Il Killer Dell’orologio - Блейк Пирс 3 стр.


Riley si protese verso il fascicolo e poi ritrasse la mano, colta da uno spasmo di orribile ansia.

Che cosa mi prende?

Le iniziò a girare la testa e immagini sfocate apparvero nella sua mente. Era la PTSD del caso Peterson? No, era diverso. Era proprio un’altra cosa.

Riley si alzò dalla sedia e fuggì dalla sala conferenze. Mentre si precipitava lungo il corridoio diretta al proprio ufficio, le immagini nella sua testa a poco a poco divennero più visibili.

Erano volti, volti di donne e ragazze.

Vide Mitzi, Koreen e Tantra—giovani squillo, i cui abiti rispettabili mascheravano la loro degradazione, persino in loro stesse.

Vide Justine, una prostituta avanti con l’età, impegnata a bere in un bar, stanca e amareggiata, e ormai preparata ad affrontare una brutta morte.

Vide Chrissy, imprigionata virtualmente in un bordello, ad opera del suo violento marito protettore.

E infine, come immagine peggiore di tutte, vide Trinda, una quindicenne che aveva già vissuto l’incubo dello sfruttamento sessuale, e che non riusciva ad immaginare un’altra tipologia di vita.

Riley arrivò nel suo ufficio e crollò nella sedia. Ora comprendeva la sua scarica di repulsione. Le immagini che aveva appena visto erano state la causa scatenante. Avevano portato in superficie i suoi timori più oscuri relativi al caso di Phoenix.

Aveva fermato un brutale assassino, ma non aveva fatto giustizia per le donne e le ragazze che aveva incontrato. Restava un intero mondo di sfruttamento. Non aveva nemmeno grattato la superficie delle ingiustizie che subivano.

E adesso, era perseguitata e scossa in un modo che non aveva mai sperimentato prima d’ora. Le sembrava peggio della PTSD. Dopotutto, poteva dare sfogo alla sua rabbia privata e all’orrore in una palestra, allenandosi. Ma non riusciva affatto a liberarsi di queste nuove sensazioni.

E come poteva lavorare ad un altro caso come quello di Phoenix?

Sentì la voce di Bill alla porta.

“Riley.”

La donna sollevò lo sguardo e vide il partner guardarla con un’espressione triste. Aveva in mano il fascicolo che Meredith aveva provato a darle.

“Ho bisogno di te per questo caso” le disse. “Per me, è una questione personale. Mi fa diventare matto il fatto di non riuscire a risolverlo. E non posso fare a meno di chiedermi se il mio insuccesso sia dovuto al fallimento del mio matrimonio. Ho conosciuto la famiglia di Valerie Bruner. Sono delle brave persone. Ma non sono rimasto in contatto con loro, perché … ecco, li ho abbandonati. Devo rimettere le cose al proprio posto con loro.”

L’uomo appoggiò il fascicolo sulla scrivania di Riley.

“Dai soltanto un’occhiata. Per favore.”

Non aggiunse altro e lasciò l’ufficio di Riley, che restò seduta a guardare il fascicolo, colta da uno stato d’indecisione.

Questo non era affatto da lei. Sapeva di doverne uscire fuori.

Mentre rimuginava sul da farsi, ricordò qualcosa dei giorni che aveva passato a Phoenix. Era stata in grado di salvare una ragazza di nome Jilly. O almeno ci aveva provato.

Tirò fuori il cellulare e digitò il numero di un ricovero per adolescenti di Phoenix, Arizona. Una voce familiare giunse in linea.

“Brenda Fitch.”

Riley fu contenta che avesse risposto proprio lei. Aveva imparato a conoscere l’assistente sociale durante il suo caso precedente.

“Salve Brenda” le disse. “Sono Riley. Ho soltanto pensato di chiamare per sapere di Jilly.”

Jilly era una ragazza che Riley aveva salvato dal traffico sessuale: una tredicenne magrissima e dai capelli scuri, senza una famiglia, ad eccezione di un padre violento. Riley aveva chiamato spesso, per accertarsi dello stato di Jilly.

Riley sentì Brenda sospirare.

“Ha fatto bene a chiamare” Brenda disse. “Avrei voluto che più persone avessero mostrato un po’ di interesse. Jolly è ancora con noi.”

Il cuore di Riley sprofondò. Continuava a sperare che un giorno, alla sua domanda, le venisse risposto che Jilly aveva trovato un’amorevole famiglia adottiva. Ma non era quello il giorno. Adesso Riley era preoccupata.

Disse: “L’ultima volta che abbiamo parlato, temeva di doverla rimandare di nuovo dal padre.”

“Oh, no, siamo giunti ad una soluzione legale per questo. Abbiamo ottenuto un ordine restrittivo per tenerlo lontano da lei.”

Riley emise un sospiro di sollievo.

“Jilly chiede continuamente di lei” disse Brenda. “Le piacerebbe parlarle?”

“Sì. La prego.”

Brenda mise Riley in attesa. Quest’ultima si chiese improvvisamente se fosse o meno una buona idea. Ogni volta che parlava con Jilly, finiva per sentirsi in colpa. Non riusciva a comprenderne il motivo però. Dopotutto, aveva salvato Jilly da una vita di sfruttamento e abusi.

Ma salvata per cosa? si chiese. Che tipo di vita doveva attendersi Jilly?

Sentì la voce di Jilly.

“Ehi, Agente Paige.”

“Quante volte devo dirti di non chiamarmi in quel modo?”

“Scusa. Ehi, Riley.”

Riley rise sommessamente.

“Ehi tu. Come stai?”

“Bene, credo.”

Cadde il silenzio.

Una tipica adolescente, Riley pensò. Era sempre difficile far parlare Jilly.

“Allora, che cosa stai facendo?” le chiese Riley.

“Mi sono appena svegliata” la ragazza rispose, sembrando un po’ stordita. “Sto per fare colazione.”

Riley poi si rese conto che erano ben tre ore indietro rispetto a lei a Phoenix.

“Scusami se ho chiamato così presto” Riley disse. “Continuo a dimenticarmi della differenza d’orario.”

“Non fa niente. E’ carino che tu chiami.”

Riley sentì uno sbadiglio.

“Allora, andrai a scuola oggi?” le chiese ancora Riley.

“Sì. Ci fanno uscire ogni giorno dalla gabbia per farlo.”

Era la piccola battuta ricorrente di Jilly, definire il ricovero, “gabbia”, proprio come se fosse una prigione. Riley non trovava la cosa molto divertente.

Riley disse: “Allora ti lascio fare colazione e prepararti.”

“No, aspetta un attimo” la ragazza rispose.

Cadde di nuovo il silenzio e a Riley sembrò di aver sentito Jilly inghiottire un singhiozzo.

“Nessuno mi vuole, Riley” Jilly aggiunse. Ora stava piangendo. “Le famiglie adottive continuano ad evitarmi. Non amano il mio passato.”

Riley era stupita.

Il suo “passato”? pensò. Gesù, come poteva una tredicenne avere un “passato”? Che cosa prende alla gente?

“Mi dispiace” disse Riley.

Jilly parlava a scatti, tra le lacrime.

“E’ come … ecco, sai, è … voglio dire, Riley, sembra che tu sia la sola a cui importi di me.”

La gola doleva alla donna e gli occhi le bruciavano. Non riusciva a rispondere.

Jilly esclamò: “Non potrei venire a vivere con te? Non darei troppo fastidio. Hai una figlia, giusto? Lei potrebbe essere come mia sorella. Potremmo prenderci cura l’una dell’altra. Mi manchi.”

Riley si sforzò di parlare.

“Io … non penso che sia possibile, Jilly.”

“Perché no?”

Riley si sentì devastata. Quella domanda l’aveva colpita come un proiettile.

“Proprio… non è possibile” le disse.

Poteva ancora sentire Jilly piangere.

“Va bene” la ragazza disse. “Devo andare a fare colazione. Ciao.”

“Ciao” rispose Riley. “Ti richiamo presto.”

Sentì un clic, mentre Jilly metteva fine alla telefonata. Riley si curvò sulla scrivania, le lacrime le rigavano il volto. La domanda di Jilly continuava a ripetersi nella sua testa …

“Perché no?”

C’erano mille ragioni. Era già completamente occupata con April, così com’era. Era troppo assorbita dal lavoro, che le consumava tempo ed energia. Ed era in qualche modo qualificata o preparata a gestire le cicatrici psicologiche di Jilly? Naturalmente no.

Riley si asciugò le lacrime e si mise eretta sulla sedia. Concedersi di autocommiserarsi non avrebbe aiutato nessuno. Era il momento di tornare all’opera. C’erano ragazze che stavano morendo là fuori, e avevano bisogno di lei.

Prese il fascicolo e lo aprì. Era tempo, si chiese, di tornare nell’arena?

CAPITOLO TRE


Scratch era seduto sul dondolo del portico, intento ad osservare i bambini andare e venire nei loro costumi di Halloween. In genere, gli piaceva averli intorno, mentre andavano in giro a chiedere “Dolcetto o scherzetto?”. Ma, in quell'anno, sembrava un’occasione agrodolce.

Quanti tra questi bambini saranno vivi tra poche settimane? si chiese.

Sospirò. Probabilmente nessuno di loro. La scadenza era vicina e nessuno stava prestando attenzione ai suoi messaggi.

Le catene del dondolo stavano cigolando. Cera una leggera pioggia calda che stava cadendo, e Scratch sperava che i bambini non prendessero il raffreddore. Aveva una cesta di dolci sulle ginocchia, e si stava dimostrando abbastanza generoso. Si stava facendo tardi, e presto non ci sarebbero più stati bambini.

Nella mente di Scratch, il nonno si stava ancora lamentando, sebbene l’anziano uomo irritabile fosse morto anni fa. E non importava che Scratch fosse un adulto ora, non si sarebbe mai liberato dai consigli del nonno.

“Guarda quello con il mantello e la maschera nera di plastica” disse il nonno. “Lo chiami costume quello?”

Scratch sperava che lui e il nonno non avessero un’altra discussione.

“E’ vestito da Darth Vader, nonno” disse.

“Non m’importa chi diavolo dovrebbe essere. E’ un costume scadente e comprato in un negozio. Quando ti portavo in giro a fare “dolcetto o scherzetto?”, noi facevamo sempre i costumi per te.”

Scratch ricordò quei costumi. Per trasformarlo in una mummia, il nonno lo aveva avvolto in delle lenzuola stracciate. Per farlo apparire come un cavaliere dall’armatura splendente, il nonno l’aveva agghindato con un poster enorme coperto con un foglio d’alluminio, e gli aveva dato una lancia fatta con un manico di scopa. I costumi del nonno erano sempre creativi.

Tuttavia, Scratch non ricordava con affetto quegli Halloween. Il nonno si arrabbiava e si lamentava sempre, mentre gli faceva indossare quei costumi. E quando Scratch tornava a casa dal suo giro di “dolcetto o scherzetto?” … per un momento, si sentì di nuovo come un ragazzino. Sapeva che il nonno aveva sempre ragione. Non comprendeva sempre il perché, ma non importava. Il nonno aveva ragione, e lui invece aveva torto. Era proprio così che stavano le cose. Era così che erano sempre andate.

Scratch si era sentito sollevato, quando era diventato troppo vecchio per andare a chiedere dolci ad Halloween. Sin da allora, era stato libero di sedersi sul portico, distribuendo dolci ai bambini. Era felice per loro. Era contento che si stessero godendo l’infanzia, anche se per lui non era stato così.

Tre bambini salirono sul portico. Un ragazzino era vestito come Spiderman, una ragazzina come Catwoman. Sembrava avessero circa nove anni. Il costume del terzo bambino fece sorridere Scratch. Una bambina, di circa sette anni, indossava un costume da calabrone.

“Dolcetto o scherzetto?” tutti gridarono, mettendosi di fronte a Scratch.

Scratch sorrise e frugò nel cestino, in cerca di caramelle. Ne diede alcune ai bambini, che lo ringraziano o e se ne andarono.

“Smetti di dar loro caramelle!” il nonno brontolò. “Quando smetterai di incoraggiare quei piccoli bastardi?”

Scratch stava resistendo al nonno ormai da un paio di ore. Avrebbe pagato dopo per il suo gesto.

Nel frattempo, il nonno stava ancora brontolando: “Non dimenticare che abbiamo del lavoro da fare domani sera.”

Scratch non rispose, si limitò ad ascoltare il cigolio del dondolo. No, non avrebbe dimenticato che cosa doveva fare l’indomani sera. Era un lavoro sporco, ma doveva essere fatto.

*

Libby Clark seguì il fratello maggiore e sua cugina nel bosco buio, che si estendeva dietro tutti i cortili del quartiere. Non voleva essere lì. Voleva stare a casa, nel suo letto.

Suo fratello Gary stava guidando il gruppo, dotato di torcia. Appariva piuttosto strano nel suo costume da Spiderman. La cugina Denise seguiva Gary, indossando il costume da Catwoman. Libby chiudeva il piccolo gruppo.

“Muovetevi, voi due” Gary disse, inoltrandosi.

S’intrufolò tra due cespugli senza difficoltà, imitato da Denise, ma il costume di Libby era troppo ingombrante e s’impigliò tra i rami. Ora aveva qualcosa di nuovo di cui aver paura. Se avesse rovinato il costume da calabrone, la mamma sarebbe andata su tutte le furie. Libby riuscì a districarsi e si affrettò dietro di loro.

“Voglio andare a casa” Libby disse.

“Torna pure indietro” rispose Gary, proseguendo.

Ma, naturalmente, Libby era troppo spaventata per farlo. Si erano già allontanati tanto. Non osava tornare a casa.

“Forse dovremmo tornare tutti indietro” disse Denise. “Libby ha paura.”

Gary si fermò e si voltò. Libby avrebbe voluto vedere il suo viso dietro quella maschera.

“Che cosa c’è, Denise?” chiese. “Anche tu hai paura?”

Denise rise nervosamente.

“No” l’altra rispose. Libby percepì chiaramente la menzogna.

“Allora, forza, voi due” aggiunse Gary.

Il gruppetto continuò ad andare avanti. Il terreno era molle e melmoso, e Libby aveva l’erbaccia bagnata fino alle ginocchia. Almeno, aveva smesso di piovere. La luna iniziava a mostrarsi tra le nuvole. Ma stava anche facendo più freddo, e Libby era bagnata ovunque; stava tremando, ed aveva molta, molta paura.

Finalmente, gli alberi ed i cespugli si aprirono, lasciando spazio ad una grande radura. Il vapore si alzava dal terreno bagnato. Gary si fermò proprio sul bordo dello spazio, e così fecero Denise e Libby.

“Eccolo” sussurrò Gary, indicando. “Guardate—è quadrato, come se ci fosse stata una casa o una cosa simile qui. Ma non c’è una casa. Non c’è niente. Alberi e cespugli non ci possono nemmeno crescere. Solo erbacce. Ecco perché è una terra maledetta. Ci vivono i fantasmi.”

Libby ricordò le parole del padre.

“I fantasmi non esistono.”

Nonostante questo, le ginocchia le tremavano. Temeva che si sarebbe fatta la pipì addosso. Senz’altro alla mamma non sarebbe piaciuta la cosa.

“Che cosa sono quelli?” Denise chiese.

Indicò due sagome che si innalzavano dal suolo. A Libby, sembravano grossi tubi che si innalzavano in alto, ed erano quasi completamente coperti di edera.

“Non lo so” rispose Gary. “Mi ricordano dei periscopi di un sottomarino. Forse i fantasmi ci stanno osservando. Vai a dare un’occhiata, Denise.”

Denise esplose in una risata che esprimeva paura.

“Fallo tu!” replicò.

“D’accordo, ci vado” fu la laconica risposta.

Gary avanzò, con una certa cautela, fino al punto indicato e si diresse verso una delle sagome. Si bloccò a circa quattro metri da essa. Poi, si voltò e tornò ad unirsi a sua cugina e sua sorella.

“Non so dire che cosa sia” disse.

Denise scoppiò di nuovo a ridere. “Perché non hai nemmeno guardato!” lo stuzzicò.

“L’ho fatto” esclamò Gary.

“Non é vero! Non ti sei nemmeno avvicinato!”

“Mi sono avvicinato. Se sei così curiosa, vai a vedere tu stessa.”

Denise non rispose per un momento. Poi, si diresse verso il punto indicato. Si avvicinò un po’ di più di Gary alla sagoma, per poi tornare velocemente indietro, senza nemmeno fermarsi.

“Neanch’io so che cosa sia” esclamò.

“Adesso è il tuo turno di guardare, Libby” disse Gary.

La paura di Libby stava esplodendo nella sua gola, proprio come quell’edera.

“Non farla andare, Gary” Denise intervenne. “E’ troppo piccola.”

“Non è troppo piccola. Sta crescendo. E’ il momento che si comporti da grande.”

Gary diede a Libby una brutta spinta. La bimba si ritrovò a tre metri dal punto. Si voltò e provò a tornare indietro, ma Gary allungò la mano per fermarla.

“Huh-uh” fu l’intervento del bambino. “Io e Denise ci siamo andati. Ora tocca anche a te.”

Libby deglutì forte e si voltò, per affrontare lo spazio vuoto con i suoi due oggetti piegati. Aveva l’orrenda sensazione che potessero stare a guardarla.

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