Cavaliere, Erede, Principe - Морган Райс 5 стр.


Il re rimase in silenzio a lungo. Tano poteva vedere la furia nei suoi occhi. Andava bene. Combaciava con la rabbia che lui stesso provava.

“Inginocchiati!” disse re Claudio alla fine.

Tano esitò solo per un secondo, ma apparentemente fu sufficiente.

“Inginocchiati!” tuonò il re. “O vuoi che te lo faccia fare io? Sono sempre il re, qui!”

Tano si inginocchiò sul duro pavimento di pietra davanti al trono del re. Vide il re sollevare la spada che teneva con difficoltà, come se non facesse quel gesto da lungo tempo.

I pensieri di Tano andarono alla spada che portava al fianco. Non aveva dubbio che se fossero giunti a uno scontro, il vincitore sarebbe stato lui. Era più giovane, più forte e si era allenato con il meglio che l’arena avesse da offrire. Ma questo avrebbe significato uccidere suo padre. Più di tutto il resto, sarebbe stato quello il vero tradimento.

“Ho imparato molte cose nella mia vita,” disse il re tenendo alta la spada. “Quando avevo la tua età ero come te, ero giovane, ero forte, combattevo, e combattevo bene. Ho ucciso molti uomini in battaglia e in duelli nell’arena. Ho cercato di combattere per tutto ciò che credevo essere giusto.”

“Cosa ti è successo?” chiese Tano.

Le labbra del re si incurvarono in un ghigno. “Ho imparato qualcosa di meglio. Ho imparato che se dai loro una possibilità, la gente non si unisce per sostenerti. Cercano invece di farti a pezzi. Ho tentato di mostrare compassione, e la verità è che non è altro che follia. Se un uomo si oppone a te, allora distruggilo, perché se non lo fai, sarà lui ad eliminarti.”

“Oppure fallo tuo amico,” disse Tano, “e lui ti aiuterà a rendere le cose migliori.”

“Amici?” re Claudio alzò la spada ancor più. “Gli uomini potenti non hanno amici. Hanno alleati, servitori e parassiti, ma non pensare per un solo momento che non ti si rivolteranno contro. Un uomo ragionevole li tiene al loro posto, oppure li vede insorgere contro di lui.”

“Il popolo merita di meglio,” insistette Tano.

“Pensi che il popolo ottenga ciò che si merita?” gridò re Claudio. “Ottengono quello che si prendono! Stai parlando come se pensassi che le persone del popolo sono tutte nostri pari. Non lo sono. Noi siamo cresciuti fin dalla nascita per governarli. Siamo più educati, più forti, migliori in ogni aspetto. Vuoi mettere gli allevatori di maiali nei castelli accanto a te, e io invece voglio mostrati quanto appartengano al loro porcile. Lucio capisce.”

“Lucio capisce solo la crudeltà,” disse Tano.

“E la crudeltà è quello che serve per governare!”

Tano allora vide il re brandire la spada. Forse avrebbe potuto abbassarsi. Forse avrebbe addirittura potuto afferrare la propria lama. Invece rimase lì in ginocchio a guardare mentre la spada scendeva verso la sua gola, disegnando un arco di acciaio brillante alla luce del sole.

Si fermò un attimo prima di tagliargli la gola, ma non di tanto. Tano sentì la lama tagliente che gli pungeva la pelle, ma non reagì, per quanto avrebbe voluto farlo.

“Non ti sei mosso di un millimetro,” disse re Claudio. “Quasi non hai battuto ciglio. Lucio l’avrebbe fatto. Probabilmente mi avrebbe implorato per la sua vita. Questa è la sua debolezza. Ma Lucio ha la forza di fare ciò di cui c’è bisogno per governare. È per questo che è il mio erede. Fino a che non riuscirai ad estirpare questa debolezza dal tuo cuore, non ti riconoscerò. Non ti dichiarerò mio. E se attaccherai di nuovo il mio figlio legittimo, ti farò tagliare la testa. Hai capito?”

Tano si alzò in piedi. Ne aveva abbastanza di stare in ginocchio davanti a quell’uomo. “Ho capito, padre. Ho capito perfettamente.”

Si girò e si diresse verso la porta, senza aspettare il permesso di farlo. Cosa poteva fare suo padre? Sarebbe stato un atto di debolezza richiamarlo indietro. Tano uscì e Stefania lo stava aspettando. Pareva che avesse mantenuto la sua immagine di compostezza davanti alle guardie lì presenti, ma nel momento in cui Tano venne fuori, corse da lui.

“Stai bene?” gli chiese accarezzandogli una guancia. La abbassò e Tano vide che era macchiata di sangue. “Tano, stai sanguinando!”

“È solo un graffito,” la rassicurò Tano. “Ho probabilmente ferite peggiori per il combattimento di prima.”

“Cos’è successo là dentro?” gli chiese.

Tano fece un sorriso forzato, ma gli risultò più teso di quanto avrebbe voluto. “Sua maestà ha deciso di ricordarmi che, principe o no, non valgo tanto per lui quanto Lucio.”

Stefania gli mise le mani sulle spalle. “Te l’ho detto, Tano. Non è stata la cosa giusta da fare. Non puoi metterti a rischio a questo modo. Devi promettermi che ti fiderai di me e che non rifarai mai più una cosa così sciocca. Promettimelo.”

Tano annuì.

“Per te amore mio. Te lo prometto.”

E lo diceva anche sul serio. Uscire così allo scoperto a combattere contro Lucio non era la strategia corretta, perché non gli consentiva abbastanza risultato. Non era Lucio il problema. L’intero Impero era il problema. Per un breve momento aveva pensato di essere capace di convincere il re a cambiare le cose, ma la verità era che suo padre non voleva che le cose cambiassero.

No, l’unica cosa da fare adesso era trovare dei modi per aiutare la ribellione. Non solo i ribelli ad Haylon, ma tutti quanti. Da solo Tano non avrebbe potuto fare molto, ma insieme poteva forse abbattere l’Impero.

CAPITOLO SEI

Ovunque Ceres guardasse sull’Isola Oltrenebbia, vedeva cose che la facevano stare imbambolata davanti alla loro strana bellezza. Falchi con piume color dell’arcobaleno ruotavano puntando a possibili prede in basso, ma venivano a loro volta cacciati da un serpente alato che alla fine si posizionò su una guglia di marmo bianco.

Camminava sopra all’erba verde smeraldo dell’isola e le sembrava di sapere esattamente dove doveva andare. Aveva visto se stessa nella visione, lì in cima alla collina in lontananza, dove le torri dai colori dell’arcobaleno svettavano come gli aculei di una grossa bestia.

I fiori crescevano sui prati lungo la via e Ceres allungò una mano per accarezzarli. Quando le sue dita li sfiorarono però, sentì che i loro petali erano di sottile foglia di pietra. Qualcuno li aveva creati così bene o erano una sorta di roccia vivente? Solo il fatto di poter immaginare quella possibilità le diceva quanto fosse strano quel luogo.

Ceres continuò a camminare dirigendosi al punto dove sapeva, dove sperava che sua madre la stesse aspettando.

Raggiunse i piedi della collina e iniziò a risalire il pendio. Attorno a lei l’isola era piena di vita. Le api ronzavano nell’erba bassa; una creatura simile a un cerbiatto, ma con le corna di cristallo, guardò Ceres a lungo prima di scappare con un balzo.

Ma non vide nessuna persona, nonostante gli edifici che punteggiavano il paesaggio attorno a lei. Quello più vicino a lei le dava una sensazione di purezza e di vuoto, come una dimora che è stata liberata solo pochi attimi prima. Ceres continuò ad avanzare risalendo verso la cima della collina, fino al punto dove le torri formavano un cerchio attorno a un’ampia area erbosa, permettendole di vedere tra loro tutto il resto dell’isola.

Ma Ceres non guardò da quella parte. Si trovò invece a fissare il centro del cerchio dove si trovava una figura da sola, vestita con una tunica bianca e candida. Diversamente dalla sua visione, la figura non era confusa o annebbiata. Era lì, limpida e reale come Ceres stessa. Ceres fece qualche passo avanti, arrivando quasi a poterla toccare. Poteva essere solo una persona.

“Madre?”

“Ceres.”

La figura incappucciata avanzò contemporaneamente a lei e le due si incontrarono in un forte abbraccio che sembrò esprimere tutte le cose che Ceres non sapeva come dire: quanto aveva atteso quel momento, quanto amore provava, quanto incredibile fosse incontrare quella donna che aveva visto solo in una visione.

“Sapevo che saresti venuta,” disse la donna, sua madre, facendo un passo indietro, “ma pur sapendolo, è diverso vederti sul serio.”

A quel punto tirò indietro il cappuccio e a Ceres parve quasi impossibile che quella donna potesse essere sua madre. Sua sorella forse, perché avevano gli stessi capelli, la stessa fisionomia. Era quasi come guardarsi in uno specchio. Eppure le sembrava troppo giovane per essere sua madre.

“Non capisco,” disse Ceres. “Tu sei mia madre?”

“Sì.” Allungò le braccia per abbracciare Ceres di nuovo. “So che può sembrare strano, ma è così. Quelli del mio genere possono vivere a lungo. Mi chiamo Lycine.”

Un nome. Ceres finalmente aveva un nome per sua madre. In qualche modo questo significava più di tutto il resto. Anche solo questo era sufficiente perché fosse valsa la pena del viaggio. Avrebbe voluto stare lì a guardare sua madre per sempre. Ma aveva pur sempre delle domande. Così tante che traboccarono da lei in fretta e furia.

“Cos’è questo posto?” chiese. “Perché sei qui da sola? Aspetta, cosa intendi con ‘quelli del tuo genere’?”

Lycine sorrise e si sedette sull’erba. Ceres la imitò e quando si fu seduta si rese conto che non era semplice erba. Poteva vedere frammenti di roccia al di sotto che disegnavano delle specie di mosaici, ricoperti da tempo dall’intero prato tutt’attorno.

“Non esiste un modo semplice per rispondere a tutte le tue domande,” disse Lycine. “Soprattutto non quando io stessa ne ho così tante: su di te, sulla tua vita. Su tutto, Ceres. Ma ci proverò. Facciamo alla vecchia maniera? Una domanda alla volta?”

Ceres non sapeva cosa rispondere, ma sembrava che sua madre avesse già deciso.

“Raccontano ancora le storie degli Antichi, là fuori nel mondo?”

“Sì,” disse Ceres. Aveva sempre prestato più attenzione alle storie dei combattenti e delle loro imprese nell’arena, ma sapeva in qualche modo cosa si diceva degli Antichi: coloro che erano venuti prima dell’umanità, che talvolta avevano lo stesso aspetto e a volte sembravano molto di più. Che avevano costruito così tanto e poi l’avevano perduto. “Aspetta, stai dicendo che tu sei…”

“Una degli Antichi, si,” rispose Lycine. “Questo era uno dei nostri posti prima… beh, ci sono delle cose di cui è ancora meglio non parlare. E poi tocca a me avere la mia risposta. Allora, raccontami come è stata la tua vita. Non potevo essere lì, ma ho passato un sacco di tempo ad immaginare come fosse per te.”

Ceres fece del suo meglio, anche se non sapeva da dove iniziare. Raccontò a Lycine di essere cresciuta attorno alla forgia di suo padre e insieme ai suoi fratelli. Le raccontò della ribellione e dell’arena. Riuscì anche a dirle di Rexus e Tano, anche se quelle parole le uscirono frammentarie e soffocate.

“Oh, tesoro,” disse sua madre mettendo una mano sulla sua. “Avrei voluto risparmiarti almeno una parte di questo dolore. Avrei voluto essere stata vicino a te.”

“Perché non potevi?” chiese Ceres. “Sei rimasta qui tutto il tempo?”

“Sì,” disse Lycine. “Questo un tempo era uno dei luoghi del mio popolo, nei tempi antichi. Gli altri se ne sono andati. Anche io l’ho fatto per un po’, ma gli anni passati è stato una sorta di santuario. Un luogo dove aspettare, ovviamente.”

“Aspettare?” chiese Ceres. “Intendi me?”

Vide sua madre annuire.

“La gente parla di chi vede il destino come se avesse un dono,” disse Lycine, “ma è anche come una specie di prigione. Capisci cosa accadrà e perdi le scelte che ne deriverebbero senza neanche saperlo, per quanto tu lo desideri…” Sua madre scosse la testa e Ceres vide la tristezza in lei. “Questo non è il momento dei rimpianti. Ho mia figlia qui, e abbiamo solo il tempo perché tu capisca perché sei venuta.”

Sorrise e la prese per mano.

“Vieni con me.”

***

Ceres si sentiva come se fossero passati dei giorni mentre lei e sua madre passeggiavano per l’isola magica. Era mozzafiato, sia il panorama che essere lì con sua madre. Era come un sogno.

Mentre camminavano parlarono più che altro del potere. Sua madre cercava di spiegarglielo e Ceres tentava di capire. Accadde la cosa più strana: mentre sua madre parlava, Ceres si sentiva come se le sue parole la stessero effettivamente pervadendo di potere.

Anche ora mentre camminavano, Ceres lo sentiva crescere dentro di lei, come un fumo mentre sua madre le toccava la spalla. Doveva imparare a controllarlo, era venuta qui per imparare questo, ma paragonato all’incontro con sua madre, ora non le sembrava così importante.

“Il nostro sangue ti ha dato il potere,” disse Lycine. “Gli isolani hanno cercato di aiutarti a liberarlo, vero?”

Ceres pensò ad Eoin e a tutti gli strani esercizi che le aveva fatto fare. “Sì.”

“Per essere gente che non appartiene al nostro sangue, capiscono bene il mondo,” disse sua madre. “Ma ci sono delle cose che non possono mostrarti. Hai mai trasformato qualcosa in pietra finora? È uno dei miei talenti, quindi immagino che sia una dote che appartiene anche a te.”

Trasformare le cose in pietra?” chiese Ceres. Non capiva. “Fino ad adesso ho spostato delle cose. Sono diventata più veloce e più forte. E…”

Non voleva terminare quel pensiero. Non voleva che sua madre pensasse male di lei.

“E il tuo potere ha ucciso cose che hanno tentato di farti del male?” chiese Lycine.

Ceres annuì.

“Non vergognartene, figlia mia. Ho visto solo poco di te, ma so che sei destinata a me. Sei una brava persona. Tutto ciò che potrei sperare. E per quanto riguarda trasformare le cose in pietra…”

Si fermarono in un prato di fiori viola e gialli e Ceres guardò sua madre raccogliere un fiorellino dai petali delicati e setosi. Attraverso il contatto con sua madre, sentì il modo in cui il potere baluginava dentro di lei, familiare ma molto più direzionato, formato, manipolato.

La pietra si propagò attraverso il fiore come il ghiaccio su una finestra, ma non solo sulla superficie. Un secondo dopo aver iniziato, già era finito e sua madre teneva in mano uno dei fiori di pietra che Ceres aveva visto più in basso sull’isola.

“L’hai sentito?” le chiese Lycine.

Ceres annuì. “Ma come hai fatto?”

“Senti di nuovo.” Raccolse un altro fiore e questa volta eseguì il processo con estrema lentezza trasformando il fiore in qualcosa con i petali di marmo e lo stelo di granito. Ceres cercò di seguire il movimento del potere dentro di lei e fu come se il suo stesso potere si muovesse in risposta, cercando di copiarlo.

“Bene,” disse Lycine. “Il tuo sangue lo sa. Ora prova tu.”

Passò un fiore a Ceres. Ceres allungò una mano concentrandosi mentre cercava di cogliere il potere dentro di sé e spingerlo nella forma che aveva sentito dare prima da sua madre.

Il fiore esplose.

“Bene,” disse Lycine ridendo, “questo non era prevedibile.”

Era così diverso da come avrebbe reagito la madre con cui era cresciuta. Avrebbe picchiato Ceres per il minimo errore. Lycine invece non fece che passarle un altro fiore.

“Rilassati,” le disse. “Sai già come dovrebbe essere. Prendi quella sensazione. Immaginala. Rendila reale.”

Ceres cercò di farlo, pensando a ciò che aveva provato quando sua madre aveva trasformato il suo fiore. Prese la sensazione e la riempì di potere nel modo in cui suo padre avrebbe colmato uno stampo nella forgia con del ferro fuso.

“Apri gli occhi, Ceres,” le disse Lycine.

Ceres non si era neanche resa conto che li aveva chiusi fino a che sua madre non glielo disse. Si sforzò di guardare, anche se proprio in quel momento si sentiva un po’ timorosa. Ma quando guardò rimase a bocca aperta perché stentava a crederci. Aveva in mano un fiore pietrificato perfettamente formato, trasformato dal suo potere in qualcosa di simile al basalto.

“L’ho fatto io?” chiese Ceres. Pur sapendo che poteva fare ben altro, le sembrava ancora impossibile.

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