Spirito, Anima, Persona Dall'Antichità Greca Ed Ebraica Al Mondo Cristiano Contemporaneo - Guido Pagliarino 2 стр.


Attesta Socrate anche Aristotele, testimonianza che potrebbe supporsi di primo livello dato che lo Stagirita, essendo stato allievo di Platone, aveva certamente conosciuto le attestazioni su Socrate correnti in quella scuola, ed essendo noto che mai ripudiò nei propri scritti la figura socratica dell’Apologia platonica, benché a un certo punto avesse respinto la guida filosofica del proprio maestro. Non pare tuttavia che dell’attestazione aristotelica ci si possa fidare molto, essendo noto ch’essa dipende in notevole parte dalla testimonianza opinabile e da diversi studiosi respinta di Senofonte.

Scriveva il Maier che per Aristotele “la questione principale era di stabilire qual parte avesse avuto, […] nella teoria delle idee”, Platone; tra le “affermazioni di Aristotele in persona” nell’Etica Nicomachea, “una sola si riferisce con qualche verosimiglianza al Socrate storico: vale a dire la constatazione affatto generica che Socrate tenne tutte le virtù in conto di scienze”; ma “le notizie aristoteliche sulle intuizioni etiche di Socrate non hanno valore di fonte indipendente […] esse sono prese senz’altro dal Protagora platonico. […] Tuttavia si può ben parlare di una concezione aristotelica di Socrate […], secondo questa raffigurazione, Socrate è il fondatore della filosofia concettuale, lo scopritore dell’universale. […] Come mai Aristotele giunse a questa concezione della ‘filosofia socratica’? È evidente ch’essa è un membro della sua confutazione della teoria delle idee; ma donde la prese? […] Ora per Aristotele la questione principale era di stabilire qual parte avesse avuto Socrate nella teoria delle idee. Era dogma accademico che Socrate medesimo avesse aperto la strada percorsa poi dalla speculazione platonica sulle idee […]. D’altra parte dopo la sua rottura con Platone era più che propenso a rendere responsabile esclusivamente quest’ultimo di quanto v’era di falso nella teoria delle idee, e a far risalire a Socrate il nucleo sano, cioè quel ch’egli teneva per tale, della teoria medesima”; e qui il Maier aggiunge in nota: “Molto chiaramente risalta questo motivo” dove “Socrate appare fondatore di quella dottrina dei concetti che ha fornito ad Aristotele il principio per la sua spiegazione della natura”.

Un Socrate strumentale alla filosofia aristotelica? In particolare utile all’intento d’Aristotele, su cui torneremo, d’abbattere la teoria delle idee? Forse da questo filosofo, o almeno anche da lui, sarebbe derivata l’opinione, ancor oggi corrente, della creazione del concetto di anima da parte del Socrate storico?

La questione resta aperta, e prendiamo con prudenza anche le asserzioni del Maier, perché egli stesso nei suoi due densi volumi su Socrate mantiene un atteggiamento cauto, e non perché le sue affermazioni son ormai vecchie d’un secolo: su questo tipo d’indagini non c’è necessariamente un progresso della conoscenza col passare del tempo, può esserci chi la vede giusta prima e chi sbagliata dopo indagando sugli stessi testi, a meno, ma è altra cosa, che si trovino nuovi documenti antichi sulla figura storica su cui si sta indagando.

È certo solamente che agli scritti di Platone, siano essi debitori o no del Socrate storico, si deve il complesso sviluppo che ha riversato nel senso comune l’idea di anima spirituale, poi travasata nel Cristianesimo dalla fine del II secolo di vita del medesimo.

Non pare però affatto certo che il Socrate storico – non del tutto sicuramente storico – dell’Apologia e del Critone credesse nell’Aldilà, anche se ne prospettava l’esistenza come ipotesi; forse egli potrebbe dirsi oggi un agnostico propenso a non credere, per cui i discorsi che si sentono su "Socrate ideatore dell’anima spirituale immortale" potrebbero essere un po’ frettolosi.

In merito al credo nell’Aldilà di Socrate oppure no, andiamo al capitolo XXXII dell’Apologia platonica dov’egli afferma davanti si suoi giudici: “Vediamo la cosa anche da questo punto, per quale altra ragione io ho così grande speranza che morire sia un bene. Una di queste due cose è il morire: o è come un non esser più nulla, e chi è morto non ha più nessun sentimento di nulla; o è proprio come dicono alcuni - dottrina orfica e pitagorica della trasmigrazione N.d.A.-, una specie di mutamento e di migrazione dell’anima da questo luogo quaggiù a un altro luogo. Ora, se il morire equivale a non aver più sensazione alcuna, ed è come un sonno quando uno dormendo non vede più niente neppure in sogno, ha da essere una guadagno meraviglioso la morte. Perché io penso che se uno, dopo aver come trascelta nella propria memoria tal notte in cui si fosse addormentato così profondamente da non vedere neppur l’ombra di un sogno, e poi, paragonata a questa le altre notti e gli altri giorni di sua vita, dovesse dirci, bene considerando, quanti giorni e quante notti egli abbia vissuto più felicemente e più piacevolmente di quella notte; io penso che colui, fosse pure non dico un privato qualunque ma addirittura il Gran Re, troverebbe assai pochi giorni e facili a noverare codesti giorni e codeste notti in paragone degli altri giorni e delle altre notti. Se dunque tal cosa è la morte, io dico che è un guadagno; anche perché la eternità stessa della notte non apparisce affatto più lunga di un’unica notte. D’altra parte, se la morte è come un mutar sede di qui ad altro luogo, ed è vero quel che raccontano, che in codesto luogo si ritrovano poi tutti i morti, quale bene ci potrà essere, o giudici, maggiore di questo? […]” (Traduzione di Manara Valgimigli, Opere complete Platone, cit., vol 1). Aggiunge che se esiste l’Al di là, egli potrà conversare coi grandi del passato, come Omero ed Esiodo, e con coloro che, come tra poco egli stesso, ingiustamente furono condannati a morte. Insomma, appare di meno, mi sembra, la propensione a credere alla sopravvivenza e di più quella di ritenere la morte un’entrata nel non esistere.

Diversa era l’impressione che dal testo citato ricavava Bertrand Russell, il quale scriveva nella sua Storia della filosofia occidentale, cit., traduzione di Luca Tavolini: “Nel brano finale, dove considera ciò che accade dopo la morte, è impossibile non sentire che crede fermamente nell’immortalità e che assume in proposito un tono di incertezza” - “Egli non è turbato, come i cristiani, dal timore di un eterno tormento: non dubita un istante che la sua vita nell’altro mondo sarà felice”. Sbaglierò, ma mi pare che l’affermazione d’un Socrate storico fermamente credente nell’immortalità e dell’“assunzione” d’un tono d’incertezza fosse stato inserito dal Russell più che altro per alimentare la campagna ch’egli conduceva contro il Cristianesimo, polemica ben presente in tante sue opere e in particolare nella silloge di saggi pubblicata sotto il titolo “Perché non sono cristiano” (cfr. I super pocket Longanesi & C., traduz. di Tina Buratti Cantarelli, 1972), ma ch’egli infilava pure in opere minori, addirittura nel saggio-pamphlet “Matrimonio e morale” (cfr. Edizione Club del Libro su licenza della Longanesi e C., traduzione di Gianna Tornabuoni, 1982) e che, dunque, non poteva certo mancare in un’opera importante come la sua Storia della filosofia occidentale.

Heinrich Maier da parte sua affermava l’ininfluenza per Socrate del credo nella sopravvivenza, almeno a fini etici: “Il Socrate dell’Apologia proclama solennemente: quel che importa nell’operare, non è se esso rechi vita o morte, ma soltanto se è giusto o ingiusto” – “Egli si stacca dalla morale teonoma altrettanto radicalmente quanto i Sofisti: anche per lui la vita morale è affare degli uomini, non degli Dèi […] per lui il fine normativo della vita morale è un fine dell’uomo individuale, non un fine della divinità […]”.

Secondo Socrate la vita morale e in lei la felicità sono per questa terra, “sicché tutta l’opera sua altro non è che lavoro d’illuminazione morale”, solo a tale scopo secondo lui, non per assicurarsi un paradiso, bisogna che ogni anima umana divenga buona il più possibile e senza trascurare, sempre al fine dell’essere felici, un accorto soddisfacimento dei bisogni naturali come il buon bere, il buon cibo e tutte le altre cose che, praticate con moderazione, rendono la vita più piacevole, anche se in esse sole non si trova la felicità. Se il Socrate storico dell’Apologia platonica afferma con forza che quanto conta nell’agire non è se esso porti vita o morte ma se sia giusto o no, perché è questo l’essenziale per una buona vita, quello sempre storico del Critone sottolinea che massimo bene non è vivere ma vivere nel migliore dei modi, moralmente, che non si può rispondere all’ingiustizia con l’ingiustizia; e un’eco se ne avrà nel platonico dialogo Gorgia in cui l’autore farà affermare con forza al proprio maestro ch’è meglio essere vittime d’ingiustizia che commetterla.

Per Bertrand Russell (in Storia della filosofia occidentale, cit., traduzione di Luca Tavolini) l’affermazione socratica, nel Critone, ch’è meglio soffrire ingiustizia che commetterla influenzerà il Cristianesimo. Tale principio però era già presente, assai prima, nell’etica ebraica. Socrate è stato paragonato a Cristo da molti, non solo dal Russell. Secondo alcuni critici, che sembrerebbero privi di sufficienti cognizioni giudeo-cristiane, l’ispiratore del Cristianesimo sarebbe stato proprio Socrate o, meglio, i dialoghi platonici: Gesú, prima della vita pubblica, avrebbe frequentato la filosofia greca invece della tradizione e dei testi sacri ebraici. In realtà la mentalità di Cristo risultante dai vangeli è giudaica e non socratico-platonica. Secondo il Russell inoltre, “il Fedone è importante in quanto espone non solo la morte di un martire, ma anche molte dottrine che poi furono cristiane. La teologia di San Paolo e dei Padri della Chiesa deriva largamente, in via diretta o indiretta, dal Fedone e difficilmente può essere capita se non si conosce Platone”. Ebbene, quanto a Paolo non si può essere d’accordo, anche s’egli conosceva certamente il Platonismo di mezzo oltre allo Stoicismo e se ne serviva; basti ricordare quanto scandalo avesse suscitato presso gli areopagiti, dopo ch'egli aveva richiamato aspetti della cultura greca per ingraziarseli, la sua inusitata asserzione sulla risurrezione del corpo raccontata dai neotestamentari Atti degli Aposotoli (At 17, 32). Alla risurrezione del corpo dei giusti credevano non solo i cristiani ma anche gli ebrei farisei (della cui setta lo stesso Paolo aveva fatto parte) per ragioni religiose derivanti da ragionamenti sulla giustizia di Dio. Quell'affermazione apolina niente ha a che vedere col Platonismo per il quale solo l’anima è immortale e il corpo è una prigione. Quanto ai padri della Chiesa, essi scrivono quand’ormai il Cristianesimo s’è ellenizzato per opera degli apologisti del II secolo; a suo tempo avevo scritto altrove (libro cartaceo Cristianesimo e Gnosticismo: 2000 anni di sfida, cit.) che “per gli apologisti, Bene = Buono = Verità = Giustizia = Amore secondo Platone; peraltro non dissimilmente, in sostanza, dal concetto della sapienza giudaica, che ritroviamo in Giovanni, di Dio come assoluto d’ogni bene”. Per quanto riguarda la teologia dei padri della Chiesa, dunque, l’affermazione del Russell è da tenere presente, purché si consideri l’apporto greco come meramente strumentale e non determinante, e tenendo presente che il Cristianesimo delle origini, cioè di Gesú e della prima Chiesa, non è platonico (cfr. Cristianesimo e Gnosticismo, 2000 anni di sfida, cit., in particolare il capitolo III - VERSETTI GNOSTICI NEL NUOVO TESTAMENTO? paragrafi: I Libri di Giovanni e le scuole apostoliche; Dualismo esseno e dualismo giovanneo - Il quarto vangelo… le Lettere…l’Apocalisse; La Lettera di Giacomo il minore; Altri autori anti-gnostici del Nuovo Testamento: Paolo, Pietro, Giuda, e il capitolo IV, INIZIA LA LOTTA. APOLOGISTI E PADRI DELLA CHIESA: CENNI, paragrafo Trionfa il concetto greco di anima – essenza: a) Apologisti del Cristianesimo).

L’anima secondo Platone

È insomma il Socrate letterario a credere nell’immortalità, cioè è Platone stesso che s’esprime per bocca dell’incolpevole maestro che, essendo ormai defunto, non può più, eventualmente, opporsi. Platone l'aveva incontrato nel 408 a.C. e lo aveva frequentato come discepolo sino alla fine del 399 quando, com'è ben noto, il maestro era stato processato e condannato a morte, per veleno, dai giudici del governo democratico-demagogico d’Atene.

È di Platone il primo sforzo di costituire un pensiero filosofico sistematico, fondando una costruzione intellettuale che accomuni le diverse credenze, giungendo ad assunzioni accettabili da ogni persona ragionevole: un tentativo troppo ambizioso che non riesce a realizzare e che, ancor oggi, è tradotto in realtà, parzialmente, solo in quella matematica che è un fondamentale strumento della ricerca platonica e dove il suo ideale di comunione universale di sapienti si è realizzato.

Platone afferma l'esistenza di due livelli di realtà e di conoscenza, quello del mondo sensibile e quello delle forme o essenze universali. Il secondo s’usa chiamare più sovente delle idee usando tale parola in senso ontologico, cioè secondo la scienza dell’essere.

Arriva alla sua teoria delle idee per il bisogno di riformare la scienza dell’essere dei filosofi detti eleatici, ontologia che fa capo al poema filosofico Della natura di Parmenide per il quale “l’essere è, e il non-essere non è”, apparente banalità che implica qualcosa di più profondo, che il non-essere è impensabile ed è indicibile perché l’essere c’è anche nel pensare e nel dire il non-essere; ma tale pensiero porta a dichiarare meramente illusori i fenomeni, i quali contemplano anche il venir meno e dunque il passare al non-essere e pure il trascorso non-essere di fenomeni che vengono poi all’esistenza; e tale concezione nega il valore dell’esperienza che invece li attesta.

Il problema di fondo è quello d’accordare l’immutabile mondo del puro essere, inaccessibile ai sensi e dove risiedono le idee, a quello dell’esistente ch’è soggetto al divenire e, in esso, al mutamento; ma Platone non riesce a spiegare il divenire, il sorgere, crescere e perire delle cose materiali nelle quali le idee immutabili si riflettono, mentre proprio il divenire è caratteristica tipica dei fenomeni del mondo materiale.

Per questo filosofo (Repubblica, V, 478, 479d.), se è vero che il mondo sensibile non è veramente essere, cioè non è essere che davvero è, mentre tale è solo il mondo delle idee, esso tuttavia non è non-essere ma è un intermedio fra essere e non-essere: cioè proprio quanto il principio di Parmenide afferma non possibile, perché assurdo. Dunque, da Platone il problema non viene risolto. Ci riproverà Aristotele.

Platone finisce con l’accontentarsi di relegare il mondo sensibile a una condizione semi-illusoria e d’attribuire importanza fondamentale solo agli eterni e immutabili Bene assoluto (Dio stesso) e mondo delle idee che sono al di là di tempo e spazio.

Per giustificare l’esistente egli introduce una sorta di sotto-Dio, il Demiurgo: il mondo sensibile è costituito dalle cose materiali plasmate da questa figura divina diversa e inferiore a Dio. Il Demiurgo appare nel dialogo Timeo ed è una sorta d’artigiano divino: il mondo fisico deriva sia dal mondo delle idee sia dalla materia eterna e il Demiurgo funge da mediatore, contemplando le idee stesse, facendole scendere e plasmando l’universo secondo il loro modello; idee, Demiurgo e mondo esistono da sempre, come da sempre esiste il Bene assoluto. Essendo semi-illusorio, l’imperfetto mondo materiale è soggetto a disgregarsi senza posa, per cui il Demiurgo deve occuparsene in continuazione per mantenerlo e, in questo, il mondo trascorre; tale divenire è raccolto dalle impressioni dei nostri sensi.

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