Destino Di Draghi - Морган Райс 6 стр.


Era evidente che l’oste non voleva Erec sotto il suo tetto, ma non osò dire nulla. Si voltò e corse fuori dalla stanza, sbattendosi la porta alle spalle.

“Sei sicuro di voler rimanere qui?” chiese il Duca. “Torna al castello con noi.”

Erec annuì con estrema serietà.

“Non sono mai stato tanto sicuro di qualcosa in vita mia.”

CAPITOLO OTTO

Thor precipitò fendendo l’aria, tuffandosi di testa nelle acque turbolente del Mare del Fuoco. Vi sprofondò immergendosi totalmente, sorpreso dal fatto che l’acqua fosse calda.

Al di sotto della superficie Thor aprì un attimo gli occhi, pentendosene all’istante. Ebbe la fuggevole visione di strane e orribili creature marine, alcune grandi altre piccole, con musi insoliti e grotteschi. Era un oceano infestato. Thor pregò che non lo attaccassero prima che potesse raggiungere la barca a remi mettendosi in salvo.

Risalì in superficie boccheggiando e si guardò subito attorno alla ricerca del ragazzo che stava annegando. Lo scorse giusto in tempo: si agitava mentre affondava e se fosse rimasto lì ancora qualche momento sarebbe sicuramente annegato.

Thor gli si avvicinò e lo afferrò da dietro prendendolo da sotto le spalle, poi continuò a nuotare con lui tenendogli la testa sopra la superficie dell’acqua come la sua. Thor udì un guaito e un lamento, e quando si voltò si stupì di vedere Krohn: doveva aver saltato dietro di lui. Il leopardo gli nuotava accanto, spruzzando Thor di acqua e gemendo. Thor era straziato dal fatto che Krohn si dovesse trovare in una situazione così pericolosa a causa sua, ma aveva le mani occupate e c’era ben poco che potesse fare.

Cercò di non guardarsi in giro, di non osservare quelle acque vorticanti e rosse e di non badare alle strane creature che affioravano e poi scomparivano tutt’attorno a lui. Un’orrenda creatura, viola e con quattro zampe e due teste, comparve accanto a lui, gli soffiò e poi scomparve facendolo trasalire.

Thor si voltò e vide la barca a remi a una ventina di metri da loro, quindi nuotò freneticamente usando l’unico braccio libero e le gambe, sempre trascinando il ragazzo. Questo si agitava e gridava, facendo resistenza, e Thor temette che lo facesse annegare con sé.

“Stai fermo!” gli gridò duramente, sperando che il ragazzo lo ascoltasse.

Finalmente il giovane si arrese. Thor provò un momentaneo sollievo, fino a che udì un rumore nell’acqua che lo indusse a voltarsi: proprio accanto a lui era emersa un’altra creatura, piccola, con la testa gialla e quattro tentacoli. Aveva la testa quadrata e nuotava proprio verso di lui, ringhiando e agitandosi. Sembrava un serpente a sonagli proveniente dal mare, a parte per la testa troppo squadrata. Thor si preparò mentre il mostro si avvicinava, pronto ad essere colpito, ma poi improvvisamente la creatura aprì la bocca e gli sputò addosso acqua marina. Thor strizzò gli occhi, cercando di eliminare l’acqua.

La creatura continuò a nuotare loro attorno, disegnando dei cerchi, e Thor raddoppiò i suoi sforzi nuotando più velocemente e cercando di allontanarsi.

Stava effettivamente procedendo bene, avvicinandosi alla barca, quando improvvisamente un’altra bestia emerse dall’altro lato. Era lunga, stretta e arancione, con due zanne nella bocca e decine di piccole gambe. Aveva anche una lunga coda che usava come una frusta agitandola in ogni direzione. Sembrava un’aragosta in posizione eretta. Procedeva a pelo d’acqua come un insetto d’acqua e avanzava verso Thor piegandosi di lato e agitando la coda. Colpì il braccio di Thor e lui gridò per il dolore.

La creatura sfrecciava avanti e indietro, continuando a lanciare codate. Thor avrebbe voluto sguainare la propria spada e attaccare quella bestia, ma aveva solo una mano libera e doveva nuotare.

Krohn, che gli nuotava accanto, si voltò e ringhiò alla bestia, un rumore da far rizzare i capelli, tanto che spaventò il mostro che scomparve sotto la superficie dell’acqua. Thor tirò un sospiro di sollievo, fino a che la creatura improvvisamente ricomparve dall’altra parte, colpendolo un’altra volta. Krohn si voltò e iniziò a inseguirla, cercando di prenderla schioccando i denti senza mai riuscire ad acciuffarla.

Thor continuò a nuotare, rendendosi conto che l’unico modo per mettersi in salvo era uscire da quel mare. Dopo un tempo che sembrò interminabile, nuotando più veloce di quanto avesse mai potuto, riuscì ad avvicinarsi alla barca a remi che oscillava violentemente tra le onde. Appena la raggiunse, due membri della Legione, ragazzi più grandi che mai avevano rivolto la parola a Thor e ai suoi amici, si prodigarono per aiutarlo. A loro onore si piegarono in avanti e gli porsero la mano.

Thor aiutò prima il ragazzo, allungando le braccia e spingendolo verso la barca. I ragazzi l’afferrarono per le braccia e lo trascinarono a bordo.

Thor prese poi Krohn e lo tirò fuori dall’acqua facendo salire anche lui sulla barca. Krohn grattò il pianale della barca con gran rumore con tutte e quattro le zampe, gocciolante e scrollandosi l’acqua di dosso. Scivolò sul fondale umido, passando da una parte all’altra dell’imbarcazione. Poi si ritirò in piedi, si voltò e corse verso il bordo per cercare Thor. Guardò verso l’acqua e guaì.

Thor afferò la mano di uno dei ragazzi e proprio mentre si stava tirando sulla barca sentì improvvisamente qualcosa di forte e muscoloso che gli si attorcigliava attorno alla gamba dalla caviglia alla coscia. Si voltò per guardare in basso e rimase pietrificato alla vista di una creatura verdognola simile a un calamaro che lo aveva afferrato con uno dei suoi tentacoli.

Thor gridò di dolore avvertendo degli aculei che gli perforavano la carne.

Si rese conto che se non avesse fatto qualcosa velocemente, per lui sarebbe finita. Portò la mano libera alla cintura, estrasse il pugnale corto e colpì il tentacolo. Ma era troppo spesso e il pugnale non riuscì neanche a intaccarlo.

Ma il gesto fece arrabbiare il mostro: la sua testa improvvisamente emerse, verde, senza occhi e con due mandibole sul lungo collo, una sopra l’altra. La bestia aprì le sue file di denti affilati e si chinò verso Thor. Thor sentiva il sangue che gli scorreva dalla gamba e capì che doveva agire velocemente. Nonostante gli sforzi del ragazzo che stava cercando di tenerlo e tirarlo su, la presa di Thor stava scivolando e lui stava ridiscendendo verso l’acqua.

Krohn continuava a mugolare, il pelo della schiena ritto, piegato in avanti come fosse pronto a saltare in acqua. Ma addirittura Krohn sapeva che sarebbe stato inutile attaccare quella cosa.

Uno dei ragazzi più grandi si fece avanti e gridò:

“ABBASSATI!”

Thor abbassò la testa mentre il ragazzo tirava la lancia. Fendette l’aria ma mancò il bersaglio, volando innocua e andando ad affondare nell’acqua. La creatura era troppo stretta e troppo veloce.

Improvvisamente Krohn saltò dalla barca ributtandosi in acqua e atterrando con le fauci aperte e i denti digrignati sul retro del collo della creatura. Krohn ruotò e scosse la bestia a destra e a sinistra, senza mai lasciare la presa.

Ma era una battaglia inutile: la pelle del mostro era troppo spessa e le fibre troppo muscolose. Sbatté Krohn da una parte e dall’altra fino a farlo volare in acqua. Nel frattempo strinse la presa sulla gamba di Thor: il ragazzo sentiva che l’ossigeno gli stava venendo a mancare. I tentacoli bruciavano da morire e aveva l’impressione che la gamba gli si stesse per staccare dal corpo.

Con un ultimo disperato tentativo Thor lasciò andare la mano del ragazzo e con un unico movimento ruotò su se stesso raggiungendo la spada che gli stava appesa alla cintura.

Ma non riuscì ad afferrarla in tempo: scivolò e ruotò, cadendo di faccia nell’acqua.

Si sentì trascinare via, lontano dalla barca: la creatura lo stava trascinando nel mare. Lo tirò all’indietro, sempre più veloce, e mentre lui cercava di allungare le mani senza risultato, vedeva l’imbarcazione che scompariva davanti a lui. Subito dopo si sentì trascinare verso il basso, sotto la superficie dell’acqua, giù nel profondo del Mare del Fuoco.

CAPITOLO NOVE

Gwendolyn correva in un prato e suo padre, MacGil, era acccanto a lei. Lei era più giovane, aveva forse dieci anni, e anche suo padre appariva piuttosto giovane. Aveva la barba corta, senza alcun segno del grigio che sarebbe poi comparso più avanti negli anni, e la sua pelle era liscia, senza rughe, fresca, splendente. Era felice, spensierato, e rideva di gusto mentre lei gli teneva la mano e insieme attraversavano il prato di corsa. Era questo il padre che ricordava, il padre che conosceva.

Lui la sollevò e se la mise in spalla, facendola girare più volte, ridendo sempre più forte e facendo morire anche lei dalle risate. Si sentiva al sicuro tra le sue braccia e voleva che quel momento non finisse mai.

Ma quando suo padre la mise giù, accadde qualcosa di strano. Improvvisamente la giornata passò da pomeriggio assolato a crepuscolo. Quando i piedi di Gwen toccarono terra, non si trovava più tra i fiori del prato, ma nel fango che le saliva fino alle caviglie. Ora suo padre giaceva nel fango, supino ad un passo da lei – più vecchio, molto più vecchio, troppo vecchio – ed era bloccato. Poco più in là, sempre nel fango, c’era la sua corona che luccicava.

“Gwendolyn,” rantolò MacGil. “Figlia mia. Aiutami.”

Sollevò una mano dal fango allungandola verso di lei, disperato.

Lei si sentì pervasa dall’urgenza di soccorrerlo e tentò di avvicinarsi a lui e afferrargli la mano. Ma i suoi piedi non volevano saperne di spostarsi. Abbassando lo sguardo vide che il fango si stava indurendo tutt’attorno a lei, diventando secco e scricchiolando. Lei oscillò e si dimenò cercando di liberarsi.

Sbatté gli occhi e si ritrovò in piedi sul parapetto del castello a guardare in basso, verso la Corte del Re. C’era qualcosa che non andava: mentre osservava non vide il solito splendore e gli abituali festeggiamenti: ora c’era un cimitero che si allargava a macchia d’olio. Dove una volta c’era lo sfavillante splendore della Corte del Re, ora c’erano tombe appena scavate che si estendevano a perdita d’occhio.

Udì un rumore di passi e il cuore le si fermò un momento quando voltandosi vide un assassino: indossava un mantello nero con cappuccio e si avvicinava a lei. Le corse incontro tirandosi giù il cappuccio e mostrando un volto grottesco, senza un occhio e una spessa cicatrice frastagliata che gli tagliava l’orbita. L’uomo ringhiò, alzò una mano che stringeva un pugnale luccicante, l’elsa di un rosso vivo.

L’assassino si muoveva troppo velocemente e lei non riuscì a reagire in tempo. Quindi si preparò sapendo che stava per essere uccisa, mentre lui abbassava il pugnale con piena forza.

Si fermò all’improvviso, a pochi centimetri dal volto di Gwen, e lei aprì gli occhi per vedere suo padre che si trovava lì: un cadavere che teneva il polso dell’uomo fermo a mezz’aria. Strinse la mano dell’uomo fino a che questi non lasciò cadere il pugnale, poi lo tirò per le spalle e lo gettò giù dal parapetto. Gwen udì le sue grida mentre precipitava.

Suo padre si voltò a guardarla, le strinse con fermezza le spalle con le proprie mani decomposte e la guardò con espressione severa.

“Non sei al sicuro qui,” la mise in guardia. “Non sei al sicuro!” gridò, le dita che le affondavano nelle spalle con troppa forza, facendola gridare.

Gwen si svegliò urlando, si mise a sedere sul letto e si guardò attorno nella propria stanza aspettandosi di vedere un aggressore.

Ma non percepì altro che silenzio, lo spesso e quieto silenzio che precedeva l’alba.

Sudando e respirando affannosamente saltò dal letto, indosso la propria vestaglia e si mise a camminare per la stanza. Andò velocemente a un piccolo catino di pietra e si sciacquò ripetutamente il volto con l’acqua. Si piegò contro il muro, sentì la pietra fresca sui piedi nudi in quella calda mattinata estiva, e cercò di ricomporsi.

Quel sogno era stato troppo reale. Sentiva che era più di un sogno: si trattava di un vero avvertimento da parte di suo padre, un messaggio. Sentì l’urgente bisogno di lasciare la Corte del Re, proprio in quel momento, e non tornare mai più.

Sapeva che era una cosa che non poteva fare. Doveva riprendersi, recuperare la propria lucidità. Ma ogni volta che chiudeva gli occhi vedeva il volto di suo padre, sentiva il suo avvertimento. Doveva fare qualcosa per scrollarsi quel sogno di dosso.

Gwen guardò fuori e vide il primo sole che stava giusto iniziando a salire, e pensò all’unico posto che l’avrebbe potuta aiutare a rimettersi in sesto: il Fiume del Re. Sì, era lì che doveva andare.

*

Gwendolyn si immerse più di una volta nell’acqua gelata del Fiume del Re, tenendosi il naso e mettendo la testa sott’acqua. Sedeva nella piccola vasca naturale intagliata nella roccia, nascosta tra le cascate: un luogo che frequentava da quando era bambina. Tenne la testa sott’acqua e rimase lì per un po’ sentendo le correnti fredde che le scorrevano tra i capelli, sulla nuca, sentendo che le lavavano e detergevano il corpo nudo.

Aveva trovato quel luogo appartato un giorno, nascosto nel mezzo di una macchia d’alberi, in alto sulla montagna: una piccola pianura dove la corrente del fiume rallentava e creava una pozza profonda e quieta. Sopra di lei il fiume scendeva in una cascata e così faceva anche più sotto: solo lì, in quella piana, le correnti si fermavano. La pozza era profonda, le rocce lisce e il posto così ben nascosto che Gwen poteva fare il bagno nuda senza preoccupazioni. In estate andava lì quasi ogni giorno al sorgere del sole, per schiarirsi le idee. Soprattutto in giornate come quella, quando i sogni la perseguitavano, come spesso accadeva, quel luogo era il suo rifugio.

Era difficile per Gwen capire se quello fosse stato solo un sogno o piuttosto qualcosa di più. Come poteva capire se un sogno era un messaggio, un presagio? Capire se fosse solo la sua mente che le giocava degli scherzi o se le era stata data la possibilità di agire?

Gwendolyn tornò in superficie per respirare, inalando nel calore della mattinata estiva e ascoltando i cinguettii degli uccelli tutt’attorno a lei tra gli alberi. Si appoggiò a una roccia, il corpo immerso fino al collo, seduta su un ripiano naturale della roccia, riflettendo. Si spruzzò il volto con l’acqua, poi fece passare le mani tra i lunghi capelli color fragola. Abbassò lo sguardo ad osservare l’acqua che rifletteva il cielo, il secondo sole che già iniziava a sorgere, gli alberi che si protendevano verso l’acqua e il suo stesso volto. I suoi occhi a forma di mandorla, blu e brillanti, la fissavano dal riflesso che si increspava. Poteva scorgere in essi qualcosa di suo padre. Distolse lo sguardo ripensando al sogno.

Sapeva che era pericoloso per lei rimanere alla Corte del Re con l’assassino di suo padre, con tutte le spie, tutti gli intrighi, e soprattutto con Gareth come Re. Suo fratello era imprevedibile. Vendicativo. Paranoico. E molto, molto geloso. Vedeva tutti come una minaccia, soprattutto lei. Qualsiasi cosa sarebbe potuta succedere. Sapeva di non essere al sicuro lì. Nessuno lo era.

Ma non aveva intenzione di fuggire. Aveva bisogno di sapere con certezza chi fosse l’assassino di suo padre, e se si trattava di Gareth, non poteva andarsene fino a che non lo avesse consegnato alla giustizia. Sapeva che lo spirito di suo padre non avrebbe avuto pace fino a che non avessero catturato chiunque l’avesse ucciso. La giustizia era stata il suo primo comando per tutta la vita e lui fra tutti meritava di avere giustizia per se stesso nella morte.

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