Il Sussurratore delle Catene - Блейк Пирс 2 стр.


“Raccogliete quei ciottoli sul letto” Craig Huang ordinò. “Dovranno essere esaminati per verificare se conservino traccia di impronte o del DNA.”

In un primo momento Riley era rimasta delusa dal fatto che fosse stato Huang ad essere in servizio. Il collega era molto giovane e l’unica esperienza di lavoro con lui non era andata bene.

Ma dovette ricredersi, constatando che stava impartendo ordini ragionevoli e organizzando l’analisi della scena del crimine in modo efficace. Huang stava migliorando nel suo lavoro.

La scientifica era già al lavoro, perlustrando ogni centimetro della casa e passando il pennello per raccogliere le impronte. Gli altri agenti erano spariti nel buio sul retro della casa, nel tentativo di individuare tracce di pneumatici o orme dirette verso il bosco.

Una volta che tutto sembrò avviato, Huang condusse Riley lontano dagli altri, in cucina. Si sedettero a tavola ed April si unì a loro, ancora molto scossa.

“Allora, che cosa ne pensi?” Huang chiese a Riley. “Abbiamo qualche possibilità di trovarlo?”

Riley sospirò scoraggiata.

“No, temo che se ne sia andato da un bel po’. Deve essere stato qui questa sera, prima che mia figlia e io tornassimo a casa.”

Proprio allora, un’agente entrò dal cortile sul retro della casa. La donna indossava una giacca Kevlar, aveva carnagione, capelli e occhi scuri e sembrava ancora più giovane di Huang.

“Agent Huang, ho trovato qualcosa” disse rispettosamente. “Graffi sulla serratura della porta sul retro. Sembra che qualcuno l’abbia forzata.”

“Ottimo lavoro, Vargas” Huang commentò. “Ora sappiamo come ha fatto ad entrare. Potresti restare con Riley e sua figlia per un po’?”

Il volto della giovane s’illuminò per la gioia.

“Ne sarei felice” rispose immediatamente.

Si sedette al tavolo, e Huang lasciò la cucina per unirsi agli altri.

“Agente Paige, sono l’Agente María de la Luz Vargas Ramírez.” Un grande sorriso le comparve sul volto. “Lo so, è uno scioglilingua. E’ un’usanza messicana. Mi chiamano Lucy Vargas.”

“Sono felice che tu sia qui, Agente Vargas” Riley disse.

“Solo Lucy, per favore.”

La giovane donna restò in silenzio per un istante, continuando a guardare Riley. Infine, non riuscì a trattenersi: “Agente Paige, spero di non sembrare fuori luogo nel dirle questo, ma … è un vero onore incontrarla. Seguo il suo lavoro sin da quando ho iniziato a studiare. Tutto quello che ha fatto finora è davvero grandioso.”

“Grazie” Riley disse.

Lucy sorrise con ammirazione. “Voglio dire, il modo in cui ha chiuso il caso Peterson— tutta la storia è strepitosa.”

Riley scosse la testa.

“Vorrei che le cose fossero così semplici” rispose, con un tono amaro nella voce. “Lui non è morto. Si è introdotto qui oggi.”

Lucy rimase a guardarla, quasi incredula.

“Ma tutti dicono —” Lucy esordì.

Riley la interruppe.

“Qualcun altro pensava che fosse vivo. Marie, la donna che ho salvato. Era certa che fosse ancora lì fuori a tormentarla. Lei …”

Riley si fermò, il ricordo del corpo di Marie, impiccata nella sua stessa camera da letto, le tornò dolorosamente davanti agli occhi.

“Si è suicidata” Riley affermò.

Lucy sembrava terrorizzata e sorpresa al contempo. “Mi dispiace” riuscì solo a rispondere.

Proprio allora, Riley sentì una voce familiare chiamarla.

“Riley? Stai bene?”

La donna si voltò e vide Bill Jeffreys in piedi sulla soglia della cucina, con un’espressione ansiosa dipinta sul volto. Il BAU doveva averlo avvertito del pericolo e lui si era precipitato.

“Sto bene, Bill” lei disse. “E anche April. Accomodati.”

Bill sedette al tavolo con le tre donne. Lucy lo guardò, quasi sotto choc all’idea di aver appena incontrato l’ex partner di Riley, un’altra leggenda dell’FBI.

Huang rientrò in cucina.

“Non c’è nessuno in casa e nemmeno fuori” disse a Riley. “I miei uomini hanno esaminato e raccolto qualsiasi traccia. Ma non hanno trovato nulla di utile per continuare l’indagine. Andrò dai tecnici del laboratorio per scoprire se possono ricavarne qualcosa.”

“Lo temevo” Riley commentò.

“Sembra che abbiamo finito qui” concluse Huang. Poi lasciò la cucina per dare gli ultimi ordini agli agenti.

Riley si rivolse alla figlia.

“April, andrai a casa di tuo padre stanotte.”

Gli occhi di April si spalancarono.

“Non ti lascerò qui” April disse. “E non voglio stare con papà.”

“Devi andarci” Riley disse. “Potresti non essere al sicuro qui.”

“Ma mamma —”

Riley l’interruppe. “April, ci sono ancora delle cose che non ti ho detto di quest’uomo. Cose terribili. Sarai al sicuro con tuo padre. Passerò a prenderti domani dopo la scuola.”

Prima che April potesse continuare a protestare, intervenne Lucy.

“Tua madre ha ragione, April. Dammi retta. Anzi, consideralo un mio ordine. Sceglierò di persona un paio di agenti, che ti accompagneranno. Agente Paige, col suo permesso, telefonerò al suo ex-marito e lo metterò al corrente dei fatti.”

Riley fu sorpresa dall’offerta di Lucy e fu anche contenta. In maniera misteriosa, Lucy sembrava aver intuito che per lei questa sarebbe stata una telefonata difficile da fare. Indubbiamente, Ryan avrebbe preso questa notizia meglio da qualcuno che non fosse Riley.

Lucy era anche riuscita a gestire bene April. Non aveva soltanto individuato la serratura forzata, ma aveva anche dimostrato empatia, che era una qualità eccellente in un agente BAU, anche troppo spesso spazzata via dallo stress del lavoro.

Questa donna è brava, pensò Riley.

“Coraggio” Lucy disse ad April. “Andiamo a telefonare a tuo padre.”

April fulminò la madre con lo sguardo ma si alzò dal tavolo e seguì Lucy in soggiorno, dove cominciarono a fare la telefonata.

Riley e Bill restarono seduti da soli in cucina. Sebbene sembrasse tutto finito, per il momento, a Riley parve giusto che Bill fosse lì. Avevano lavorato insieme per anni, e aveva sempre pensato a loro due come una coppia affiatata: avevano entrambi quarant’anni, con qualche filo grigio tra i capelli scuri. Erano entrambi devoti al proprio lavoro ed avevano problemi nei rispettivi matrimoni.

Bill era robusto di costituzione e aveva un carattere forte.

“E’ stato Peterson” Riley disse. “E’ stato qui.”

Bill non rispose. Sembrava dubbioso.

“Non mi credi?” la donna gli chiese. “Ho trovato dei ciottoli nel mio letto. Deve averceli messi lui. Non possono esserci arrivati in un altro modo.”

Bill scosse la testa.

“Riley, sono certo che ci fosse davvero un intruso” le disse. “Non lo hai immaginato. Ma Peterson? Ne dubito fortemente.”

Riley iniziò ad irritarsi.

“Bill, ascoltami. Ho sentito rantolare contro la porta, una notte, e, guardando fuori, ho trovato dei ciottoli. Marie ha sentito gettare ciottoli contro la finestra della sua camera da letto. Di chi altro potrebbe trattarsi?”

Bill sospirò e scosse la testa.

“Riley, sei stanca” le rispose. “E quando si è stanchi e si ha un’idea fissa in mente, è facile credere a qualunque cosa. Può succedere a chiunque.”

Riley stentò a trattenere le lacrime.

In tempi migliori, Bill si sarebbe fidato del suo istinto senza esitazione. Ma quei giorni erano finiti e lei conosceva bene la ragione. Poche notti prima, gli aveva telefonato da ubriaca, chiedendogli di cedere alla loro attrazione reciproca ed iniziare una relazione. Era stato un enorme sbaglio, e lo sapeva: non aveva più bevuto un solo goccio da allora. Nonostante questo, le cose non erano andate bene tra loro, dopo.

“So perché parli così, Bill” ribatté. “E’ tutto per quella stupida telefonata. Non ti fidi più di me.”

Ora la voce di Bill esprimeva rabbia.

“Dannazione, Riley, sto solo cercando di essere realistico.”

Riley stava fremendo di rabbia. “Vattene, Bill.”

“Ma Riley —”

“Credermi o no è una tua scelta. Ma ora voglio che te ne vada.”

Con un’aria rassegnata, Bill si alzò dal tavolo e se ne andò.

Dalla porta della cucina, Riley vide che quasi tutti avevano lasciato la sua abitazione, inclusa April. Lucy rientrò.

“L’Agente Huang lascerà un paio di agenti qui” la informò. “Sorveglieranno la casa da un’auto, per il resto della notte. Non sono certa che sia una buona idea che lei resti qui dentro da sola. Sarei felice di restare.”

Riley si sedette a riflettere per un istante. Quello che voleva — quello di cui aveva bisogno in questo momento — era che qualcuno credesse che Peterson non era morto. Dubitava di riuscire a convincere Lucy di questo.

Tutta la situazione sembrava senza speranza.

“Starò benissimo, Lucy” la rassicurò.

Lucy annuì e lasciò la cucina. Riley sentì il suono dei passi degli ultimi agenti, che lasciavano la casa e chiudevano la porta alle loro spalle. Si alzò e andò la porta principale e quella sul retro per assicurarsi che fossero ben chiuse.

Poi, andò nel soggiorno e si guardò intorno. La casa sembrava stranamente illuminata: ogni singola luce era accesa.

Devo spegnerne qualcuna, pensò.

Ma non appena raggiunse l’interruttore del soggiorno, le dita si bloccarono. Non poteva farlo. Era paralizzata dal terrore.

Peterson, lo sapeva, stava ritornando per lei.

Capitolo 3

Riley esitò per un momento, all’atto di entrare nell’edificio del BAU, chiedendosi se fosse davvero pronta ad affrontare tutti quel giorno.

Non aveva chiuso occhio la notte precedente, ed era davvero stanca. La sensazione di terrore che l’aveva tenuta sveglia per tutta la notte aveva assorbito totalmente l’adrenalina, finché non ne era rimasta priva. Ora, si sentiva proprio svuotata.

Riley fece un respiro profondo.

E’ la sola via d’uscita.

Raccolse le idee ed entrò nell’affollato labirinto, popolato da agenti dell’FBI, da specialisti scientifici e dal personale di supporto.

Mentre attraversava la zona delle postazioni di lavoro, tutti sollevarono lo sguardo dal computer. Molti le sorrisero, e non pochi le mostrarono il pollice alto.

Riley iniziò lentamente a sentirsi contenta di aver deciso di andare lì. Aveva bisogno di tirarsi su il morale.

“Ben fatto con il Killer delle Bambole” un giovane agente esclamò.

A Riley occorsero un paio di secondi per comprendere che cosa intendesse. Poi, comprese che il “Killer delle Bambole” doveva essere il nuovo soprannome di Dirk Monroe, lo psicopatico che aveva appena catturato. Il soprannome aveva senso.

Riley notò anche un’espressione più dubbiosa sui volti di alcuni dei colleghi, che la guardavano. Senza dubbio, avevano saputo dell’incidente a casa sua, la notte scorsa, quando un’intera squadra si era precipitata sul posto, dopo che lei aveva dato l’allarme.

Probabilmente si chiedono se sono in me, pensò. Per quanto ne sapesse, nessun altro al Bureau credeva che Peterson fosse ancora vivo.

Riley si fermò davanti alla scrivania di Sam Flores, un tecnico di laboratorio con un paio di occhiali con montatura scura, impegnato al computer.

“Che notizie hai per me, Sam?” Riley chiese.

Sam alzò gli occhi dallo schermo, guardandola.

“Intendi sull’intrusione in casa tua, giusto? Ecco, proprio ora sto esaminando alcuni rapporti preliminari. Temo che non ci sia molto. I tecnici del laboratorio non hanno trovato niente sui ciottoli — niente DNA o fibre. Nemmeno impronte digitali.”

Riley sospirò, scoraggiata.

“Fammi sapere se cambia qualcosa” replicò, dando un colpetto sulla spalla di Flores.

“Non ci conterei” Flores ribatté.

Riley proseguì nell’area, condivisa da alcuni agenti anziani. Passando davanti ai piccoli uffici, con pareti in vetro, notò che Bill non c’era. Ne fu sollevata ma sapeva bene che il confronto era solo rimandato: presto o tardi avrebbero dovuto chiarire.

Giunta nel suo ufficio, ordinato e ben organizzato, Riley trovò un messaggio telefonico di Mike Nevins, lo psichiatra forense di Washington D.C., che talvolta aveva consultato per i casi del BAU.

Negli anni si era affidata a lui, che considerava un’importante risorsa non solo dal punto di vista lavorativo. Mike, infatti, l’aveva aiutata, quando aveva sofferto della Sindrome Post Traumatica da Stress, dopo che Peterson l’aveva catturata e torturata. Ora certamente l’aveva chiamata per chiederle del suo stato psicologico, come faceva sempre.

Stava per richiamarlo, quando la grande sagoma dell’Agente Speciale Brent Meredith comparve sulla porta. I lineamenti neri e spigolosi del comandante dell’unità lasciavano intuire la sua personalità dura e pratica. Riley si sentì sollevata al solo vederlo. Era sempre stata rassicurata dalla sua presenza.

“Bentornata, Agente Paige” le disse.

Riley si alzò per stringergli la mano. “Grazie, Agente Meredith.”

“Ho sentito che hai avuto un’altra piccola avventura la scorsa notte. Spero che tu stia bene.”

“Sto bene, grazie.”

Meredith la guardò sinceramente preoccupato, e la donna comprese che stava cercando di valutare se fosse pronta a tornare in pista.

“Vuoi unirti a me per un caffè?” le chiese.

“Grazie, ma ci sono dei file che devo davvero controllare. Sarà per un’altra volta.”

Meredith annuì semplicemente. Riley sapeva che stava aspettando che lei dicesse qualcosa. Senza dubbio, aveva anche sentito del fatto che lei credeva che Peterson si era introdotto in casa sua. Le stava dando la possibilità di dargli la sua opinione. Ma la donna era sicura che anche Meredith, come tutti gli altri, non sarebbe stato disposto ad accettare la sua idea riguardo a Peterson.

“Bene, farei meglio ad andare” lui disse. “Fammi sapere se sei libera per un caffè o a pranzo.”

“D’accordo.”

Meredith si fermò e tornò a guardare Riley.

Lentamente e attentamente, le disse: “Fai attenzione, Agente Paige.”

Riley lesse molti significati in quelle parole. Non molto tempo prima, un altro superiore l’aveva sospesa per insubordinazione. Era stata reintegrata, ma la sua posizione poteva ancora essere incerta. Riley sentiva che Meredith le stava dando un avvertimento amichevole. Non voleva che facesse qualcosa per mettersi in pericolo. E sollevare un polverone per Peterson avrebbe potuto causarle dei problemi con quelli che avevano dichiarato il caso chiuso.

Rimasta sola, Riley tornò alla sua postazione al computer, ed aprì sulla scrivania la corposa cartella sul caso Peterson. Cominciò a scorrerla per rinfrescarsi la memoria sul suo nemico ma non trovò informazioni utili.

La verità era che quell’uomo restava un enigma. Non c’erano stati rapporti neppure sulla sua esistenza, finché Bill e Riley lo avevano finalmente rintracciato. Peterson poteva anche non essere il suo vero nome e ipotizzavano che potesse avere diverse altre identità.

Scorrendo i fogli, Riley trovò fotografie delle sue vittime: erano tutte donne che erano state trovate in buche poco profonde, segnate da cicatrici da bruciature e morte per strangolamento manuale. Riley rabbrividì al ricordo delle grandi e forti mani, che l’avevano afferrata e messa in gabbia, proprio come un animale.

Nessuno sapeva quante donne lui avesse ucciso; era possibile che molti cadaveri non fossero stati ritrovati. E, prima che Marie e Riley fossero sopravvissute alla cattura per raccontarlo, nessuno sapeva quanto il killer si divertisse a tormentare le donne al buio con una torcia al propano.

Ma nessuno voleva credere che Peterson fosse ancora vivo.

Questa storia la stava demoralizzando. Riley era nota per la sua capacità di entrare nelle menti dei killer, una capacità che talvolta la spaventava. Nonostante la sua dote, non era mai riuscita ad entrare nella mente di Peterson.

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