Prima Che Uccida - Блейк Пирс 4 стр.


“È solo un criminale qualsiasi con un complesso materno” disse Porter con noncuranza. “Basterà parlare con le persone giuste e lo troveremo. Tutta questa analisi è uno spreco di tempo. Non trovi le persone entrando nella loro testa. Le trovi facendo domande, con i pattugliamenti, andando di porta in porta e di testimone in testimone.”

Mentre tra loro calava il silenzio, Mackenzie iniziò a preoccuparsi per quanto fosse semplicistica la visione del mondo di Porter. Per lui era tutto o bianco o nero, non lasciava spazio alle sfumature, a niente al di fuori di convinzioni prestabilite. Lei riteneva che lo psicopatico con cui avevano a che fare fosse ben più complesso di così.

“E qual è la tua opinione sul nostro killer?” chiese infine lui.

Si avvertiva risentimento nella sua voce, come se in realtà non avrebbe voluto domandarglielo, ma il silenzio aveva avuto la meglio su di lui.

“Io credo che odi le donne per quello che rappresentano” rispose lei a bassa voce, elaborando l’idea nella mente mentre parlava. “Potrebbe essere un cinquantacinquenne ancora vergine che pensa che il sesso sia sporco – eppure in lui c’è anche il bisogno del sesso. Uccidere le donne lo fa sentire come se stesse sconfiggendo i suoi stessi istinti, che vede come sporchi e inumani. Se riesce ad eliminare la fonte di quegli istinti sessuali, sente di avere il controllo. Le frustate sulla schiena indicano che le sta quasi punendo, probabilmente perché sono provocanti. E poi c’è il fatto che non ci sono segni di violenza sessuale. Mi domando se questo sia una specie di tentativo di restare puro agli occhi del killer.”

Porter scosse la testa, quasi come un genitore deluso.

“È proprio come dicevo io” disse. “Una perdita di tempo. Ti sei spinta così in là da non essere nemmeno più sicura di quello che pensi – e questo non ci aiuterà. Non riesci a vedere le cose per quello che sono.”

Furono di nuovo avvolti da un imbarazzato silenzio. Porter, che sembrava aver finito di parlare, alzò il volume della radio.

Durò solo pochi minuti, però. Avvicinandosi a Omaha, Porter abbassò di nuovo il volume, stavolta senza che gli venisse chiesto. Quando iniziò a parlare pareva nervoso, ma Mackenzie intuì che si sforzava comunque di sembrare quello che aveva il comando.

“Hai mai interrogato dei bambini dopo che hanno perso un genitore?” domandò Porter.

“Una volta” disse lei. “In seguito a una sparatoria. Era un bambino di undici anni.”

“Anche a me è capitato un paio di volte. Non è divertente.”

“No, non lo è” concordò Mackenzie.

“Ok, senti, stiamo per fare a due ragazzi delle domande sulla morte della loro madre. Il fatto che lavorasse come spogliarellista è destinato a saltar fuori. Dobbiamo andarci piano.”

Mackenzie ribolliva di rabbia. Porter si rivolgeva a lei come se fosse una bambina.

“Lascia fare a me. Tu potrai offrire una spalla su cui piangere, se ne avranno voglia. Nelson ha detto che ci sarà anche la sorella, ma dubito che possa essere di conforto. Probabilmente è distrutta quanto i ragazzini.”

Mackenzie in realtà non credeva fosse una buona idea, però sapeva anche che quando c’erano di mezzo Porter e Nelson, doveva scegliere con cura le sue battaglie. Perciò, se Porter ci teneva a interrogare due ragazzini in lutto sulla morte della madre, lei gli avrebbe lasciato soddisfare il proprio ego.

“Come vuoi” disse a denti stretti.

L’auto ritornò silenziosa. Stavolta, Porter lasciò la radio abbassata e gli unici suoni erano quelli delle pagine che Mackenzie stava sfogliando. C’era una storia più grande tra quelle pagine e nei documenti che Nancy le aveva inviato; Mackenzie ne era sicura.

Ovviamente, perché si potesse raccontare questa storia, tutti i personaggi dovevano essere svelati. E per ora, il personaggio centrale era ancora nascosto nell’ombra.

La macchina rallentò e Mackenzie sollevò la testa mentre svoltavano in un isolato tranquillo. Avvertì una familiare stretta allo stomaco, e desiderò di trovarsi ovunque tranne lì.

Stavano per parlare con i figli di una donna che era appena morta.

CAPITOLO CINQUE

Entrando nell’appartamento di Hailey Lizbrook, Mackenzie si stupì: non era come si aspettava. Era in ordine e pulito, con i mobili ben disposti e senza un granello di polvere. L’arredamento era quello di una donna dedita alla casa, incluse le tazze con frasi simpatiche e le presine appese a gancini decorati vicino ai fornelli. Si capiva che aveva un’organizzazione perfetta, anche dal taglio dei capelli e dai pigiami dei suoi figli.

Era proprio come la casa e la famiglia che aveva sempre sognato per sé.

Mackenzie ricordò di aver letto nei fascicoli che i ragazzi avevano nove e quindici anni; il più grande si chiamava Kevin, il piccolo Dalton. Appena lo vide, capì che Dalton aveva pianto molto; i suoi occhi azzurri erano gonfi e rossi.

Kevin, invece, sembrava più che altro arrabbiato, e si notò ancora di più quando si furono accomodati e Porter iniziò a rivolgersi a loro in un tono che era a metà tra il paternalistico e quello di un insegnante d’asilo. Mackenzie trasalì senza darlo a vedere mentre Porter parlava.

“Adesso devo sapere se vostra madre aveva amici maschi” disse Porter.

Stava in piedi al centro del soggiorno, mentre i ragazzi erano su un divano. Jennifer, la sorella di Hailey, se ne stava in piedi nella cucina adiacente, a fumare una sigaretta davanti ai fornelli con la cappa accesa.

“Tipo un fidanzato?” chiese Dalton.

“Certo, anche quello è un amico maschio” disse Porter. “Ma quello che intendo è qualsiasi uomo con cui abbia parlato più volte. Anche uno come il postino o una persona al supermercato.”

Entrambi i ragazzi guardavano Porter come se si aspettassero che facesse un numero di magia, oppure che prendesse fuoco spontaneamente. Anche Mackenzie lo fissava. Non l’aveva mai sentito usare un tono di voce tanto delicato. Era quasi buffo sentire una voce così rassicurante uscire dalla sua bocca.

“No, non direi” disse Dalton.

“No” concordò Kevin. “E non aveva neanche un ragazzo. Non che io sappia.”

Mackenzie e Porter guardarono Jennifer aspettando una risposta. Tutto ciò che ottennero fu un’alzata di spalle. Mackenzie era certa che Jennifer fosse sotto shock. Si chiese se ci fosse qualche altro familiare che potesse prendersi cura di quei ragazzi per un periodo, dato che Jennifer al momento non sembrava la persona più adatta.

“E che mi dite di persone con cui voi e vostra madre non andavate d’accordo?” proseguì Porter. “L’avete mai sentita litigare con qualcuno?”

Dalton si limitò fare di no con la testa. Mackenzie era sicura che il bimbo stesse per scoppiare in lacrime. Kevin invece fece roteare gli occhi proprio in faccia a Porter.

“No” rispose. “Non siamo stupidi. Sappiamo cosa sta cercando di chiederci. Vuole sapere se ci viene in mente qualcuno che possa aver ucciso la mamma. Giusto?”

Sembrava che Porter avesse ricevuto un pugno nello stomaco. Lanciò un’occhiata nervosa verso Mackenzie, ma riuscì rapidamente a riacquistare compostezza.

“Be’, sì” ammise. “È proprio lì che volevo arrivare, ma mi sembra chiaro che non avete nessuna informazione utile.”

“Lei crede?” lo sfidò Kevin.

Ci fu un momento di tensione e Mackenzie era sicura che Porter se la sarebbe presa col ragazzino. Kevin fissava Porter con un’espressione addolorata, quasi a sfidarlo di continuare.

“Bene” disse Porter, “credo di avervi già dato abbastanza disturbo. Grazie per il vostro tempo.”

“Un momento” intervenne Mackenzie, senza riuscire a trattenere la sua obiezione.

Porter le lanciò un’occhiata che avrebbe potuto sciogliere la cera. Evidentemente pensava fosse solo una perdita di tempo parlare con i due ragazzi distrutti dal dolore, soprattutto con un quindicenne che aveva chiari problemi con l’autorità. Mackenzie ignorò il suo sguardo e si abbassò per essere faccia a faccia con Dalton.

“Senti, che ne dici di andare un po’ di là in cucina da tua zia?”

“Va bene” disse Dalton con voce sommessa e arrochita.

“Detective Porter, perché non va con lui?”

Ancora una volta, Porter le rivolse uno sguardo carico di odio. Mackenzie sostenne il suo sguardo senza fare una piega. Indurì l’espressione fino a farla sembrare di pietra; era determinata a non cedere. Se voleva discutere con lei, l’avrebbero fatto fuori da lì. Invece, evidentemente, non voleva mettersi in imbarazzo, anche se si trattava solo di due ragazzini e una donna in stato catatonico.

“Ma certo” disse infine a denti stretti.

Mackenzie aspettò che Dalton e Porter entrassero in cucina.

Mackenzie si rialzò. Sapeva che il trucchetto di abbassarsi smetteva di funzionare più o meno a dodici anni.

Guardò Kevin e vide che lo sguardo di sfida che aveva mostrato a Porter era ancora lì. Mackenzie non aveva nulla contro gli adolescenti, però sapeva che spesso era difficile averci a che fare, soprattutto in circostanze tragiche come quella. Però aveva visto come Kevin aveva reagito a Porter e forse sapeva come poteva comunicare con lui.

“Dimmi la verità, Kevin” gli disse. “Secondo te siamo arrivati qui troppo presto? Pensi che siamo degli insensibili a farvi domande così presto dopo che avete avuto la notizia su vostra madre?”

“Più o meno” rispose.

“Magari non ti va di parlare adesso?”

“No, possiamo anche parlare” disse Kevin. “Ma quel tipo è uno stronzo.”

Mackenzie sapeva che quella era la sua occasione. Poteva affrontare la cosa con professionalità, come avrebbe fatto normalmente, oppure poteva sfruttare quell’occasione per stabilire una connessione con l’adolescente arrabbiato. Gli adolescenti apprezzavano soprattutto l’onestà. Riuscivano a percepire molte cose quando erano guidati dalle emozioni.

“Hai ragione” gli disse. “È uno stronzo.”

Kevin la fissò con gli occhi sbarrati. Era rimasto di stucco; evidentemente, non era la risposta che si aspettava.

“Ma questo non cambia il fatto che devo lavorare con lui” aggiunse, la voce un misto di compassione e comprensione. “E non cambia neanche il fatto che siamo qui per aiutarvi. Vogliamo scoprire chi è che ha fatto questo a vostra madre. Non lo vuoi anche tu?”

Restò in silenzio a lungo, ma alla fine annuì.

“Allora pensi di poter parlare con me?” chiese Mackenzie. “Solo qualche domanda veloce, poi ce ne andiamo.”

“E dopo di voi chi verrà?” chiese Kevin diffidente.

“Onestamente?”

Kevin annuì, e lei vide che era vicino alle lacrime. Si chiese se le avesse trattenute per tutto il tempo, cercando di essere forte per il fratello e la zia.

“Dopo che ce ne saremo andati, riferiremo le informazioni che abbiamo ottenuto e i servizi sociali verranno per accertarsi che Jennifer sia la persona adatta a prendersi cura di voi mentre vengono fatti gli ultimi preparativi per vostra madre.”

“Di solito è una in gamba” disse Kevin guardando verso la zia. “È solo che lei e la mamma erano molto unite, proprio come due migliori amiche.”

“Già, tra sorelle è spesso così” disse Mackenzie, anche se non aveva idea se fosse vero o no. “Adesso però ho bisogno che ti concentri su quello che sto per chiederti. Pensi di poterlo fare?”

“Sì.”

“Bene. Odio dovertelo chiedere, ma è necessario. Tu sai che lavoro faceva tua madre?”

Kevin annuì abbassando lo sguardo sul pavimento.

“Sì” rispose. “E non so come, ma anche i ragazzi della mia scuola lo sanno. Probabilmente qualche papà arrapato è stato al club, l’ha vista e l’ha riconosciuta da qualche riunione scolastica. È uno schifo. Mi prendono in giro in continuazione.”

Mackenzie non riusciva a immaginare quale tormento dovesse essere, però questo le fece rispettare Hailey Lizbrook molto di più. Certo, di notte si spogliava per soldi, ma durante il giorno era una madre molto attenta ai suoi figli.

“Ho capito” disse Mackenzie. “Dato che sai del suo lavoro, ti puoi immaginare il tipo di uomini che frequentano quel posto, vero?”

Kevin annuì e Mackenzie vide la prima lacrima scivolargli lungo la guancia. Fu tentata di stringergli la mano per confortarlo, ma non voleva inimicarselo.

“Adesso prova a pensare se tua madre sia mai tornata a casa particolarmente turbata o arrabbiata per qualcosa. Devi anche cercare di ricordare se c’è stato qualche uomo con cui lei...insomma, un uomo che si è portata a casa.”

“Non veniva mai nessuno a casa con lei” rispose. “E non ho quasi mai visto la mamma arrabbiata o sconvolta. L’unica volta che l’ho vista furiosa è stato l’anno scorso, quando parlava con l’avvocato.”

“Avvocato?” ripeté Mackenzie. “E sai perché stesse parlando con un avvocato?”

“Più o meno. So solo che una sera è successo qualcosa al lavoro che l’ha spinta a contattare un avvocato. Mentre era al telefono ho sentito parte della conversazione. Sono quasi certo che stesse parlando di un’ordinanza restrittiva.”

“E credi che c’entrasse il suo posto di lavoro?”

“Non lo so per certo” disse Kevin. Pareva un po’ più calmo quando capì che quello che aveva detto poteva essere utile. “Ma credo di sì.”

“Mi sei stato di grande aiuto, Kevin” disse Mackenzie. “C’è altro che ti viene in mente?”

Fece lentamente di no con la testa, poi guardò Mackenzie negli occhi. Cercava di essere forte, ma c’era così tanta tristezza nei suoi occhi che Mackenzie non aveva idea di come avesse fatto a non essere ancora crollato.

“Sa, la mamma si vergognava del suo lavoro” disse Kevin. “Durante il giorno lavorava un po’ da casa, come scrittrice tecnica. Creava siti web e roba così. Però non credo che guadagnasse molti soldi. Faceva l’altro lavoro per guadagnare di più, perché nostro padre... be’, lui è sparito da un sacco di tempo. Ormai non ci manda più soldi. Quindi la mamma... ha dovuto accettare l’altro lavoro. L’ha fatto per me e per Dalton e...”

“Ma certo” disse Mackenzie, e stavolta gli poggiò la mano sulla spalla. Lui le sembrò grato. Intuì che doveva avere una gran voglia di piangere, ma probabilmente non se lo sarebbe concesso davanti a degli estranei.

“Detective Porter” chiamò Mackenzie, e lui arrivò dall’altra stanza, guardandola male.

“Aveva altre domande da fare?” Chiese lei scuotendo impercettibilmente la testa e sperando che lui capisse.

“No, direi che abbiamo finito qui” rispose Porter.

“D’accordo” disse Mackenzie. “Ragazzi, grazie di nuovo per il vostro tempo.”

“Sì, grazie” disse Porter raggiungendo Mackenzie nel salotto. “Jennifer, ha il mio numero, se le viene in mente qualcosa che potrebbe aiutarci, non esiti a chiamarmi. Anche il dettaglio più insignificante potrebbe rivelarsi utile.”

Jennifer annuì e con voce rauca disse: “Grazie.”

Mackenzie e Porter uscirono dall’appartamento e scesero i gradini di legno che portavano al parcheggio del condominio. Mackenzie si avvicinò a Porter, ignorando l’immensa rabbia che emanava da lui come calore.

“Ho trovato una pista” gli disse. “Kevin ha detto che sua madre stava cercando di ottenere un’ordinanza restrittiva contro qualcuno sul posto di lavoro. Ha detto che è stata l’unica volta in cui l’ha vista visibilmente furiosa o turbata per qualcosa.”

“Bene” disse Porter. “Almeno ostacolarmi ha portato a qualcosa di buono.”

“Non ti stavo ostacolando” si difese Mackenzie. “Ho soltanto visto che la situazione fra te e il ragazzo ti stava sfuggendo di mano e sono intervenuta per rimediare.”

“Cazzate” disse Porter. “Mi hai fatto sembrare debole e inferiore davanti ai ragazzi e alla loro zia.”

“Non è vero” insisté Mackenzie. “E anche se fosse, che importa? Parlavi a quei ragazzi come se fossero degli idioti che non capivano la nostra lingua.”

“Le tue azioni sono state una chiara mancanza di rispetto” disse Porter. “Ti vorrei ricordare che faccio questo lavoro da prima che tu nascessi. Se ho bisogno del tuo intervento, stai pur certa che te lo farò sapere.”

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