Lia - Delio Zinoni 7 стр.


Mi resi conto che quella doveva essere una delle costruzioni più antiche di Morraine.

Alzai gli occhi, con un senso quasi di vertigine, e guardai nel varco fra i due edifici. Era un corridoio strettissimo... anzi... cercai nella memoria la parola che dovevo aver letto sui libri, perché non si usa a Morraine... un vicolo. Un uomo dalle spalle larghe avrebbe potuto percorrerlo solo di sbieco. La lunga striscia di cielo, fra i muri privi di finestre, sembrava una spada sul punto di calare.

Tornai al centro del cortile, da dove si poteva scorgere la torre. Forse era davvero quella del Cortile Segreto: la posizione corrispondeva. La piccola porzione visibile non mostrava comunque alcuna corda.

Un’altra falda di neve, cadendo vicino, mi fece sobbalzare. Mi guardai alle spalle. Il vetro di una finestra mandò un bagliore di luce grigia, come se si fosse mosso.

Non c’era altro da fare, lì. Con un senso di sollievo, abbandonai il cortile senza nome e ritrovai il consueto trambusto di Morraine.

(10) LA MAPPA


L’insegna diceva semplicemente:

ARNO BORISSEIN

Libri nuovi e usati

Sotto era dipinto il gufo, o la civetta, che già avevo visto. Nella vetrina erano esposti volumi polverosi, alcuni aperti per mostrare le illustrazioni. Molti erano in lingue straniere o in alfabeti sconosciuti. Non riconobbi nessun titolo.

Tirai un sospiro ed entrai.

Nessuna traccia del proprietario. Dalla porta socchiusa del retrobottega filtrava una luce. Mi avvicinai al bancone. Le mappe non erano state ancora rimesse al loro posto, e giacevano ammucchiate in un angolo. Allungai una mano.

– I libri usati non si cambiano.

Ritirai la mano di scatto, come se fossi stato scoperto a rubare. Il libraio era apparso da tutt’altra direzione che il retrobottega, forse da dietro qualche scaffale.

– Cosa credevi che fosse? – L’uomo indossava lo stesso abito della sera prima. Che non era eccessivamente pulito, come del resto la sua bottega.

Finalmente capii di cosa stava parlando.

– No, non volevo cambiarlo – dissi. – Cercavo... dei libri di teatro.

Arno Borissein mi guardò con sospetto. – Nuovi o usati?

– Usati...

– In questo caso, devi cercarteli da solo. Sono tutti alla rinfusa. – Indicò con un ampio gesto della mano la scaffalatura dove già avevo rovistato la sera prima. – Non posso certo metterli in ordine. La gente crede che fare il libraio sia facile. Nulla di più errato! Ci sono milioni di titoli, antichi e moderni; decine di migliaia di autori. Stampatori, editori, lingue e alfabeti. Occorre discernimento e cultura, pazienza e acume. E poi, di fronte al modesto prezzo di poche lire, o di misere piastre, storcono il naso! Ma un libro è stato pensato e scritto in lunghe notti di veglia; la carta macerata e pressata, i caratteri composti, ordinati, impressi. Le pagine cucite e rilegate. Il volume trasportato per mare e per terra, fino alla bottega del povero Arno di Morraine. Può essere letto e riletto da un numero illimitato di persone per un numero illimitato di volte. Eppure lo pagano una volta sola! – Alzò le mani al cielo, come chiamandolo a testimone di un’ingiustizia.

Io mi dedicai allo studio dei libri usati. Titoli ed autori mi erano per la maggior parte ignoti. Alcuni che suscitarono la mia curiosità li estrassi e li sfogliai. Arno Borissein, nel frattempo, aveva deciso di fidarsi di me e si era nuovamente eclissato.

Nel ripiano più basso scorsi un titolo promettente: Tragiche Historie. Si trattava di una raccolta di canovacci, scheletri di tragedie, senza alcuna grazia di stile o ricchezza di concetti, ma non privi di un fascino che derivava dalla loro essenzialità. Una cosa la rendeva preziosa ai miei occhi: la presenza, fra le sue pagine, della storia di Teseius e Phenissa.

Portai il volume sul bancone, per sfogliarlo meglio, e i miei occhi furono nuovamente attratti dalle mappe. Alcune erano arrotolate, altre ripiegate più volte; la carta era spessa, ma in genere ingiallita, con i bordi frastagliati; alcune mostravano i fili di un tela sottostante, che serviva a renderle più resistenti. Una sola appariva in buono stato; la presi, e la riconobbi subito: era quella che aveva studiato da ultimo l’alchimista.

Quando la toccai, mi parve di avvertire un brivido lieve: era liscia ma leggermente morbida, come un velluto finissimo. L’aprii, sperando di vedere il mare azzurro e profondo... I colori erano vividi, come appena stampati, ma dopo tutto era una normale mappa, e per di più illeggibile, a causa dei caratteri stranieri. Provai a inclinarla in varie maniere rispetto alla luce della lampada, ma la mappa continuò a negarmi le sue meraviglie.

Non mi ero ancora deciso a ripiegarla, quando riapparve Arno Borissein.

– Fai attenzione. Le mappe sono fragili.

– Questa... quanto costa? – mi sorpresi a chiedere.

– Ancora non hai deciso cosa vuoi? Ti avverto: è cara. Appartiene alla Prima Era. Non meno di otto lire!

Era una cifra esorbitante, per una mappa inutile, e lo feci notare al libraio.

– Inutile! – Arno alzò le mani al cielo. – Che ne sai tu?

Prese il volume delle Tragiche Historie. – Forse che queste servono a qualcosa? Ma la gente accorre a vederle, paga per sentirle recitare su un palcoscenico, magari da attori privi di talento!

L’argomento era doloroso, e preferii lasciarlo cadere. Tuttavia c’era qualcosa che non mi convinceva nel ragionamento di Arno.

– Le commedie sono fatte per essere recitate, le mappe per trovare dei posti – obiettai.

Arno Borissein sbuffò esasperato. Ma dopo un attimo, come fra sé, mormorò: – Alla fine, il teatro e le mappe sono solo degli espedienti per sognare.

Di nuovo Arno Borissein se ne andò, ed io di nuovo rimasi solo. La mappa mi attirava in maniera incomprensibile. La spostavo sul bancone, mi rimettevo nella posizione di due sere prima, cercando inutilmente l’abisso del mare e l’asprezza degli scogli e il tremolio delle foglie. Forse, dopo tutto, aveva ragione Arno, e me l’ero solo sognato...

Entrò un cliente. Arno lo servì, poi tornò da me con aria impaziente. E ancora una volta, come mi stava accadendo troppo spesso negli ultimi tempi, mi accorsi di aver parlato prima di pensare.

– Chi era quel signore che voleva acquistarla, l’altro giorno? – Arno ci mise un momento prima di rispondere. Il tempo che impiega una falda di neve per cadere da un tetto.

– Ah... l’Adepto. – Alzò le spalle. – No, non voleva comprare nessuna mappa. È sempre così. Chiedono le cose più strane, fanno perdere tempo, poi non comprano niente.

Non capii se parlava in particolare dell’alchimista, o in genere dei suoi clienti.

– Ma... viene spesso?

– Oh, no. Molto raramente. Rimangono quasi sempre chiusi in casa. I maestri, poi, non si fanno mai vedere.

Stavo per chiedere dove rimanevano chiusi, ma poi pensai che non ce n’era bisogno.

E alla fine, dopo aver molto mercanteggiato, uscii dalla bottega di Arno Borissein con la mappa e le Tragiche Historie, al prezzo complessivo di cinque lire e sei piastre. Che era più o meno tutto quello che avevo in tasca.

Chiuso nella mia stanza, mi misi a studiare la mappa. Era diventata quasi un’ossessione per me. La guardavo sotto ogni angolazione, alla luce del sole e della luna, dalla lampada ad olio e della candela. Niente...

O quasi.

Mi ero messo in testa l’idea impossibile di decifrarne la lingua sconosciuta. Avevo compilato un elenco di segni, che raggiungeva un numero esorbitante per qualsiasi normale alfabeto. Molti dovevano essere simboli, e infatti comparivano più volte sulla mappa vera e propria, e di solito una volta sola nelle iscrizioni lungo i bordi. Ma c’erano singolari discrepanze che rendevano impossibile riconoscere una vera e propria legenda. Alcuni segni, poi, si presentavano in forme diverse ma simili: mere varianti grafiche, o lettere diverse? In base all’oggetto indicato, decifrai in via ipotetica tre parole: fiume, monte, e baia.

Avevo diviso la mappa in settori, che non corrispondevano peraltro a quelli tracciati sulla carta, e che presentavano una bizzarra e apparentemente inutilizzabile combinazione di linee verticali, orizzontali e radiali: queste ultime che si dipartivano da due centri situati in maniera apparentemente arbitraria.

La notte era inoltrata e l’olio della lampada stava per finire. Chiusi gli occhi per la stanchezza. Forse mi assopii per qualche momento. Quando li riaprii, volavo. Sotto di me c’era il mare, attraversato da una striscia abbagliante di sole nascente. C’era l’isola verdeggiante, a forma di testa di cigno, con una laguna che si insinuava formando quasi il suo occhio, un molo e bianchi fili di strade. Al centro dell’isola, sul punto più alto, un grande edificio circolare, forse un tempio. Accanto ad esso, una guglia sottile gettava una lunga ombra sulle cime degli alberi.

Ero un uccello che scendeva ad ali distese, in una lenta spirale. Vidi le ombre girare lentamente, l’isola avvicinarsi... sbattei le palpebre, e il mare tornò ad essere di carta.

Il lucignolo della lampada sfrigolava. Emise ancora qualche scintilla e si spense.

Una lenta luce biancastra cominciò a filtrare dalla finestra: la luce della neve sotto un cielo notturno e nuvoloso.

Quel mare, pensai, poteva essere agli antipodi esatti di Morraine.

(11) STORIE TRAGICHE


L’anno giunse al punto più basso della sua ruota. Nella Notte del Grande Cerchio d’Ombra, com’è tradizione, i bambini di Morraine ricevono doni, portati da una fanciulla cieca

Quell’anno ebbi una cintura di cuoio, con una borsa, che ho poi usato per buona parte delle mie peregrinazioni; carta e inchiostri colorati; un flauto in legno di bosso intagliato, che non ho mai imparato a suonare con qualche competenza.

Qui il viaggiatore scosse la testa con rimpianto.

E altre cose che non ricordo.

Ah, sì: da una zia alcune lire, con cui tornai nella bottega di Arno Borissein, uscendone con certi romanzi a poco prezzo e una malconcia Storia Universale dei Viaggi, ossia Atlante delle Terre Antiche e Moderne, ricco di mappe su cui cercai invano la mia isola.

Ogni volta che avevo qualche soldo in borsa (che mi accadeva quando lavoravo meglio o più del solito nella bottega di mio padre, oppure grazie alle misteriose leggi della generosità degli adulti), andavo da Arno, o in un paio di altre botteghe che avevo scoperto nel frattempo, dove vendevano libri di seconda mano.

La sera, mi ritiravo nella mia camera a leggere.

La chiamo camera, anche se in verità non lo era, esattamente. Forse vi interesserà sapere com’era fatta

All’angolo sud-ovest del Cortile del Nano si leva una torre massiccia, non tanto importante da meritare un nome. A ridosso di questa, una fetta di tetto era stata rialzata da qualche nostro antenato, onde ricavare le stanze dove abitavamo. Qualcuno, in seguito, aveva trasformato parte di questo tetto in una terrazza. E mio padre, quando nacqui, aggiunse la mia stanza. Così cresce Morraine: non allargandosi, ma innalzandosi e aggiungendo con grande parsimonia cellule al proprio tessuto di tetti. C’è da aggiungere che noi di Morraine, forse proprio perché viviamo tutti in una stessa casa, ci teniamo molto a potercene stare da soli, quando vogliamo. Ed è un privilegio che i genitori, appena possono, cercano di accordare anche ai loro figli. Io poi ero il primo.

Così mio padre, quando avevo compiuto appena qualche mese, andò insieme a parenti ed amici sulle colline ai piedi dell’Yiril, dove solitamente si procurava il legno per la sua bottega, e abbatté un pino non troppo alto. Ne ricavò due robuste travi, che a forza di braccia, di muli e di un carretto trasportò a Morraine. Nella sua bottega le scorticò, le piallò, le lavorò. Dal Cortile del Nano le travi vennero issate sul tetto con grande concorso degli abitanti del cortile stesso, e posate di sbieco fra il muro della nostra casa e due sostegni sporgenti dalla torre: una per reggere il pavimento, l’altra il tetto. E così, quando fui un po’ più grande, mi ritrovai con una stanza trapezoidale, il letto che occupava uno dei lati (e per quanto ne so lo occupa ancora), un armadio quello opposto, un piccolo tavolo sotto la finestra, che guardava il sorgere del sole. Non avevo da lamentarmi: esistono stanze ancora più piccole o più bizzarre, a Morraine.

La forma della mia stanza e la sua storia, devo dire, non sono affatto importanti per capire gli eventi successivi del racconto. Servono solo a farvi immaginare meglio quel ragazzino magro e sgraziato, mentre alla luce di una lampada studia la mappa che genera sogni di uccello.

Una di quelle sere, in mancanza di meglio, affrontai perfino i Fiori di bianco prato. Scoprii così che il prato in questione era il foglio e i fiori le parole. Appresi anche che si trattava di una metafora. O forse di un enigma: la distinzione non era del tutto chiara. Malgrado la prosa arcaica, trovai la lettura non priva di interesse, in parte grazie alla moltitudine vertiginosa di esempi, in parte grazie a quel fascino inquietante che è proprio dell’astuzia combinatoria.

Concepii così il primo germe di un piano temerario, ma come si vedrà in seguito non del tutto infruttuoso.

Ricordavo, infatti, a proposito di quel penoso tentativo di rappresentazione, su cui nessuno di noi era più tornato, che l’unico mio contributo a non aver suscitato imbarazzo era stato l’adattamento della ridondante versione del Mago di Qom in nostro possesso. Di qui la mia idea: se non sapevo recitare, la strada della scrittura non mi era preclusa! E chissà, un giorno Lia avrebbe perfino potuto recitare i miei versi!

Visto in questa nuova luce, l’acquisto del tutto casuale dei Fiori, seguito da quello, più deliberato, delle Tragiche Historie, acquistava l’apparenza di una predestinazione. Quale occasione migliore per mettere alla prova le mia capacità poetiche, che fornire le ossa dell’eloquenza, la carne della passione, il respiro del sentimento, a quegli scarni canovacci? Come vedete, avevo già cominciato a pensare per immagini.

Rilessi da capo i Fiori, e cominciai ad addentrarmi nei sentieri impervi della versificazione. I metri teatrali, nelle terre dove si parla la lingua yld, richiedono per tradizione un intreccio fra quantità e rima, reso complicato dal fatto che sono ammesse molte, ma non arbitrarie, licenze poetiche.

Si trattava poi di scegliere l’opera in cui cimentarmi. Scartai subito il Teseius e Phenissa, non osando misurarmi col ricordo, ancorché impreciso, di ciò che avevo udito recitare dalle labbra di Lia. Il Mago di Qom lo evitai per ragioni facilmente comprensibili. Altre trame erano troppo lunghe, altre ancora non eccitavano la mia fantasia.

Mi decisi alla fine per La schiava di Palaphon, storia di un amore infelice e di un mago: una combinazione che mi attirava per le affinità che immaginavo con le vicende di Lia. Una mago prevedibilmente crudele aveva rapito una fanciulla. Di lei si innamora un suo discepolo; il mago gliela concede, come dono per la sua fedeltà. Anche la fanciulla, forse, si innamora di lui. Ma quando scopre di attendere un figlio dal mago, preferisce darsi la morte.

Poiché la tragedia mi appariva eccessivamente cupa, decisi di introdurre qualche brano più leggero. Ispirandomi al burattino che avevo visto danzare per Lia, scrissi un intermezzo comico, in cui un buffone cerca di far sorridere la fanciulla.

Rileggendo il manoscritto dopo qualche tempo, scoprii che quella era la scena migliore (forse l’unica degna di essere salvata) della mia versione di Palaphon.

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