Thor non li lasciò fuggire. Scattò verso ogni angolo della città, la Spada lo portava a una velocità mai sperimentata prima e, mentre pensava a Gwendolyn e a cosa Andronico le aveva fatto, uccideva un soldato dopo l’altro, mettendo in atto la sua vendetta. Era ora di rettificare i torti di cui Andronico aveva tempestato l’Anello.
Andronico. Suo padre. Il pensiero gli bruciava dentro come un fuoco. A ogni colpo di spada immaginava di ucciderlo, spazzando via la propria origine. Thor voleva essere qualcun altro, derivare da qualcun altro. Voleva un padre di cui essere fiero. Qualsiasi altro che non fosse Andronico. E se avesse ucciso abbastanza di quegli uomini, forse, solo forse, si sarebbe liberato da quel peso.
Thor combatteva indiavolato, ruotando in ogni direzione, fino a che si rese conto che stava tirando fendenti contro il nulla. Si guardò in giro e vide che ogni soldato, ogni singolo uomo di Andronico, giaceva a terra morto. La città era piena di corpi. Non era rimasto nessuno da uccidere.
Thor era solo nella piazza cittadina, con il fiatone, la spada scintillante in mano, e non si sentiva volare una mosca.
Improvvisamente si udì un lontano grido di gioia che lo risvegliò: corse fuori dalla città e vide, in distanza, gli uomini di Kendrick che correvano, attaccando ciò che era rimasto dell’esercito nemico, respingendolo.
Quando Thor corse fuori dal cancello della città, Micople lo vide e scese: era rimasta in attesa del suo ritorno, Gwen sempre in groppa. Thor montò sul drago e si levarono nuovamente in volo.
Volarono al di sopra dell’esercito di Kendrick e Thor li vide dall’alto, come formiche sotto di loro. Esultavano di gioia mentre passava sopra di loro. Alla fine giunsero di fronte all’esercito di Kendrick, di fronte alla grande massa di uomini, cavalli e polvere. Più in là erano sparpagliati i resti delle legioni di Andronico.
“Giù,” sussurrò Thor.
Scesero e giunsero alle spalle degli uomini di Andronico. In quel momento Micople sputò una fiammata e li spazzò via una fila dopo l’altra, mentre il muro di fuoco cresceva sempre di più. Si levarono le grida e presto Thor si sbarazzò dell’intera retroguardia.
Alla fine non rimase nessuno da uccidere neanche lì.
Continuarono a volare, attraversando la piana: Thor voleva accertarsi che non fosse rimasto nessuno. In lontananza vide una grande catena montuosa, l’Altopiano, che divideva il Regno Orientale da quello Occidentale. Tra loro e l’Altopiano non era rimasto un solo soldato dell’Impero in vita. Thor era soddisfatto.
L’intero Regno Occidentale dell’Anello era stato liberato. C’erano state abbastanza uccisioni per quel giorno. Il sole iniziava a tramontare e qualsiasi cosa ci fosse in serbo per loro più in là, nella parte Orientale dell’Altopiano, poteva aspettare per il momento.
Thor e Micople si girarono e tornarono verso Kendrick. La campagna scorreva velocemente sotto di lui e presto riuscì a udire le grida e incitazioni degli uomini che guardavano il cielo e chiamavano il suo nome.
Scese davanti all’esercito, smontò dal drago e aiutò Gwendolyn a mettere piede a terra.
Erano circondati da un enorme gruppo, tutti che si stringevano attorno a loro, con un forte grido di vittoria che si levava da ogni parte. Kendrick, Godfrey, Reece e gli altri fratelli della Legione, l’Argento, tutti quelli che Thor conosceva e amava correvano ad abbracciare lui e Gwendolyn.
Erano tutti finalmente riuniti. Finalmente liberi.
CAPITOLO NOVE
Andronico attraversò con veemenza il suo accampamento e, in un impulsivo scatto di rabbia, allungò un braccio e con i suoi lunghi artigli mozzò la testa del giovane soldato che, per sua sfortuna, gli stava casualmente vicino in quel momento. Mentre camminava Andronico decapitava un soldato dopo l’altro, fino a che i suoi uomini capirono la situazione e corsero al riparo, lontano da lui. Avrebbero dovuto sapere meglio di chiunque altro che non era il caso di stare nei paraggi quando era di cattivo umore.
I soldati si facevano da parte mentre Andronico avanzava attraverso il suo enorme accampamento di decine di migliaia di uomini: tutti se ne stavano a debita distanza. Addirittura i suoi generali rimanevano da parte, marciando dietro di lui e sapendo bene che non era il caso di ronzargli attorno quando era così arrabbiato.
La sconfitta era una cosa. Ma una sconfitta come quella non aveva precedenti nella storia dell’Impero. Andronico non aveva mai avuto esperienza di una sconfitta prima d’ora. La sua vita era stata una lunga scia di vittorie, una più brutale e soddisfacente dell’altra. Non sapeva cosa significasse sentirsi sconfitti. Ora lo aveva imparato. E non gli piaceva.
Andronico continuava a pensare ossessivamente a ciò che era successo, a come le cose fossero andate storte. Solo ieri era sembrato che la vittoria fosse completa e che l’Anello fosse suo. Aveva distrutto la Corte del Re e aveva conquistato Silesia; aveva sottomesso tutti i MacGil e umiliato la loro regina, Gwendolyn; aveva torturato i loro più grandi soldati issandoli sulle croci; aveva già assassinato Kolk e stava per fare lo stesso con Kendrick e gli altri. Argon si era immischiato nei suoi affari e aveva portato via Gwendolyn prima che potesse ucciderla, ma lui era stato sul punto di sistemare tutto, riprendendosela per poterla poi uccidere insieme agli altri. Mancava solo un giorno per poter portare tutto a compimento e avere la vittoria totalmente in pugno.
E poi tutto era cambiato per il peggio in modo estremamente veloce. Thor e quel drago erano apparsi all’orizzonte come un segno nefasto, erano scesi su di loro come una nuvola e fra enormi fiammate e la Spada della Dinastia erano riusciti a spazzare via intere divisioni di uomini. Andronico aveva visto tutto a distanza di sicurezza: aveva avuto il buon senso di battaglia di ritirarsi lì, da quella parte dell’Altopiano, mentre i suoi messaggeri continuavano durante il giorno a riportargli notizie dei danni che Thor e il drago stavano facendo. A sud, vicino a Savaria, un intero battaglione era stato spazzato via; nella Corte del Re e a Silesia era andata ancora peggio. Ora l’intero Regno Occidentale dell’Anello, un attimo prima sotto il suo controllo, era stato liberato. Era una cosa inconcepibile.
Andronico ribolliva mentre pensava alla Spada della Dinastia. Si era spinto tanto avanti da riuscire a portarla via dall’Anello e ora quella era tornata al suo posto, e con essa lo Scudo era stato riattivato. Ciò significava che era intrappolato lì con gli uomini del suo seguito. Ovviamente potevano andarsene, ma non avrebbe potuto chiamare altri rinforzi. Stimava di avere ancora circa mezzo milione di soldati lì, da quella parte dell’Altopiano, più che a sufficienza per sovrastare i MacGil. Ma contro Thor, la Spada della Dinastia e quel drago i numeri non contavano nulla. Ora le probabilità di vittoria, ironicamente, erano contro di lui. Si trovava in una posizione mai provata prima.
Come se le cose non potessero andare peggio di così, le sue spie gli avevano anche fatto sapere delle sommosse a casa, nel Congresso dell’Impero, di Romolo che tramava di portargli via il trono.
Andronico ardeva di rabbia mentre attraversava a lunghi passi l’accampamento, riflettendo sulla sua posizione e cercando qualcuno, una qualsiasi persona da biasimare. Da comandante sapeva che la cosa più saggia da fare, tatticamente, sarebbe stata di ritirarsi e lasciare l’Anello in quel preciso istante, prima che Thor e il suo drago li trovassero; salvare le forze armate che gli erano rimaste, imbarcarsi sulle navi e tornare nell’Impero in disgrazia per riprendersi il trono. Dopotutto l’Anello non era che un puntolino nella grande vastità dell’Impero e a ogni grande comandante era concessa almeno una sconfitta. Avrebbe ancora governato il novantanove per cento del mondo e sapeva che avrebbe dovuto essere più che soddisfatto e accontentarsi.
Ma il grande Andronico non era fatto di questa pasta. Andronico non era un tipo prudente o che si accontentava. Aveva sempre seguito le sue passioni e sebbene sapesse che era rischioso, non era pronto ad andarsene da quel luogo, ad ammettere la sconfitta, a permettere all’Anello di scivolargli via dalle mani. Anche se avesse dovuto sacrificare tutto l’Impero, avrebbe trovato un modo per annientare e dominare quel posto. Non importava cosa gli sarebbe costato.
Andronico non poteva controllare il drago o la Spada della Dinastia. Ma Thorgrin… quella era un’altra questione. Suo figlio.
Andronico si fermò e sospirò al pensiero. Che ironia: il suo stesso figlio, l’ultimo ostacolo rimasto al suo dominio sul mondo. In qualche modo sembrava sensato. Inevitabile. Andava sempre così: che le persone a te più vicine fossero quelle che ti ferivano di più.
Ripensò alla profezia. Era stato un errore, ovviamente, lasciarlo vivere. Il più grosso errore della sua vita. Ma aveva un debole per lui, anche se sapeva che la profezia dichiarava che proprio Thor lo avrebbe portato alla sua rovina. Lo aveva lasciato vivere e ora era giunto il momento di pagarne il prezzo.
Andronico continuò a camminare attraverso l’accampamento, seguito dai generali, fino a raggiungerne la periferia e raggiungere una tenda più piccola delle altre, l’unica di colore scarlatto in un mare di tende nere e dorate. C’era solo una persona che poteva avere l’audacia di possedere una tenda di colore diverso, l’unica persona che i suoi uomini temevano.
Rafi.
Lo stregone personale di Andronico, la creatura più sinistra che avesse mai incontrato, Rafi aveva sempre consigliato Andronico su ogni singolo passo, lo aveva protetto con la sua energia maligna, era stato più responsabile di chiunque altro della sua salita. Andronico odiava doversi rivolgere a lui adesso, ammettendo quanto avesse bisogno di lui. Ma quando incontrava un ostacolo che non fosse di questo mondo, qualcosa di appartenente alla magia, si rivolgeva sempre a Rafi.
Mentre Andronico si avvicinava alla tenda, due creature malvagie, alte e magre, avvolte in mantelli scarlatti, con occhi gialli che luccicavano da sotto i cappucci, lo fissarono. Erano le uniche creature nell’intero accampamento che potevano osare di non chinare il capo in sua presenza.
“Convoco Rafi,” disse Andronico.
Le due creature, senza voltarsi, allungarono ciascuno una sola mano e tirarono indietro i risvolti della tenda.
Ne uscì un odore orrendo che raggiunse Andronico e lo fece indietreggiare.
Vi fu una lunga attesa. Tutti i generali si fermarono alle spalle di Andronico e guardarono con impazienza, come anche gli altri dell’accampamento che si erano tutti girati a guardare. Nel campo calò il silenzio.
Finalmente emerse dalla tenda scarlatta una creatura magra e alta due volte Andronico, ossuta come il ramo di un olivo, vestita del tessuto scarlatto più scuro possibile, con un volto invisibile, nascosto da qualche parte nell’oscurità del suo cappuccio.
Rafi rimase lì a guardare e Andronico fu in grado di vedere solo i suoi occhi gialli, incavati nella sua carne pallidissima.
C’era un silenzio carico di tensione.
Alla fine fu Andronico a fare un passo avanti.
“Voglio Thorgrin morto,” disse.
Dopo una lunga pausa, Rafi sogghignò. Era uno suono profondo e fastidioso.
“Padri e figli,” disse. “Sempre la stessa storia.”
Andronico si sentiva ardere dentro, impaziente.
“Puoi aiutarmi?” insistette.
Rafi rimase in silenzio per molto tempo, abbastanza a lungo perché Andronico arrivasse a pensare di ucciderlo. Ma sapeva che sarebbe stato sciocco. Una volta, in un impeto di rabbia, aveva cercato di pugnalarlo e a mezz’aria il coltello gli si era sciolto in mano e l’elsa gli aveva pure bruciato il palmo. Gli ci erano voluti mesi per riprendersi dal dolore.
Quindi rimase lì, stringendo i denti e sopportando il silenzio.
Alla fine, da sotto il cappuccio, Rafi emise un ronzio.
“Le energie che circondano il ragazzo sono molto forti,” disse lentamente. “Ma tutti hanno un punto debole. Lui è stato elevato dalla magia. E la magia stessa può riportarlo a terra.”
Andronico, incuriosito, fece un passo avanti.
“Di che magia parli?”
Rafi fece una pausa.
“Un tipo di magia che non hai mai incontrato,” gli rispose. “Riservata solo a esseri come Thor. Lui è un tuo prodotto, ma è più di questo. È più potente anche di te. Se mai vivrà per dimostrarlo.”
Andronico ribolliva di rabbia.
“Dimmi come catturarlo,” gli chiese.
Rafi scosse la testa.
“Questa è sempre stata la tua debolezza,” gli disse. “Scegli di catturare e non di uccidere.”
“Prima voglio catturarlo,” ribadì Andronico. “Poi ucciderlo. Si può fare anche così, no?”
Seguì un altro lungo silenzio.
“C’è un modo di privarlo del suo potere, sì,” disse Rafi. “Senza la sua preziosa Spada, e senza il suo drago, sarà un ragazzino come tutti gli altri.”
“Mostrami come,” insistette Andronico.
Un altro lungo silenzio.
“C’è un prezzo,” rispose infine Rafi.
“Qualsiasi cosa,” disse Andronico. “Ti darò qualsiasi cosa.”
Si udì una lunga e oscura risatina.
“Penso che un giorno te ne pentirai,” rispose Rafi. “Veramente molto.”
CAPITOLO DIECI
Mentre Romolo marciava lungo la strada ben lastricata, fatta di mattoni dorati, che conduceva a Volusia – la capitale dell’Impero – i soldati vestiti con i paramenti migliori scattavano sull’attenti. Romolo camminava di fronte a ciò che restava del suo esercito, ridotto ora a poche centinaia di soldati, avvistati e sconfitti nel loro scontro con i draghi.
Romolo era furente. Era una sfilata di vergogna. Per tutta la sua vita era sempre tornato vittorioso, aveva avanzato come un eroe; ora invece tornava in silenzio, in uno stato di imbarazzo, riportando, invece di trofei e prigionieri, soldati che erano stati sconfitti.
Questo gli bruciava dentro. Era stato così stupido da parte sua andare così oltre nella ricerca della Spada; arrivare a sfidare e combattere con i draghi. Il suo ego lo aveva trascinato, avrebbe dovuto valutare meglio le cose. Era stato fortunato a scamparla, molto meno lo erano stati la maggior parte dei suoi uomini. Poteva ancora udire le loro grida e sentire l’odore della loro carne bruciata.
I suoi uomini erano stati disciplinati e avevano combattuto coraggiosamente, marciando incontro alla loro morte al suo comando. Ma dopo che da migliaia erano stati ridotti davanti ai suoi occhi a poche centinaia, aveva capito di dover fuggire. Aveva ordinato una precipitosa ritirata e i resti del suo esercito erano scivolati nei tunnel, in salvo dalle fiamme dei draghi. Erano rimasti sottoterra ed erano tornato alla capitale a piedi.
Ora eccoli lì, che entravano attraverso il cancelli che si levavano per decine di metri fino al cielo. Mentre entravano in quella città leggendaria, fatta interamente d’oro, migliaia di soldati dell’Impero andavano avanti e indietro in ogni direzione, marciando in formazione, allineandosi lungo le strade, mettendosi sull’attenti al suo passaggio. Dopotutto, senza Andronico, Romolo era de facto la guida dell’Impero e il più rispettato di tutti i guerrieri. Almeno fino alla sua perdita odierna. Ora, dopo la sua sconfitta, non sapeva come la gente lo guardasse.
La sconfitta non sarebbe potuta presentarsi in un momento peggiore. Era il momento in cui Romolo stava preparando il suo colpo di stato, si stava apprestando a dimostrare il suo potere e a detronizzare Andronico. Mentre si faceva strada attraverso quella perfetta cittadina, passando vicino a fontane, giardini accuratamente preparati, servitori e schiavi ovunque, si meravigliò che invece di tornare, come aveva previsto, con la Spada della Dinastia in mano, con più potere che mai, stesse invece facendo ritorno in una posizione di debolezza. Ora, invece di raccogliere in sé il potere che gli spettava di diritto, avrebbe dovuto scusarsi di fronte al Concilio e sperare di non perdere la sua posizione.