantenere la calma, era la mia unica opzione se volevo avere qualche possibilità. Bene, il sole sarebbe dovuto sorgere a est e tramontare a ovest, quindi se aveva albeggiato più o meno da quel lato... sarei dovuto andare in quella direzione. Se con quel sistema di orientamento fossi arrivato da qualche parte non sarebbe stata abilità, ma un miracolo. Comunque, per essere sicuro, scalai con attenzione uno degli alberi più alti che riuscii a vedere.
Fu facile, poiché aveva molti rami da usare come scale, anche se più in alto salivo più erano piccoli e flessibili, quindi feci molta attenzione ad appoggiare i piedi proprio sulla base dei rami, che era la parte più ampia e resistente. Spuntava sopra la maggior parte degli alberi e, quando raggiunsi quasi il punto più alto, il panorama era scioccante. Un mare verde si stendeva in tutte le direzioni come un tappeto, salendo e scendendo, seguendo il contorno della terra, imitando le onde, una vasta distesa di vita. Solo alcuni alberi solitari molto più alti degli altri spiccavano nell'immensità di quell'arazzo, formato dalla chioma delle cime infinite della giungla. Non vedevo altro che le cime degli alberi in tutte le direzioni, senza fine. Anche con l'aiuto del binocolo non si vedeva nulla da nessuna parte. La verità è che questo non mi aiutava troppo nella mia ricerca della direzione da seguire. Scesi dall'albero e nascosi lo zaino di Juan, con tutto ciò che rimaneva in esso, seppellendolo per metà sotto un tronco caduto. All'ultimo momento decisi di tenere la giraffa per Elena, se mai l'avessi rivista, volevo avere un regalo per lei. Diedi un'ultima occhiata in giro per controllare che non restassero chiari segni della mia presenza e, quando ero mediamente convinto, iniziai a camminare senza troppe speranze. Quanto avevo bisogno dei miei amici!
Durante la marcia incontrai alcuni uccelli colorati con suggestivi petti rossi e il resto del corpo verdastro6. Volteggiavano in uno stormo di circa dodici o quindici tra i rami degli alberi con incredibile agilità. Non appena feci un po di rumore scomparvero dalla mia vista in un batter d'occhio. Solo quegli splendidi animali mi fecero uscire per un momento della opprimente sensazione di solitudine con cui la giungla mi colpiva implacabilmente, un mondo opprimente, ostile, spietato, nell'oscurità permanente in cui il peso, lo sconforto o il soffocamento non erano altro che abituali compagni di viaggio.
Il percorso era difficile. Dovevo costantemente aggirare o saltare ostacoli. A volte c'erano delle piccole radure, ma le costeggiavo per paura di risultare troppo visibile. Sudavo senza sosta e avevo molta sete, ma non volevo bere un'altra lattina perché ne restavano solo tre. Dovevano essere circa 25º con un'umidità molto elevata, il che accentuava la sensazione di oppressione e calore. Per un po' mi tolsi la maglietta, ma venni punto da così tante zanzare che dovetti rimettermela. A volte il bosco diventava troppo fitto e dovevo farmi strada con un bastone che avevo raccolto e usato come macete. In quei casi, praticamente non avanzavo, poiché con il bastone il massimo che riuscivo a fare era rimuovere i rami dal sentiero mentre passavo, non tagliarli. Inoltre, avevo la parte inferiore delle gambe e gli avambracci pieni di ferite causate dallo sfregamento delle piante in quelle zone in cui i vestiti non mi coprivano. Perfino il viso mi pizzicava in diversi punti, segno che mi ero tagliato anche lì.
A volte il terreno era pieno di rami o tronchi abbattuti, altre volte era morbido, coperto di foglie cadute, e dovevo stare attento a non torcere la caviglia in un buco o scivolare, perché sarebbe stato fatale. In alcune zone le cime degli alberi erano così vicine da impedire il passaggio della luce, creando atmosfere di chiaroscuro, sicuramente cupe; oppure formavano diversi piani di luci di diverse tonalità a seconda delle altezze. In quelle zone passavo spaventato perché avevo l'impressione di essere costantemente attaccato da fantasmi, che in realtà erano i rami più alti degli alberi che si muovevano al suono del vento, che doveva essere sul tetto verde della giungla e che, per inciso, faceva si che si producesse un terribile urlo perenne che ti perseguitava da tutte le parti. Più volte la giungla si addensava così tanto che era assolutamente impraticabile e dovevo fare lunghe deviazioni per andare avanti. Non avevo mai creduto che così tante piante diverse potessero vivere assieme. Non vedevo più il romanticismo di camminare nella giungla come gli esploratori, inoltre, volevo uscire da quel luogo il prima possibile. Infine, dato che stavo facendo molto rumore, mi tremava il cuore pensando che, se mi avessero seguito, sarebbe stato molto facile localizzarmi.
Proprio come durante la notte, c'era un suono incessante in tutte le direzioni, non era lo stesso rumore, però si sentiva anche il ronzio degli insetti, strani canti di uccelli nelle cime degli alberi e alcune urla che supponevo provenissero da delle scimmie o qualcosa del genere. Almeno non si sentivano i ruggiti inquietanti, dovevano essere stati di un cacciatore notturno, o almeno così volevo credere. Per quanto potessi vedere, non vedevo molti animali, ma potevo sentirli tutti.
Proprio come durante la notte, c'era un suono incessante in tutte le direzioni, non era lo stesso rumore, però si sentiva anche il ronzio degli insetti, strani canti di uccelli nelle cime degli alberi e alcune urla che supponevo provenissero da delle scimmie o qualcosa del genere. Almeno non si sentivano i ruggiti inquietanti, dovevano essere stati di un cacciatore notturno, o almeno così volevo credere. Per quanto potessi vedere, non vedevo molti animali, ma potevo sentirli tutti.
Guardai l'ora sul mio orologio. Erano le dieci del mattino. Camminavo da un'ora e non ne potevo più. Il ginocchio aveva già iniziato a inviare segnali di avvertimento, lo sentivo un po' gonfio. Più volte i legamenti o qualunque cosa fossero mi si erano accavallati e avevo dovuto rimetterli a posto con la mano, massaggiandoli delicatamente ma con fermezza. Mi sedetti per terra a riposare un po', appoggiato a un tronco di un albero molto alto e ci strofinai le mani. Il caldo mi fornì un po di sollievo. Ero in una zona abbastanza libera. Dopo un po di tempo che stavo seduto, vidi sul ramo di un albero di fronte a me un uccello simile a un pappagallo con un piumaggio bluastro opaco, l'unica nota di colore era il rosso della sua coda, con un alone bianco intorno agli occhi, il becco nero ed emetteva strilli quasi umani7. Girava la testa praticamente in tutte le direzioni, senza muovere il resto del corpo, ricordandomi la ragazza dell'esorcista. Si avvicinò dondolandosi a un frutto dellalbero e cominciò a beccarlo. Il frutto era di colore rosso-arancio, delle dimensioni di una mano e di forma simile a una zucca.
Sicuro che sai dove sei, dissi tra me e me, sicuro.
Rimasi quasi mezz'ora a riposare, dopodiché ricominciai a camminare. Ogni volta che costeggiavo una radura e dovevo riprendere la direzione presumibilmente corretta, mi convincevo sempre di più che sarei potuto rimanere a girare per anni senza accorgermene. Mi sembrava tutto uguale e il sole non mi era già più di grande aiuto. Guardavo quanto era alto, lo confrontavo con l'ora dellorologio e arrivavo alla conclusione che non avevo idea di cosa stessi facendo. Continuai con lo stesso ritmo tutta la mattina, camminavo un'ora e mi riposavo per un po'. Nei momenti di riposo leggevo il frasario in swahili o il diario di viaggio per intrattenere la mia mente con qualcosa, magari mi sarebbe servito per comunicare con qualcuno in un ipotetico incontro. Ogni volta era più faticoso alzarsi e continuare, il mio ginocchio mi faceva zoppicare e verso le due del pomeriggio caddi arreso.
Era tutta colpa mia, avevo trascinato i miei amici in questo posto infernale, per colpa mia erano morti. Se li avessi ascoltati saremmo stati di ritorno dall'Italia con tantissime foto di Venezia e qualche cartolina della Toscana. Colpa mia, era tutta colpa mia.
Ero assetato e il mio stomaco ruggiva ininterrottamente. Mi trovavo di fronte a un dilemma: mangiare per recuperare le forze o risparmiare, data la scarsità di cibo che avevo, rischiando che mi succedesse qualcosa? Si supponeva che avere cibo e acqua in una giungla fosse facile, o almeno così pensavo in quel momento, ed ero molto affamato, quindi optai per bere una lattina di soda e mangiare i biscotti rosicchiati, allontanando le formiche soffiando, e il panino. Alleviai un po' il mio appetito tenace. Tenni le mele cotogne pensando che ci avrebbero messo più tempo per rovinarsi. Poi mi addormentai per la stanchezza e perché non ero riuscito a dormire la sera prima.
Quando mi svegliai sentii un suono sibilante molto vicino. Doveva esserci un serpente accanto a me. Rimasi immobile cercando di affinare ludito per scoprire dove potesse essere. La paura mi attanagliò lo stomaco e divenne faticoso respirare. Una volta avevo visto un documentario sui serpenti chiamato "I serpenti dei tre passi", perché quando ti mordevano ti davano il tempo di fare solo tre passi prima di morire. Questo in fondo non era male considerata la situazione, ma se fossi stato morso da un serpente che mi avrebbe fatto agonizzare per ore, perdendo il controllo a poco a poco, raggiungendo il parossismo della follia... Avevo così paura di soffrire, il terrore del dolore. Se dovevo morire volevo che fosse una cosa rapida, quasi lo desideravo per liberarmi della situazione in cui mi trovavo. Me lo meritavo. Mi sembrava che il sibilo fosse man mano più vicino, potevo anche sentire il fruscio delle foglie al suo passaggio, si stava dirigendo verso di me, ne ero sicuro. Quasi potevo sentire come scivolava sul mio corpo, salendo dalla gamba verso il mio collo, era quasi arrivato, stava per mordermi. Chiusi gli occhi per un momento e respirai profondamente, cercando di calmarmi. Poi riaprii gli occhi e, senza muovermi di un centimetro, li muovevo in tutte le direzioni cercando di localizzarlo. Finalmente riuscii a vederlo. Stava raggomitolato su un ramo di un albero tre metri alla mia destra, alto circa due metri. Muoveva solo la testa da un lato all'altro, come se stesse tenendo docchio qualcosa. Era di colore verde con un leggero tocco bluastro, un po' giallastro ai lati, con una lunga coda, poco più di un metro di lunghezza, e un corpo magro, come se fosse compresso lateralmente, quasi invisibile tra le foglie8. Quando scivolò lungo il ramo, vidi che aveva la pancia biancastra.
Restai per un po' senza muovermi, in ascolto, finché mi convinsi che era lui quello che avevo sentito e il resto era stato il risultato della mia immaginazione. Mi alzai lentamente e scrutai il terreno per cercare un altro serpente, ma quello che vedevo era l'unico. Almeno l'unico che avevo localizzato. All'inizio pensai di fare una deviazione e di andarmene, ma poi mi ricordai che si diceva sempre che la carne di serpente aveva il sapore del pollo, che era molto buona. O almeno questo era ciò che i nonni raccontavano come storiella della guerra civile e della fame che avevano sofferto. Mi sembrò una buona opportunità per procurarsi del cibo e, se inoltre avrebbe avuto un buon sapore, sarebbe stato ancora meglio. Cercai un bastone lungo con una punta a "V" per cercare di tenergli la testa. Tolsi anche il coltello dalla tasca, lo aprii e lo misi sulla cintura dei miei pantaloncini. Trovai un ramo caduto adatto e gli diedi la forma che stavo cercando, tagliando un'estremità a forma di V, senza mai perdere di vista il serpente. Il processo di preparazione mi sembrò infinito e mi esaurii estremamente, sebbene in realtà non comportasse alcuno sforzo fisico considerevole.
Quando fui pronto, mi avvicinai di soppiatto al serpente. Questo sembrò non accorgersene o mi ignorò, in ogni caso non mi prestò nessuna attenzione. Quando fui a circa mezzo metro di distanza, sollevai il bastone e lo colpii con tutte le mie forze sulla testa. Con il primo colpo rimase mezzo sospeso, così glie ne diedi altri due finché non cadde a terra. Poi gli agganciai la testa con la forchetta del bastone e premetti molto forte contro il terreno. Il serpente tremava convulsamente, sibilando senza sosta ed io ero terrorizzato. Se lo avessi lasciato per colpirlo a distanza con il bastone, avrebbe potuto attaccarmi, l'altra opzione era avvicinarmi e infilzarlo con il coltello. Raccogliendo il mio coraggio, mi avvicinai e calpestai la coda, premendola a terra nel tentativo di tenerla ferma. Mi chinai e conficcai il coltello appena sotto la testa dellofide, incollato al bastone, lasciandolo conficcato a terra. Tuttavia, continuava ad agitarsi, così tolsi il coltello e segai il suo collo fino a quando non separai la testa dal resto del corpo. Poi feci un salto indietro, temendo, ignaro, che potesse ancora attaccarmi. La coda continuava a dimenarsi senza sosta, sputando sangue dove prima cera la testa. Lo colpii un paio di volte con il bastone, ma non gli importò, quindi decisi di lasciarlo lì per un po'. In meno di mezzo minuto, smise di muoversi gradualmente fino a quando fu completamente fermo. Gli diedi qualche colpetto con il bastone ma non si muoveva. Era decisamente morto. Finalmente riuscii a respirare tranquillo.