Furfante, Prigioniera, Principessa - Морган Райс 3 стр.


Ora era giunto il momento di riprendersi tutto.

Bering avrebbe solo voluto portare notizie più felici. Camminava lungo il sentiero di ghiaia che conduceva alla sua casa ed era pensieroso: non era ancora inverno, ma presto sarebbe arrivato. Il suo piano era stato di andarsene e trovare lavoro. I signori avevano sempre bisogno di fabbri per produrre armi per le loro guardie, per le loro guerre, per le loro Uccisioni. Ma era successo che non avevano avuto bisogno di lui. Avevano già i loro uomini. Uomini più giovani e più forti. Anche il re che pareva volesse il suo lavoro aveva poi rivelato di preferire il Berin di dieci anni prima.

Il pensiero faceva male, ma sapeva che avrebbe dovuto immaginare che non avessero bisogno di un uomo con più peli grigi che neri nella barba.

Gli avrebbe fatto più male se questo non avesse significato che doveva tornare a casa. Casa era ciò che contava per Bering, anche se era poco più che un quadrato fatto di tavole di legno segate grossolanamente e ricoperto da un tetto di paglia. Casa erano le persone che lo attendevano lì e il pensiero di loro era abbastanza per fargli allungare il passo.

Quando arrivò in cima alla collina però, e gli apparve il primo scorcio della sua dimora, Bering capì che qualcosa non andava. Gli si aggrovigliò lo stomaco. Sapeva com’era casa sua. Per quanto la terra circostante fosse desolata, casa sua era un posto pieno di vita. C’era sempre del rumore lì, che fosse gioioso o litigioso. Anche in questo momento dell’anno c’era di solito sempre qualcosa da raccogliere nel campo lì vicino, come verdure e piccoli cespugli di bacche, cose resistenti che fornivano almeno qualcosa da mangiare.

Non era questo che aveva ora davanti agli occhi.

Bering si mise a correre, per quanto potesse farlo dopo una camminata così lunga. La sensazione che ci fosse qualcosa che non andava lo attanagliava, come se una delle sue morse gli si fosse stretta attorno al cuore.

Raggiunse la porta e la spalancò. Magari, pensò, andava tutto bene. Magari l’avevano visto e si stavano solo assicurando che il suo arrivo fosse una sorpresa.

Era buio all’interno, le finestre incrostate di sporco. E lì una presenza.

Marita stava nella stanza principale e mescolava in una pentola qualcosa che per Berin aveva un odore troppo acre. Si girò verso di lui quando fece irruzione in casa e subito Berin capì che aveva avuto ragione. C’era qualcosa che non andava. Qualcosa che non andava per niente.

“Marita?” iniziò.

“Marito.” Anche il modo piatto in cui lo disse gli fece capire che niente era come avrebbe dovuto. Tutte le altre volte che era stato via, Marita gli aveva gettato le braccia al collo quando era entrato. Era sempre sembrata piena di vita. Ora appariva… vuota.

“Cosa sta succedendo qui?” chiese Berin.

“Non so cosa intendi dire.” Di nuovo c’era meno emozione di quanta ce ne sarebbe dovuta essere, come se qualcosa in sua moglie si fosse spezzato e avesse lasciato scappare via tutta la gioia.

“Perché tutto qua attorno è così… così fermo?” chiese Berin. “Dove sono i nostri figli?”

“Non sono qui adesso,” disse Marita. Tornò alla pentola come se tutto fosse perfettamente normale.

“Dove sono allora?” Berin non aveva intenzione di mollare l’osso. Poteva credere che i ragazzi fossero corsi al fiume più vicino o che avessero delle commissioni da fare, ma almeno uno dei suoi figli avrebbe dovuto vederlo arrivare a casa e avrebbe dovuto essere lì. “Dov’è Ceres?”

“Oh sì,” disse Marita, e Berin poté percepire adesso l’amarezza. “Ovvio che dovevi chiedere di lei. Non di come sto io. Non dei nostri figli. Ma di lei.”

Berin non aveva mai sentito sua moglie così prima. Oh, aveva sempre saputo che c’era qualcosa di duro in Marita, più preoccupata per se stessa che per il resto del mondo, ma ora sembrava addirittura che il suo cuore fosse cenere.

Marita parve poi tranquillizzarsi e la netta rapidità del mutamento fece insospettire Berin.

“Vuoi sapere cosa ha fatto la tua preziosa figlia?” gli chiese. “È scappata.”

L’apprensione di Berin si infittì. Scosse la testa. “Non ci credo.”

Marita continuò a spada tratta. “È scappata. Non ha detto dove andava, ha solo rubato quello che poteva ed è sparita.”

“Non abbiamo soldi da rubare,” disse Berin. “E Ceres non avrebbe mai fatto una cosa del genere.”

“Ovvio che tu stia dalla sua parte,” disse Marita. “Ma ha preso… cose che stavano qua in giro, cose che avevamo. Qualsiasi cosa che ha pensato di poter vendere nella città vicina, conoscendo il tipo. Ci ha abbandonati.”

Se era questo che Marita pensava, allora Berin era certo che non avesse mai veramente conosciuto sua figlia. Né lui, se credeva che si bevesse una bugia così evidente. La prese per le spalle e anche se non aveva tutta la forza di un tempo, era ancora abbastanza in forma da far apparire sua moglie fragile al confronto.

“Dimmi la verità, Marita! Cos’è successo qui?” Berin la scosse come se in qualche modo questo potesse riportare alla luce la vecchia versione dei fatti e Marita potesse tornare all’istante la donna che aveva sposato tanti anni prima. Ma ottenne solo il risultato di farla ritrarre.

“I tuoi figli sono morti!” gridò Marita. Le parole riempirono il piccolo spazio della loro casa, uscendo come un ringhio. La voce poi le cadde. “Ecco cos’è successo. I nostri figli sono morti.”

Quelle parole colpirono Berin come il calcio di un cavallo che non voleva essere ferrato. “No,” le disse. “È un’altra bugia. Deve esserlo.”

Non poteva pensare a cos’altro Marita avrebbe potuto dirgli per fargli così male. Doveva sicuramente averlo detto per ferirlo.

“Quando hai deciso che mi odiavi così tanto?” le chiese Berin, perché quello era l’unico motivo che potesse indurre a suo parere sua moglie a gettargli addosso qualcosa di così orribile: usare l’idea della morte dei loro figli come un’arma.

Ora Berin poteva vedere le lacrime negli occhi di Marita. Non ce n’erano quando aveva parlato della supposta fuga di casa di loro figlia.

“Quando hai deciso di abbandonarci,” gli rispose con tono secco. “Quando ho dovuto guardare Nasos che moriva!”

“Solo Nasos?” chiese Berin.

“Non è sufficiente?” gli gridò addosso Marita. “O forse non ti interessa dei tuoi figli?”

“Un momento fa hai detto che anche Sartes era morto,” disse Berin. “Smettila di mentirmi, Marita!”

“Anche Sartes è morto,” insistette la donna. “I soldati sono venuti a prenderlo. Lo hanno trascinato via per metterlo nell’esercito dell’Impero, ed è solo un bambino. Quanto pensi che sopravvivrà in quelle condizioni? No, entrambi i miei ragazzi sono morti, mentre Ceres…”

“Cosa?” chiese Berin.

Marita scosse la testa. “Se tu fossi stato qui magari non sarebbe neanche successo.”

“Tu eri qui,” disse Berin infervorato, tremando in tutto il corpo. “È questo il punto. Pensi che volessi andarmene? Dovevi curarti di loro mentre io trovavo i soldi per procurare da mangiare a tutti noi.”

La disperazione allora prese Berin. Iniziò a singhiozzare come mai aveva pianto neanche da bambino. Il suo primogenito era morto. Tra tutte le altre bugie che Marita si era inventata, questo sembrava vero. La perdita lasciava un buco che pareva impossibile poter riempire, anche con il dolore e la rabbia che gli stavano traboccando dentro. Si sforzò di concentrarsi sugli altri, pareva l’unico modo per non restare sopraffatto dalle emozioni.

“I soldati hanno preso Sartes?” chiese. “Soldati dell’Impero?”

“Pensi che ti stia mentendo su questo?” chiese Marita.

“Non so più cosa credere,” rispose Berin. “Non hai neanche cercato di fermarli?”

“Mi tenevano un coltello alla gola,” disse Marita. “Ho dovuto.”

“Hai dovuto fare cosa?” chiese Berin.

Marita scosse la testa. “Ho dovuto chiamarlo fuori. Mi avrebbero uccisa.”

“Quindi lo hai piuttosto consegnato a loro?”

“Cosa pensi che potessi fare?” chiese Marita. “Tu non c’eri.”

E Berin si sarebbe sentito in colpa per questo fintanto che avesse vissuto. Marita aveva ragione. Forse se lui fosse stato lì questo non sarebbe successo. Lui se n’era andato nel tentativo di evitare che la sua famiglia morisse di fame, e durante la sua assenza le cose erano precipitate. Il senso di colpa non sostituì però il dolore o la rabbia. Vi aggiunse solo forza. Tutto ribolliva in Berin, come un qualcosa di vivo che lottava per uscire.

“E Ceres?” chiese. Scosse ancora Marita per le spalle. “Dimmelo! La verità questa volta. Cos’hai fatto?”

Ma Marita si ritrasse di nuovo e questa volta cadde carponi a terra, rannicchiandosi e evitando di guardarlo. “Scoprilo da te. Sono stata io quella che ha dovuto sopportare tutto questo. Io, non tu.”

C’era una parte di Berin che avrebbe voluto continuare a scuoterla fino a che non gli avesse dato una risposta. Che voleva costringerla a dire la verità a tutti i costi. Ma lui non era quel genere di uomo e sapeva che non avrebbe mai potuto farlo. Anche solo il pensiero lo disgustava.

Non prese niente da casa quando se ne andò. Non c’era niente che lui desiderasse lì. Mentre guardava Marita, così totalmente chiusa nella sua personale amarezza da aver ceduto il proprio figlio, da aver cercato di mascherare ciò che era accaduto ai loro figli, gli fu difficile credere che ci fosse mai stato qualcosa di importante per lui lì.

Berin uscì all’aria aperta spazzando via con un colpo di palpebre ciò che era rimasto delle sue lacrime. Fu solo quando la luce del sole lo colpì che si rese conto di non avere idea di cosa fare adesso. Cosa poteva fare? Non c’era modo di aiutare il suo figlio più grande, non adesso, mentre gli altri potevano essere ovunque.

“Non ha importanza,” si disse. Poteva sentire la determinazione dentro di sé che si trasformava in qualcosa di simile al ferro che lui era solito lavorare. “Non mi fermo qui.”

Magari qualcuno là attorno aveva visto dove erano andati. Certamente c’era qualcuno che sapeva dove si trovava l’esercito e Berin sapeva benissimo che un uomo che costruiva spade poteva sempre trovare un modo per avvicinarsi all’esercito.

Per quanto riguardava Ceres… ci sarebbe stato qualcosa. Doveva essere da qualche parte. Perché l’alternativa era impensabile.

Berin guardò verso la campagna che circondava la sua casa. Ceres era là fuori da qualche parte. E anche Sartes. Disse a voce alta le parole successive, perché farlo sembrava trasformare tutto in una promessa a se stesso, al mondo, ai suoi figli.

“Vi troverò entrambi,” giurò. “A qualsiasi costo.”

CAPITOLO QUATTRO

Respirando affannosamente Sartes correva tra le tende dell’esercito stringendo in pugno la pergamena e asciugandosi il sudore dagli occhi, sapendo che se non fosse arrivato in fretta alla tenda del comandante lo avrebbero frustato. Correva e scansava gli ostacoli meglio che poteva, sapendo che il tempo stava per scadere. Aveva tardato ormai un po’ troppe volte.

Aveva già i segni neri sugli stinchi per le volte che aveva sbagliato, il dolore ormai solo uno in più tra i tanti altri. Sbatté le palpebre, disperato, guardandosi attorno nell’accampamento, cerando di trovare la giusta direzione in mezzo a quello sterminato reticolo di tende. C’erano segni e simboli per indicare la via, ma lui stava ancora cercando di imparare quegli schemi.

Sartes sentì qualcosa che gli prendeva il piede e si ritrovò ad inciampare. Il mondo parve capovolgersi mentre cadeva a terra. Per un momento pensò di essersi impigliato in una fune, ma poi sollevò lo sguardo e vide dei soldati che ridevano. Quello a capo del gruppo era un uomo più anziano con capelli corti e stopposi che si stavano ingrigendo e cicatrici che indicavano le tante battaglie fatte.

La paura allora pervase Sartes insieme a una certa forma di rassegnazione: quella era la vita nell’esercito per una matricola come lui. Non chiedeva di sapere perché gli altri uomini l’avessero fatto, perché dire qualsiasi cosa era un modo sicuro per finire a prenderle. Per quanto poteva capire, non c’era praticamente alcun motivo.

Si alzò quindi in piedi e si tolse di dosso alla meno peggio il fango dalla tunica.

“Cosa stai facendo, moccioso?” chiese il soldato che gli aveva fatto lo sgambetto.

“Sto portando una missiva al mio comandante, signore,” disse Sartes sollevando la pergamena per farla vedere all’uomo. Sperava che bastasse a metterlo al sicuro. Spesso non era così, nonostante le regole dicessero che gli ordini avevano la precedenza su qualsiasi altra cosa.

Dal momento in cui era arrivato lì, Sartes aveva imparato che l’esercito imperiale aveva un sacco di regole. Alcune erano ufficiali: lasciare il campo senza permesso, rifiutarsi di seguire gli ordini, tradire l’esercito e si era certi di essere picchiati. Ma c’erano anche altre regole. Meno ufficiali ma non meno pericolose da infrangere.

“E che missiva sarebbe?” chiese il soldato. Gli altri si stavano radunando lì attorno adesso. All’esercito mancava sempre qualche fonte di intrattenimento, quindi se c’era la prospettiva di un po’ di risate alle spese di una matricola, la gente faceva attenzione.

Sartes fece del suo meglio per apparire dispiaciuto. “Non lo so, signore. Ho solo ordine di consegnare questo messaggio. Potete leggerlo se volete.”

Quello era un rischio calcolato. La maggior parte dei soldati ordinari non sapeva leggere. Sperò che il tono della sua proposta non gli facesse guadagnare un ceffone per insubordinazione, ma cercò di non mostrare alcuna paura. Non mostrare paura era una delle regole non scritte. L’esercito aveva almeno tante di quelle regole quante quelle ufficiali. Regole riguardo chi dovevi conoscere per ottenere il cibo più buono. Riguardo chi conosceva chi e da chi dovevi guardarti, al di là del rango. Conoscere quelle regole sembrava l’unico modo per sopravvivere.

“Bene, allora è meglio che tu vada avanti!” ringhiò il soldato dandogli un calcio per spingerlo a proseguire. Gli altri risero come se quello fosse lo scherzo più grandioso che mai avessero visto.

Una delle più importanti regole non scritte sembrava essere che le matricole erano prede da cacciare liberamente. Da quando era arrivato Sartes era stato preso a pugni e schiaffi, era stato picchiato e spinto. Era stato costretto a correre fino quasi a collassare, per poi correre ancora un po’. Era stato caricato con così tanti attrezzi che si era sentito come se non potesse più stare in piedi, costretto a trasportarli, a scavare buche nel terreno per nessun apparente motivo, a lavorare. Aveva sentito storie di uomini nei ranghi che amavano fare anche di peggio ai nuovi arruolati. Anche se morivano, cosa poteva importare all’esercito? Erano lì per essere gettati al nemico. Tutti si aspettavano che morissero.

Sartes si era aspettato di morire il primo giorno. Ma alla fine si era addirittura sentito come se lo desiderasse. Si era raggomitolato nella tenda troppo piccola che gli era stata assegnata e aveva tremato, sperando che il terreno lo ingoiasse. Anche se pareva impossibile, il giorno successivo era stato peggiore. Un altro nuovo arruolato, di cui Sartes non sapeva neanche il nome, era stato ucciso. Lo avevano beccato nel tentativo di fuggire e tutti avevano dovuto assistere alla sua esecuzione, come se fosse una qualche sorta di lezione. L’unica lezione che Sartes era stato in grado di imparare era quanto crudele fosse l’esercito con chiunque desse a vedere che aveva paura. Era allora che aveva iniziato a seppellire la sua paura, a non mostrarla anche se si trovava dentro di lui in ogni momento di veglia.

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