“È quello che fa, e io la seguo. Le chiedo cosa è successo ma lei non vuole parlarmi. Non sta neanche piangendo. Dopo un po’ sentiamo il suono delle sirene. Ci sediamo insieme a papà, aspettando che ci dica cosa succederà. Ma non ce l’ha mai detto. Arriva l’ambulanza, poi la polizia. Un poliziotto gentile ci accompagna fuori sulle scale e rimane con noi finché papà non viene portato via ammanettato. Finché non portano fuori il corpo della mamma…”
All’improvviso l’immagine dei lacci consunti delle scarpe svanì e Chloe era di nuovo a sedere sulla scalinata, che aspettava che la nonna l’andasse a prendere. Il poliziotto in sovrappeso era con lei e, anche se non lo conosceva, la faceva sentire al sicuro.
“Tutto ok?” Chiese Skinner.
“Sì” disse Chloe con un sorriso nervoso. “La parte di papà che lancia il telefonino… Me l’ero completamente dimenticata.”
“E cosa ha provato ricordando?”
Era una domanda difficile. Suo padre era sempre stata una persona irascibile, ma vederlo compiere quel gesto dopo quello che era appena successo a sua madre lo faceva quasi apparire debole, vulnerabile.
“Sono rattristata per lui.”
“Lo ha mai incolpato per la morte di sua madre da quando è successo?” Chiese Skinner.
“A essere sincera, dipende dai giorni. Dipende dal mio umore.”
Skinner annuì e abbandonò la sua posizione, alzandosi e guardandola con un sorriso rassicurante.
“Credo che per oggi possa bastare. La prego di chiamarmi se le capita di avere un’altra reazione del genere davanti ad una scena del crimine. E, comunque, vorrei che ci rivedessimo. Potremmo fissare un appuntamento?”
Chloe ci pensò su, poi annuì. “Va bene, ma sto per sposarmi e ho ancora molte cose da preparare; i fiori, la torta… È un incubo. Posso richiamarla con una data più precisa?”
“Certamente. Fino ad allora… Rimanga vicina all’agente Greene. È un brav’uomo. E ha fatto bene a mandarla da me. Voglio che lei sappia che, essendo all’inizio della sua carriera, il fatto che sia dovuta venire da uno psicoterapeuta per risolvere i suoi problemi non significa nulla. Non è indicativo del suo talento.”
Chloe annuì. Lo sapeva, ma era comunque bello sentirlo dire la Skinner. Si alzò e lo ringraziò. Mentre usciva dalla porta per tornare nella sala d’aspetto, rivide il padre che lanciava il telefonino. Poi però le sovvenne anche un commento che aveva fatto; non che se lo fosse scordato, ma fino a quel giorno era rimasto confuso.
Aveva guardato Danielle e, con voce fin troppo agitata, aveva detto: “Danielle, tesoro… Vai a cambiarti i vestiti. Non abbiamo molto tempo prima che arrivino.”
Quel commento continuò a frullarle in testa per tutto il pomeriggio, facendola rabbrividire. Era come se stesse spingendo per aprire una porta che era rimasta chiusa negli ultimi diciassette anni.
CAPITOLO SETTE
Danielle si svegliò alle otto, con la sensazione di non aver dormito bene, o di non aver dormito affatto. Era rientrata dal lavoro alle 2:45 per poi crollare sul letto alle 3:10. Di solito non aveva problemi a dormire fino alle undici, a volte persino più tardi; invece, quando aprì gli occhi quella mattina alle 8:01, non riuscì più a riaddormentarsi. A dire la verità, era da quando aveva scoperto che Chloe si sarebbe trasferita in città che non riusciva a dormire bene. Le era sembrato quasi che il suo passato la stesse lentamente seguendo, e che non avrebbe smesso finché non l’avesse inghiottita.
Stanca e di malumore, Danielle si fece la doccia, poi fece colazione. Tutto ciò con l’album Too Dark park degli Skinny Puppy come colonna sonora. Mentre metteva la tazza sporca nel lavello, si ricordò che quel giorno sarebbe dovuta andare a fare la spesa. Di solito questo non l’avrebbe seccata. Ma a volte capitava che avesse la sensazione che stare in mezzo alla gente sarebbe stato un errore… Che le persone fossero lì a guardarla, in attesa che commettesse un errore per poi puntarle il dito contro.
Inoltre, temeva che allontanarsi da casa avrebbe dato all’autore delle lettere l’occasione di seguirla. Danielle immaginava che uno di quei giorni l’autore avrebbe smesso di scherzare e l’avrebbe semplicemente uccisa.
Forse quel giorno era proprio oggi.
Guidò fino al supermercato, perfettamente consapevole che quello era uno di quei giorni… Uno di quei giorni in cui aveva paura di tutto. Uno di quei giorni dove si sarebbe costantemente guardata alle spalle. Guidò in fretta, passando addirittura con il rosso, nell’impazienza di portare a termine quella commissione.
Fin da quando Danielle aveva iniziato a ricevere quei messaggi inquietanti sotto la porta, stare in posti pubblici le causava ansia. Era fin troppo facile immaginarsi la persona che aveva scritto le lettere che la seguiva. Persino al bar, si chiedeva se l’autore non fosse una delle persone sedute al bancone che lei aveva appena servito. Quando andava a comprare del cibo d’asporto al ristorante cinese, lui la stava forse seguendo, aspettando l’occasione per aggredirla mentre tornava alla macchina?
Anche dopo essere arrivata sana e salva alla sua destinazione ed essersi precipitata dentro il supermercato praticamente correndo con un carrello delle ruote cigolanti, la preoccupazione era ancora lì. L’autore delle lettere avrebbe potuto essere lì con lei, tra gli scaffali del supermercato, magari osservandola dalla corsia dei cereali per la colazione.
Quella paura così concreta la perseguitava dal giorno dopo quello che era successo con Martin. Era sopraffatta dalla paranoia, e teneva la testa bassa e incassata nelle spalle. Se qualcuno avesse voluto guardarla in faccia, l’avrebbero dovuto fare di proposito, fermandosi e chinandosi. Si detestava per essere così. Aveva sempre avuto problemi simili, il che era il motivo per cui la maggior parte delle sue relazioni raramente duravano più di un mese. Sapeva, durante la sua permanenza a Pinecrest, di aver sviluppato la reputazione di essere una specie di sgualdrina, ma in realtà non è che le piacesse andare a letto con chiunque. Era solo che, quando si sentiva abbastanza a suo agio con un ragazzo da andarci a letto, subentrava la paranoia e cominciava a pensare male di lui. Allora lo mollava, lasciava passare un po’ di tempo per riprendersi, poi ricominciava.
Quando era tornata a Pinecrest qualche anno prima, le cose erano migliorate leggermente. Quando aveva lasciato Boston le era sembrato di battere in ritirata… Ma andava bene così. Almeno era tornata in un luogo che le era familiare. La cosa più difficile a cui abituarsi era la mancanza di ragazzi con cui uscire. All’inizio le aveva creato problemi, anche se era riuscita a rovinare ogni singola relazione che avesse iniziato. Ecco perché il litigio con Martin l’aveva turbata così tanto.
Naturalmente c’erano anche i lati negativi di Pinecrest. Troppe persone si ricordavano di lei e di Chloe. Si ricordavano delle povere, piccole sorelle Fine, che erano finite a vivere con i nonni dopo che la madre era morta e il padre era stato arrestato.
“Danielle, sei tu?”
Danielle si voltò verso la voce, sorpresa. Era così persa nei suoi pensieri che aveva smesso di nascondere il viso mentre si alzava in punta di piedi per prendere una scatola di cereali Froot Loops. Adesso stava guardando un volto del passato, una donna che le pareva estremamente familiare, ma che non riusciva a identificare.
“Non ti ricordi di me?” Domandò la donna, a metà tra il divertito e l’offeso. Doveva avere tra i quarantacinque e i cinquant’anni. Ad ogni modo, Danielle non se la ricordava.
“Mi sa che non ti ricordi di me” disse la donna. “Credo che avessi solo tredici o quattordici anni l’ultima volta che ti ho vista. Sono Tammy Wyler. Ero un’amica di tua madre.”
“Ah sì, ma certo” disse Danielle. Non ricordava affatto quella donna, ma il nome le diceva qualcosa. Danielle immaginò che si trattasse di uno degli amici di famiglia che venivano di tanto in tanto a far visita ai suoi nonni negli anni successivi alla morte della madre.
“Quasi non ti riconoscevo” disse Tammy. “I tuoi capelli sono… Più scuri.”
“Già” disse Danielle senza entusiasmo. Probabilmente, l’ultima volta che Tammy Wyler l’aveva vista, era appena entrata nella fase di massima ribellione. All’epoca, quando aveva tredici o quattordici anni, si tingeva i capelli di rosa evidenziatore con strisce nere. Adesso invece li portava nero corvino, uno stile ormai superato ma che le si addiceva alla perfezione.
“Sapevo che eri tornata ad abitare qui, ma… Non lo so. Non ti ho mai cercata dopo che ti sei trasferita. Se non sbaglio, sei stata a Boston per un periodo, giusto?”
“Esatto.”
“Ah, ho sentito che anche Chloe è tornata in città. Ha comprato una nuova casa dalle parti di Lavender Hills, vero?”
“Già, è tornata” disse Danielle, ormai vicina al limite di sopportazione per quanto riguardava i convenevoli e cazzate del genere.
“Voci di corridoio dicono che abiti a poche case di distanza da una ragazza che veniva alle scuole superiori con voi. Io abito a due strade da lei.”
Povera Chloe, pensò Danielle.
“Ah, ti ha detto della festa di quartiere?” Chiese Tammy, apparentemente incapace di tenere la bocca chiusa per più di tre secondi consecutivi.
“Sì, me l’ha detto” disse Danielle. Sperava che Tammy avrebbe capito dalle sue risposte concise che non era il tipo da starsene lì a chiacchierare tra le corsie del supermercato.
Ci fu un breve momento di silenzio tra loro, e in quella Tammy parve effettivamente capire l’antifona. Si guardò intorno a disagio e batté in ritirata con tutta la grazia che le riuscì. “Be’, spero che tu riesca a venire. È stato bello incontrarti, Danielle.”
“Sì, anche per me” disse Danielle.
Stavolta non si prese il disturbo di camminare a testa china mentre finiva di fare la spesa. Adesso avvertiva più forte che mai il bisogno di uscire da quel negozio e tornarsene al suo appartamento. Non solo per la sua solita paranoia, ma anche a causa di quell’imbarazzante incontro con Tammy Wyler.
Finì di fare gli acquisti in tutta fretta, quasi scontrandosi con il carrello di un’altra signora nel reparto latticini. Pagò alla cassa automatica (perché sopportare cassiere chiacchierone se poteva evitarlo?) e si affrettò alla macchina. Quando fu fuori nell’aria fresca, si sentì leggermente meglio. Naturalmente, l’autore delle lettere poteva benissimo essere seduto in una delle auto nel parcheggio. Magari l’aveva seguita dentro il supermercato e l’aveva sentita parlare tutta impacciata con Tammy. Caricò le sporte sui sedili posteriori e avviò il motore. Stava per mettere la retromarcia, quando le squillò il telefono. Sul display vide lampeggiare il nome di Martin e rispose senza esitare. Se la stava chiamando per litigare, lei era pronta. Se la chiamava per scusarsi, era pronta anche per quello. A dirla tutta, in quel momento le piaceva l’idea di parlare al telefono con qualcuno che conosceva.