Oscurita’ Perversa - Блейк Пирс 3 стр.


Seguì un lungo silenzio. Sembrava che Meredith non intendesse discutere ed ancor meno far pesare la sua autorità su di lei. Ma certo non si sarebbe detto d’accordo con la decisione della donna. Non avrebbe smesso di farle pressione.

Sentì Meredith fare un lungo e triste sospiro. “Garrett è stato diviso da Nancy per anni. Ora, quello che le è accaduto lo sta logorando dentro. Immagino che qui ci sia una lezione, oppure no? Non dare nessuno per scontato nella tua vita. Mantieniti sempre in contatto.”

A Riley quasi cadde il telefono. Le parole di Meredith avevano toccato un nervo, rimasto nascosto, per molto tempo. Riley aveva perso i contatti con la sua sorella maggiore anni prima. Erano rimaste separate e lei non si era nemmeno chiesta di Wendy per molto tempo. Non aveva idea di come la sorella stesse ora.

Dopo un’altra pausa, Meredith disse: “Promettimi che ci penserai.”

“Lo farò” Riley rispose.

La telefonata terminò.

La donna si sentì malissimo. Meredith l’aveva vista affrontare dei momenti terribili, e non si era mai mostrato così vulnerabile di fronte a lei, prima di allora. Odiava deluderlo. E gli aveva appena promesso di pensarci su.

E non importava quando volesse disperatamente farlo, Riley non era certa di poter dire di no.

Capitolo Tre

L’uomo sedeva nella sua auto nel parcheggio, osservando la prostituta, che si avvicinava lungo la strada. La donna si chiamava “Chiffon”. Ovviamente, non era il suo vero nome. E lui era certo che ci fossero tante cose su di lei che ancora non conosceva.

Potrei far sì che lei me le dica, pensò. Ma non qui. Non oggi.

Non l’avrebbe nemmeno uccisa lì oggi. No, non lì, così vicino al suo solito posto di lavoro—la cosiddetta “Kinetic Custom Gym.” Dalla sua postazione, lui poteva vedere i fatiscenti macchinari da palestra attraverso le vetrine—tre tapis roulant, un vogatore e un paio di macchine per i pesi, nessuno di questi funzionante. Per quanto ne sapesse, nessuno si recava in quella palestra per fare realmente esercizio fisico.

Non in un modo socialmente accettabile almeno, pensò con un sorrisetto.

Non aveva bazzicato molto in quel posto, non da quando aveva preso quella brunetta che ci lavorava diversi anni prima. Naturalmente, non l’aveva uccisa lì. L’aveva adescata, per poi condurla in una camera di motel per dei “servizi extra”, e con la promessa di darle molti più soldi.

Non era stato un omicidio premeditato. Il sacco di plastica sulla sua testa avrebbe dovuto aggiungere soltanto un finto elemento di pericolo. Ma, una volta fatto, era rimasto sorpreso da quanto si fosse sentito profondamente soddisfatto. Si era trattato di un piacere epicureo, particolarmente intenso persino nella sua vita di piaceri.

Eppure, nei suoi successivi appuntamenti segreti, era stato ancora più attento e prudente. O almeno era stato così fino alla settimana precedente, quando quello stesso gioco era diventato mortale di nuovo con quella escort—come si chiamava?

Oh, sì, lo ricordò. Nanette.

Allora, aveva sospettato che Nanette non fosse il suo vero nome. Ora non avrebbe mai saputo quello vero. Nel suo cuore, sapeva che la sua morte non era stata un incidente. Non realmente. Aveva avuto intenzione di ucciderla. E la sua coscienza era immacolata. Era pronto a rifarlo di nuovo.

La donna che si faceva chiamare Chiffon si stava avvicinando; era ancora a circa mezzo isolato, avvolta in un top giallo e una microgonna, diretta traballando verso la palestra su tacchi terribilmente alti, mentre parlava al cellulare.

L’uomo voleva davvero sapere se Chiffon era il suo vero nome. Il loro unico precedente incontro professionale si era rivelato un fallimento—per colpa della donna, lui ne era sicuro, non certamente sua. Qualcosa di lei lo aveva deluso.

Sapeva perfettamente che era più vecchia di quanto dichiarasse. Non era soltanto il suo corpo a suggerirlo, persino le prostitute adolescenti avevano cicatrici dalla nascita. E non si trattava delle rughe che la donna aveva sul volto. Le prostitute invecchiavano più rapidamente di qualsiasi altra donna che lui conoscesse.

Non poteva giurarlo. Ma c’era tanto di lei che lo rendeva perplesso. La donna mostrava un certo tipo di entusiasmo fintamente tipico di una giovane donna, che non indicava neppure professionalità—nemmeno per una novizia.

Ridacchiava fin troppo, come una bambina che giocava. Era troppo entusiasta. E - cosa ancora più strana - sospettava che le piacesse davvero il suo lavoro.

Una puttana a cui piace davvero il sesso, pensò, osservandola avvicinarsi di più. Chi lo avrebbe mai detto?

Francamente, questo lo innervosiva.

Ma almeno era certo che lei non fosse una poliziotta sotto copertura. Se ne sarebbe accorto nella frazione di un secondo.

Quando si avvicinò abbastanza da vederlo, l’uomo suonò il clacson della sua auto. La donna smise di parlare al cellulare per un momento e guardò verso di lui, coprendosi gli occhi dal forte sole mattutino. Quando vide di chi si trattava, gli fece un saluto con la mano e sorrise — un sorriso che sarebbe sembrato, a tutto il mondo, completamente sincero.

Poi girò intorno alla palestra, dirigendosi sul retro, verso l’entrata di “servizio”. Lui si rese conto che probabilmente aveva un appuntamento con un cliente. Non importava, l’avrebbe “assunta” un’altra volta, quando sarebbe stato dell’umore per uno specifico tipo di piacere. Intanto, c’erano molte altre prostitute nei dintorni.

Ricordò com’erano andate le cose l’ultima volta. Lei era stata allegra, sorridente e dispiaciuta.

“Torna pure quando vuoi” gli aveva detto.“Andrà meglio la prossima volta. Andremo d’accordo, e le cose si faranno molto eccitanti.”

“Oh, Chiffon” lui mormorò ad alta voce. “Non ne hai idea.”

Capitolo Quattro

Il rumore degli spari risuonava intorno a Riley. Alla sua sinistra, avvertì il suono gracchiante delle pistole. Alla sua destra, sentì armi più pesanti — colpi provenienti da fucili d’assalto e colpi intermittenti di mitragliatrici.

Nel bel mezzo della sparatoria, estrasse la sua Glock dalla fondina che indossava sul fianco, si mise prona ed esplose sei colpi, poi altri tre in ginocchio. Ricaricò abilmente e velocemente, si alzò in piedi e sparò altri sei colpi, e infine s’inginocchiò per esplodere altri tre colpi con la mano sinistra.

Si alzò e infilò la sua arma nella fondina, poi indietreggiò dalla linea di fuoco, levando i paraorecchie e le protezioni per gli occhi. Il bersaglio, a forma di bottiglia, distava quasi ventitré metri. Anche da quella distanza, riusciva a vedere che era andata a segno con discreta precisione. Nelle corsie vicine, i tirocinanti dell’Accademia dell’FBI proseguivano la loro esercitazione, guidati dal loro istruttore.

Era trascorso del tempo da quando Riley aveva sparato, sebbene fosse sempre armata quando era in servizio. Aveva prenotato quella corsia all’Accademia dell’FBI per fare un po’ di pratica con il tiro al bersaglio, e, come sempre, c’era qualcosa di soddisfacente nel maneggiare una pistola, nella sua forza naturale.

Sentì una voce dietro di lei.

“Sei della vecchia scuola, vero?”

La donna si voltò e vide l’Agente Speciale Bill Jeffreys accanto a lei, sorridente. Riley gli sorrise a sua volta. Sapeva esattamente che cosa intendesse l’uomo con “vecchia scuola”. Alcuni anni prima, l’FBI aveva cambiato le prove previste per l’utilizzo della pistola. Lo sparare da una posizione prona aveva fatto parte del vecchio addestramento, ma non era più richiesto ormai. Adesso veniva messa maggiore enfasi nello sparare ai bersagli da vicino, tra i due e sei metri. Questo addestramento era integrato dall’utilizzo della realtà virtuale, dove gli agenti erano immersi in scenari, che proponevano confronti armati a distanza ravvicinata. Ed anche i tirocinanti attraversarono il noto Hogan’s Alley, una cittadina modello di dieci acri, dove combatterono contro finti terroristi con pistole da paintball.

“Qualche volta mi piace seguire la vecchia scuola” ammise. “Immagino che un giorno potrà capitare di dover sparare a distanza.”

Per sua stessa esperienza, Riley sapeva che, nella realtà, lo scontro era quasi sempre ravvicinato, diretto e - spesso - inaspettato. Infatti, lei stessa aveva dovuto affrontare due combattimenti corpo a corpo di recente. Aveva ucciso un criminale con il suo stesso coltello, e un altro con una pietra trovata per caso.

“Pensi che qualcosa prepari questi ragazzi ad affrontare la realtà?” Bill chiese, annuendo nella direzione dei tirocinanti, che ora avevano terminato e stavano lasciando la postazione di tiro.

“Non fino in fondo” Riley disse. “Nella Realtà Virtuale, il cervello legge lo scenario come reale, ma non c’è alcun pericolo incombente, niente dolore o rabbia da controllare. Qualcosa al nostro interno è sempre consapevole del fatto che non ci sia una possibilità di venire uccisi.”

“Giusto” Bill disse. “Dovranno scoprire com’è davvero, proprio come facevamo molti anni fa.”

Riley lo guardò sottecchi, mentre si allontanavano sempre di più dalla linea di tiro. Come lei, aveva quarant’anni, denunciati dalle ciocche grigie tra i capelli scuri. Si chiese come mai si stesse trovando a paragonarlo mentalmente al suo vicino, più magro e più slanciato.

Come si chiamava? si chiese. Oh, certo—Blaine.

Blaine era bello, ma non era certa che fosse all’altezza del collega. Bill era robusto, solido e piuttosto bello.

“Che cosa ti porta qui?” gli chiese.

“Ho sentito che saresti venuta” le rispose.

Riley strizzò gli occhi verso di lui con imbarazzo. Probabilmente, questa non era semplicemente una visita di un amico. Dalla sua espressione, lei comprese che non era pronto a dirle che cosa voleva, almeno non ancora.

Bill aggiunse: “Se vuoi finire l’addestramento, ti aspetterò.”

“Lo apprezzerei” Riley replicò.

Si spostarono verso una sezione separata del poligono di tiro, dove lei non sarebbe stata a rischio di venire colpita da proiettili vaganti, esplosi dai tirocinanti.

Con Bill che controllava il cronometro, Riley effettuò attraverso tutte le prove del corso di qualificazione della pistola dell’FBI, sparando ad un bersaglio da due metri, poi da quattro, da sei e da tredici. La quinta e ultima prova era quella che trovava più semplice: sparare da dietro una barricata a ventidue metri di distanza.

Quando ebbe terminato, Riley si tolse la protezione dal capo. Con Bill, raggiunsero il bersaglio e controllarono i risultati del suo lavoro. Tutti i colpi erano ben raggruppati insieme.

“Cento per cento, un punteggio perfetto” Bill esclamò.

“Dovevo farlo!” Riley rispose. Non avrebbe sopportato l’idea di essere arrugginita.

Bill indicò verso la protezione posteriore in terracotta al di là del bersaglio.

“Surreali, vero?” l’uomo disse.

Svariati cervi dalla coda bianca stavano pascolando con soddisfazione in cima alla collina. Si erano radunati lì mentre lei stava sparando. Erano ad una buona portata, persino con la sua pistola. Ma non erano neanche un po’ infastiditi da tutte le migliaia di proiettili esplosi contro i bersagli, proprio al di sotto dell’alto crinale su cui stavano camminando.

“Sì” lei disse, “e belli.”

In quel periodo dell’anno, i cervi si vedevano comunemente lì al poligono. Era stagione di caccia, e in qualche modo sapevano che sarebbero stati al sicuro in quel posto. Infatti, i terreni dell’Accademia dell’FBI erano diventati una sorta di rifugio naturale per molti animali, volpi, tacchini selvatici e marmotte inclusi.

“Un paio di giorni fa, uno dei miei studenti ha visto un orso nel parcheggio” aggiunse Riley.

Riley fece due passi verso la protezione posteriore. I cervi sollevarono la testa, la guardarono e poi scapparono via. Non temevano gli spari, ma non volevano nemmeno che le persone si avvicinassero troppo a loro.

“Come pensi che facciano a saperlo?” Bill domandò. “Che qui è sicuro, intendo dire. I colpi non hanno tutti lo stesso suono?”

Riley scosse semplicemente la testa. Per lei era un mistero. Il padre la portava a caccia quando era piccola. Per lui invece, i cervi erano semplicemente delle risorse—cibo e pelle. Non l’aveva infastidita ucciderli tutti quegli anni prima. Ma ora era diverso.

Sembrava strano, a pensarci. Non aveva problemi a uccidere un essere umano, quando era necessario. Poteva uccidere un uomo in un battito. Ma sparare ad una di quelle creature fiduciose, ora, sembrava impensabile.

Riley e Bill s’incamminarono verso una vicina area relax, e si sedettero insieme su una panchina. Qualunque fosse l’argomento di cui fosse venuto a parlarle, l’uomo sembrava ancora riluttante.

“Come ti vanno le cose da solo?” chiese con voce gentile.

Sapeva che si trattava di una domanda delicata, e lo vide trasalire. La moglie lo aveva lasciato di recente, dopo anni di scontro tra il suo lavoro e la sua vita a casa. Bill aveva paura di perdere i contatti con i suoi figli più piccoli. Ora viveva in un appartamento a Quantico, e vedeva i suoi ragazzi durante i fine settimana.

“Non lo so, Riley” disse. “Non so se mi ci abituerò mai.”

Era chiaramente solo e depresso. Aveva vissuto anche lei quell’esperienza, di recente, con la separazione prima e, poi, il divorzio. Sapeva anche che il periodo successivo alla separazione era particolarmente delicato. Anche se la relazione era stata un fallimento, ci si trovava in un mondo di estranei, sentendo la mancanza di anni di familiarità, senza quasi sapere che fare di se stessi.

Bill le toccò un braccio. Con voce leggermente rotta per l’emozione, le disse: “A volte penso che tutto quello che mi resta nella vita su cui contare sei … tu.”

Per un istante, Riley ebbe voglia di abbracciarlo. Quando lavoravano insieme come partner, Bill l’aveva salvata numerose volte, sia fisicamente sia emotivamente. Ma lei sapeva che doveva stare attenta. E sapeva anche che le persone possono essere molto folli in tempi come questi. Alla fine, una sera aveva telefonato a Bill, da ubriaca, proponendogli di iniziare una storia. Ora la situazione si era capovolta. Riusciva a percepire la sua imminente dipendenza da lei, ora che stava cominciando a sentirsi libera e forte abbastanza da stare da sola.

“Eravamo dei buoni partner” gli disse. Fu poco convincente, ma non riuscì a pensare ad altro da dire.

Bill fece un lungo e profondo respiro.

“Ecco che cosa sono venuto a dirti” ammise lui. “Meredith mi ha detto che ti ha chiamata per dirti del caso di Phoenix. Ci sto lavorando. Mi serve un partner.”

Riley provò soltanto un pizzico d’irritazione. La visita di Bill stava cominciando a sembrare un po’ un tranello.

“Ho detto a Meredith che ci avrei pensato su” gli disse.

“E ora te lo sto chiedendo io” Bill disse.

Il silenzio cadde tra di loro.

“Che mi dici di Lucy Vargas?” Riley chiese.

L’Agente Vargas era una recluta che aveva lavorato a stretto contatto con Bill e Riley al loro caso più recente. Erano rimasti entrambi impressionati dal suo lavoro.

“La sua caviglia non è guarita” Bill le rispose. “Non tornerà sul campo per un altro mese almeno.”

Riley si sentì sciocca ad averlo chiesto. Quando lei, Bill e Lucy erano stati alle costole di Eugene Fisk, il cosiddetto “killer delle catene”, Lucy era caduta e si era rotta una caviglia, facendosi quasi uccidere. Naturalmente, non poteva tornare al lavoro tanto presto.

“Non lo so, Bill” Riley aggiunse. “Questa pausa dal lavoro mi sta facendo davvero bene. Sto pensando di limitarmi all’insegnamento d’ora in poi. Tutto quello che posso dirti è quello che ho riferito a Meredith.”

“Che ci penserai su.”

“Esatto.”

Bill emise un grugnito di scontentezza.

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