Reid non le rispose subito. Aveva ragione; quello che gli era successo era stato terrificante, e aveva messo in pericolo la sua vita più di una volta, oltre che quelle delle sue ragazze. Non avrebbe sopportato se fosse successo loro qualcosa. Ma la dura verità, e una delle maggiori ragioni per cui si era tenuto tanto impegnato di recente, era che gli era piaciuto, e che gli mancava. Kent Steele bramava la caccia. C’era stato un tempo, quando era ricominciato tutto, in cui aveva considerato quella parte di lui come una persona diversa, ma non era vero. Kent Steele era solo uno pseudonimo. Lui bramava la caccia. Gli mancava. Era una parte di Reid, proprio come insegnare e crescere le sue due figlie. Anche se aveva ancora i ricordi confusi, facevano parte di lui e della sua identità. Smettere del tutto sarebbe stato come quando un’incidente metteva fine alla carriera di una star dello sport, lasciandola a domandarsi: Chi sono, se non uno sportivo?
Non fu necessario rispondere alla sua domanda ad alta voce. Maya poté vederlo nel suo sguardo distante.
“Com’è che si chiama?” domandò la ragazza all’improvviso, cambiando argomento.
Reid sorrise imbarazzato. “Maria.”
“Maria,” ripeté lei pensierosa. “Va bene. Goditi l’appuntamento.” Poi tornò al piano di sotto.
Prima di seguirla, Reid ebbe un piccolo ripensamento. Aprì il primo cassetto del comò e frugò nel fondo fino a quando non trovò quello che stava cercando, una vecchia bottiglia di costosa colonia che non metteva da due anni. Era stata la preferita di Kate. Annusò il diffusore e sentì un brivido corrergli lungo la schiena. Era un profumo familiare e muschiato che portò con sé un’ondata di bei ricordi.
Ne spruzzò un po’ sui polsi e se lo diede ai lati del collo. L’odore era più forte di quanto ricordasse, ma piacevole.
Poi… un altro ricordo gli lampeggiò davanti agli occhi.
La cucina in Virginia. Kate è arrabbiata, sta indicando qualcosa sul tavolo. Non è solo arrabbiata, è spaventata. “Perché hai una cosa del genere, Reid?” chiede in tono accusatorio. “E se una delle ragazze l’avesse trovata? Rispondimi!”
Allontanò la visione prima dell’arrivo dell’inevitabile emicrania, ma ciò non rese l’esperienza meno inquietante. Non riusciva a ricordare quando o perché fosse avvenuto quel litigio; lui e Kate avevano discusso di rado, e nel ricordo lei era sembrata spaventata. Doveva aver avuto paura di quello per cui stavano litigando, o forse persino di lui. Ma non le aveva mai dato motivo per temerlo. Almeno non che riuscisse a ricordare…
Gli tremarono le mani quando fu colpito da un nuovo pensiero. Non riusciva a ricordare l’evento, il che significava che doveva essere tra quelli soppressi dall’impianto che gli avevano messo nel cranio. Ma perché una memoria riguardante Kate era stata cancellata insieme all’agente Zero?
“Papà!” Maya lo chiamò dal fondo delle scale. “Arriverai in ritardo.”
“Sì,” borbottò. “Vengo.” Prima o poi doveva affrontare la realtà: o cercava una soluzione al suo problema, oppure quelle memorie occasionali avrebbero continuato a tornare alla superficie, confuse e scioccanti.
Ma ci avrebbe pensato più tardi. In quel momento aveva una promessa da mantenere.
Andò al piano di sotto, baciò entrambe le figlie sul capo e si diresse verso l’auto. Prima di attraversare il vialetto, si accertò che Maya avesse attivato l’allarme dietro di lui, e poi salì sul SUV argentato che aveva comprato un paio di settimane prima.
Anche se era molto nervoso ed emozionato di vedere di nuovo Maria, ancora non riusciva a liberarsi dalla stretta di panico nello stomaco. Non riusciva a evitare di pensare che lasciare da sole le figlie, anche se per poco, fosse una pessima idea. Se gli eventi del mese precedente gli avevano insegnato qualcosa, era che innanzitutto aveva moltissimi nemici che desideravano vederlo soffrire.
CAPITOLO TRE
“Come si sente stasera, signore?” chiese educatamente l’infermiera del turno di notte entrando nella camera d’ospedale. Rais sapeva che si chiamava Elena ed era svizzera, anche se gli parlava in un inglese accentato. Era minuta e giovane, molti l’avrebbero definita persino attraente, ed era piuttosto allegra.
Rais non disse nulla in risposta. Non lo faceva mai. Si limitò a fissarla mentre lei appoggiava una tazza di plastica sul suo comodino e gli controllava con attenzione le ferite. Era consapevole che l’allegria serviva a compensare la paura. Era ovvio che non le piacesse stare in quella stanza insieme a lui, nonostante le due guardie armate alle sue spalle, che guardavano ogni sua mossa. Non era felice di curarlo, né di parlare con lui.
Nessuno lo era.
L’infermiera, Elena, ispezionò con cautela le sue ferite. Era ovvio che fosse nervosa standogli tanto vicina. Sapevano tutti che cosa aveva fatto, che aveva ucciso in nome di Amun.
Sarebbero molto più spaventati se sapessero quante persone ho ammazzato, pensò sarcastico.
“Sta guarendo bene,” gli stava dicendo. “Più velocemente del previsto.” Glielo ripeteva ogni sera, cosa che lui interpretava come un modo per dire: “Con un po’ di fortuna te ne andrai presto.”
Non erano buone notizie per Rais, perché quando finalmente fosse stato abbastanza in salute da andarsene, di certo sarebbe stato mandato in un orrendo e squallido buco scavato nella terra, una prigione segreta della CIA nel deserto, per subire nuovi strazi mentre lo torturavano per ottenere informazioni.
In quanto Amun, noi sopportiamo. Era stato il suo mantra per più di un decennio della sua vita, ma non era più così. Amun non esisteva più, per quanto ne sapeva; il piano a Davos era fallito, i suoi capi erano stati imprigionati o uccisi, e ogni organo di polizia al mondo sapeva del marchio, il glifo di Amun che i suoi membri si erano bruciati nella pelle. Rais non aveva il permesso di guardare la televisione, ma captava notizie dalle sue guardie armate, che chiacchieravano spesso (e a lungo, con sua grande irritazione).
Lui stesso si era tagliato via il marchio dalla pelle prima di essere portato all’ospedale a Sion, ma alla fine era stato tutto inutile; sapevano chi era e almeno una parte di ciò che aveva fatto. Nonostante ciò, l’irregolare cicatrice rosata sul braccio dove un tempo aveva avuto il marchio era un perpetuo ricordo che Amun non esisteva più, e quindi sembrava solo giusto che il mantra cambiasse.
Io sopporto.
Elena prese la tazza di plastica, piena di acqua fredda e con una cannuccia. “Vuole bere un po’?”
Rais non disse nulla, ma si sospinse in avanti e aprì le labbra. La donna guidò con cautela la cannuccia verso di lui, tenendo le braccia completamente estese, i gomiti rigidi e il corpo reclinato all’indietro. Era spaventata; quattro giorni prima l’assassino aveva tentato di mordere il dottor Gerber. Gli aveva solo graffiato il collo con i denti, non lo aveva nemmeno fatto sanguinare, ma il gesto gli aveva fatto ricevere un pugno alla mascella da una delle guardie.
Quella volta non cercò di fare nulla. Prese lunghe e lente sorsate attraverso la cannuccia, godendosi la paura della giovane donna e la tensione dei due agenti di polizia alle sue spalle. Quando ebbe bevuto abbastanza, si sdraiò di nuovo. Lei emise un percettibile sospiro di pensiero.
Io sopporto.
Aveva sopportato molto nelle ultime quattro settimane. Aveva subito una nefrectomia per rimuovere un rene perforato e un secondo intervento chirurgico per estrarre una parte del suo fegato lacerato. Poi c’era stata una terza procedura per accertarsi che nessuno degli altri organi vitali fosse danneggiato. Era rimasto diversi giorni in terapia intensiva prima di essere trasferito nel reparto di chirurgia, ma non aveva mai lasciato il letto al quale era ammanettato per entrambi i polsi. Gli infermieri lo giravano, gli cambiavano la padella e lo tenevano più comodo possibile, ma non aveva il permesso di sollevarsi, di alzarsi e di muoversi di sua volontà.
Le sette ferite da taglio sulla sua schiena e quella sul suo petto erano state suturate e, come Elena, l’infermiera notturna, gli ricordava di continuo, stavano guarendo bene. Tuttavia, non c’era molto che i dottori potessero fare per i danni ai nervi. A volte tutta la spina dorsale gli si intorpidiva fino alle spalle e di tanto in tanto persino fino ai bicipiti. Non sentiva nulla, come se quelle parti del suo corpo fossero state di qualcun altro.
Altre volte si svegliava da un sonno profondo con un urlo in gola e un dolore bruciante che lo attraversava come una tempesta di lampi. Quegli attacchi non duravano mai a lungo, ma erano acuti, intensi e si ripetevano a intervalli irregolari. I dottori li definivano “dolori neuropatici”, un effetto collaterale che poteva capitare a chi aveva subito danni ai nervi tanto estesi. Gli avevano assicurato che spesso si attenuavano e sparivano del tutto, ma non gli avevano potuto dire quando sarebbe successo. Invece lo avevano informato che era stato fortunato a non aver riportato danni alla spina dorsale, e ad essere sopravvissuto alle sue ferite.
Già, fortunato, pensò amaramente. Fortunato di essere in via di guarigione, solo per finire sepolto in una prigione segreta della CIA. Fortunato che tutto ciò per cui aveva lavorato gli fosse stato strappato in un solo giorno. Fortunato ad essere stato sconfitto non solo una volta, ma due, da Kent Steele, un uomo che disprezzava e odiava con ogni fibra del suo essere.
Io sopporto.
Prima di lasciare la sua camera, Elena ringraziò i due agenti in tedesco e promise a entrambi di portar loro del caffè quando fosse tornata più tardi. Una volta che si fu allontanata, gli uomini riassunsero le loro posizioni fuori dalla porta, che era sempre aperta, e ripresero la loro conversazione, qualcosa su una recente partita di calcio. Rais conosceva bene il tedesco, ma i dettagli del dialetto svizzero-tedesco e la velocità con cui parlavano a volte lo eludevano. Gli agenti del turno di giorno tendevano a parlare in inglese, ed era grazie a loro che otteneva la maggior parte delle notizie su ciò che succedeva fuori dalla sua stanza d’ospedale.
Entrambi gli uomini erano membri dell’Ufficio Federale della Polizia Svizzera, che aveva dato ordini che avesse due guardie davanti alla sua porta, ventiquattro ore al giorno. Facevano turni da otto ore, con agenti del tutto diversi il venerdì e nel weekend. Ce n’erano sempre due, di continuo; se un agente doveva usare il bagno o prendere da mangiare, prima doveva chiamare una delle guardie di sicurezza dell’ospedale, e poi doveva aspettare il suo arrivo. La maggior parte dei pazienti nelle sue condizioni e a quello stadio avanzato di guarigione di solito era trasferito a un centro traumatologico di livello inferiore, ma Rais era rimasto all’ospedale. Era una struttura più sicura, con i suoi reparti chiusi a chiave e le guardie armate.
Ce n’erano sempre due. Sempre. E Rais aveva deciso che li avrebbe sfruttati per i suoi scopi.
Aveva avuto molto tempo per progettare la sua fuga, in particolare negli ultimi giorni, quando avevano iniziato a diminuirgli le dosi di tranquillanti e aveva ripreso a pensare lucidamente. Aveva preso in considerazione molti scenari diversi, analizzandoli ancora e ancora. Aveva memorizzato spostamenti e origliato conversazioni. Non mancava molto perché lo dimettessero, era al massimo una questione di giorni.
Doveva agire, e aveva deciso che lo avrebbe fatto quella sera.
Gli agenti avevano abbassato la guardia nel corso delle settimane in cui erano stati assegnati alla sua porta. Lo chiamavano ‘terrorista’ e sapevano che era un assassino, ma a parte il piccolo incidente con il dottor Gerber di qualche giorno prima, Rais non aveva fatto altro che stare sdraiato in silenzio, quasi immobile, permettendo allo staff di svolgere i suoi compiti. Se non c’era nessuno nella stanza con lui, quasi non gli prestavano attenzione al di là dell’occasionale sguardo.
Non aveva cercato di mordere il dottore per ripicca o cattiveria, ma per necessità. Gerber era stato chino su di lui, intento a ispezionare la ferita sul braccio doveva aveva tagliato via il marchio di Amun, quando la tasca dl camice bianco del dottore gli aveva sfiorato le dita della mano ammanettata. Rais si era scagliato in avanti, serrando i denti, e quando gli aveva sfiorato il collo l’uomo era saltato indietro per la paura.
E una penna stilografica era rimasta stretta nel pugno dell’assassino.
Uno degli agenti di turno gli aveva sferrato un violento pugno in faccia per quell’atto, e nel momento in cui il colpo era atterrato, Rais aveva infilato la penna sotto le lenzuola, nascondendola sotto la coscia sinistra. Era rimasta lì per tre giorni, celata sotto la coperta, fino alla notte prima. L’aveva tirata fuori mentre le guardie chiacchieravano nel corridoio. Con una mano, senza poter vedere che cosa stava facendo, aveva separato le due metà della penna e aveva rimosso la cartuccia, lavorando piano e con cura per evitare di versare l’inchiostro. La penna era un classico modello con un’acuminata punta d’oro. Aveva riposto quella metà sotto le lenzuola. L’altra metà aveva una clip da taschino in oro, che aveva forzato con attenzione con il pollice fino a staccarla.
La manetta al polso sinistro gli lasciava meno di trenta centimetri di mobilità al braccio, ma se stendeva la mano al limite riusciva a raggiungere l’estremità del comodino. Il ripiano era un semplice pannello liscio di compensato, ma la parte inferiore era ruvida come carta vetrata. Nel corso di quattro estenuanti e dolorose ore la notte prima, Rais aveva strofinato la clip avanti e indietro sotto il tavolo, attento a non fare troppo rumore. Con ogni movimento aveva temuto che la clip potesse sfuggirgli di mano, o che le guardie notassero il gesto, ma la sua stanza era buia e gli uomini erano stati impegnati nella loro conversazione. Poi anche la clip era sparita sotto le lenzuola, insieme alla punta del pennino.
Aveva capito da frammenti di discorsi che quella notte ci sarebbero state tre infermiere del turno notturno nel reparto di chirurgia, inclusa Elena, e altre due reperibili nel caso di necessità. Insieme alle guardie, facevano un totale di cinque persone che avrebbe dovuto affrontare, e un massimo di sette.
A nessuno nello staff medico piaceva particolarmente occuparsi di lui, sapendo chi era, e quindi lo andavano a controllare di rado. Ora che Elena era entrata e uscita, Rais sapeva che aveva tra i sessanta e i novanta minuti prima del suo ritorno.
Il suo braccio sinistro era bloccato con una cinghia standard d’ospedale, del tipo che i professionisti di solito definivano “a quattro punti”. Era una striscia azzurro chiaro avvolta al suo polso, stretta da un aderente cinturino bianco di nylon, la cui estremità era attaccata saldamente alla sponda di ferro del suo letto. Per via della severità dei suoi crimini, anche il suo polso destro era ammanettato.
Le due guardie all’esterno stavano parlando in tedesco. Rais le ascoltò con attenzione; quella sulla sinistra, Luca, sembrava lamentarsi del fatto che sua moglie stava prendendo peso. Rais quasi sbuffò; l’uomo era ben lontano da potersi definire in forma lui stesso. L’altro, un ragazzo di nome Elias, era più giovane e atletico, ma beveva caffè in dosi che sarebbero stati letali per la maggior parte degli esseri umani. Ogni notte, tra i novanta minuti e le due ore dopo l’inizio del turno, Elias chiamava l’agente di sicurezza notturno per poter andare in bagno. Mentre era via, ne approfittava per uscire a fumare, quindi durante la pausa bagno rimaneva via tra gli otto e gli undici minuti. Rais aveva passato molte delle notti precedenti contando i secondi della sua assenza.