L’alieno parve quasi offeso, anche se Kevin dubitava che potesse provare anche quella emozione. Dubitava che potesse provare qualsiasi cosa.
“Noi non facciamo nessun giochetto,” disse. “I cervelli della nostra specie sono delicati però, e ci serve che il tuo sia intatto per i compiti che l’Alveare ha in serbo per te. Se ti ribelli troppo durante il processo, c’è la possibilità che il tutto resti… danneggiato.”
“Mi ribellerò di certo,” promise Kevin. “Morirei piuttosto che fare qualsiasi cosa per aiutarvi.”
L’alieno rimasse fermo a fissarlo, apparentemente non comprendendo ciò che aveva appena detto. Guardò Kevin con un leggero cipiglio, piegando la testa di lato come se stesse ascoltando qualcosa che solo lui riusciva a sentire. Kevin aveva la sensazione che stesse cercando di capirlo, per decidere nel frattempo il da farsi.
“La tua affermazione è da sciocchi,” disse Puro Xan. “Cedere è a tuo totale vantaggio. Così potrai continuare ad esistere.”
“Tanto morirò comunque,” disse Kevin, pensando per un momento a quando il dottore gli aveva diagnosticato la sua malattia, dicendogli quanto poco tempo gli restasse da vivere. “Pensi che le tue minacce mi importino?”
L’alieno lo fissò per un altro momento o due, e di nuovo Kevin ebbe la sensazione che stesse ricevendo consigli dagli altri della sua specie.
“Possiamo salvarti,” disse, lasciando cadere lì le parole come pesi di piombo.
Lo shock di quell’affermazione assalì Kevin come una secchiata di acqua fredda. I migliori scienziati che la Terra avesse da offrire avevano tentato di aiutarlo, fallendo. Ora questi alieni gli stavano offrendo di farlo stare bene come se non fosse niente.
“Stai mentendo,” rispose. Doveva credere che stessero mentendo. “Hai già mentito su tante cose. Pensi che ti crederò?”
Pensò a tutti i modi in cui avevano mentito per indurlo ad aiutarli con la loro invasione della Terra. Gli avevano detto di essere dei rifugiati provenienti da un altro pianeta e in cerca di salvezza. Gli avevano raccontato che erano loro quelli che stavano sfuggendo alla distruzione, non coloro che l’avevano causata.
“Hai visto quello che possiamo fare,” disse Puro Xan. “Possiamo manipolare la carne in modi che la tua mente umana non può neanche immaginare. I Puri dell’Alveare sono preservati in maniera quasi indefinita. Abbiamo ogni motivo per volerti in vita. Potremmo guarirti, se appartenessi all’Alveare.”
Cosa poteva dire Kevin di fronte a quel genere di tentazione? Era tutto ciò che aveva desiderato dal momento in cui il dottore gli aveva detto quello che gli stava succedendo. Quando era stato all’istituto della NASA, aveva segretamente sperato che uno degli scienziati lì potesse trovare un qualche modo per aiutarlo, per far fermare tutti i tremori e il dolore. Aveva pensato di poter dare praticamente ogni cosa pur di stare di nuovo bene. Fu uno sforzo enorme per lui ora scuotere la testa.
“Se devo morire impedendo quello che volete, allora è quello che farò,” disse. Lo intendeva sul serio. Voleva vivere, aveva sperato in una cura, ma ormai aveva avuto un sacco di tempo per accettare quello che gli stava succedendo. Se morire poteva aiutare a fermare gli alieni… beh, non voleva, ma l’avrebbe fatto.
“E cosa mi dici delle altre cose che l’Alveare ha da offrirti?” gli chiese Puro Xan. “Ci dicono che la vostra specie dà importanza a genitori e amici. In quanto appartenente a noi, potresti decidere cosa fare di coloro che controlliamo.”
Kevin deglutì, pensando a sua madre, pensando a Luna. C’erano così tante persone che conosceva sulla Terra, ora così lontana da non essere più visibile sullo schermo. Se avesse potuto aiutarli… no, se gli alieni volevano qualcosa da lui, questo non li avrebbe aiutati per niente.
“E poi c’è la questione della tua amica qui,” disse Puro Xan. “Come ho detto, in quanto appartenente all’Alveare, potresti determinare il suo destino. Se non lo fai, la donna subirà degli esperimenti, proprio davanti ai tuoi occhi.”
Kevin rimase impietrito, spostando lo sguardo da Chloe all’alieno più volte.
“No, Kevin. Non farlo,” disse Chloe. Kevin poteva sentire la sua disperazione. “Lascia che mi uccidano. Che facciano quello che serve!”
Kevin poteva percepire la sincerità nella sua voce, ma… non poteva farlo. Non poteva starsene lì a guardare mentre Chloe moriva. Sapeva che l’avrebbero fatto. C’era qualcosa nel modo freddo e privo di emozione in cui Xan aveva posto la sua minaccia che la rendeva qualcosa di diverso: non esattamente una minaccia, ma più una semplice dichiarazione di ciò che sarebbe successo.
“Ti modificheremo comunque,” disse Puro Xan. “È semplicemente questione di quanto ti ribelli, e di quanto faccia male. Prendi la tua decisione, Kevin McKenzie.”
“Ribellati a loro, Kevin,” disse Chloe. “Non cedere!”
Kevin la guardò, cercando di non pensare a tutte le cose che gli alieni avrebbero potuto farle. Era impossibile però fare qualsiasi cosa che non fosse immaginarsi quello che le sarebbe successo quando avessero iniziato ad eseguire esperimenti su di lei. Poteva davvero starsene a guardare mentre iniziavano a farla a pezzi per vedere come funzionava, o si mettevano a trasformarla in qualcosa che non era umano? Poteva farlo, quando questo li avrebbe solo portati a trasformarlo con la forza?
Non poteva, e lo sapeva bene.
“Va bene,” disse, odiando ogni singola parola. “Fatelo.”
“Lo avremmo fatto comunque,” gli assicurò Puro Xan. “Farà più male, tanto più ti ribellerai.”
“Kevin,” disse Chloe. “Ti prego, ribellati. Devi restare te stesso. Devi restare forte.”
Quella era sicuramente la loro unica speranza. Non potevano liberarsi. Non potevano lottare fisicamente. L’unica possibilità era diventare uno dell’Alveare e in qualche modo sperare di conservare qualcosa di sé…
Non portò neppure a termine quel pensiero che Puro Xan gli applicò i tentacoli sulla testa, e l’Alveare entrò invisibile nel suo cervello.
Kevin gridò di dolore, un dolore netto e improvviso, come se una stalattite gli fosse stata piantata in mezzo alla mente. Pensava di essersi abituato al dolore con la sua malattia; aveva pensato di aver imparato cosa fosse, ma ora si rendeva conto che non era proprio niente confronto a ciò che gli stava succedendo adesso. Poteva sentire i tentacoli che frugavano tra i suoi pensieri e i suoi ricordi, la spiacevole sensazione, fin troppo familiare ormai, di quando gli alieni gli avevano testato la mente la prima volta.
Ma questo pareva in qualche modo diverso, perché questa volta gli alieni non stavano solo guardando.
Kevin poteva sentire l’Alveare dentro ai suoi pensieri, mente sopra a mente, tutte unite e potenti. Era caldo e freddo e doloroso, tutto allo stesso tempo. Era come vetro smerigliato lavorato in mezzo ai suoi pensieri. Poteva sentire il lavaggio dei controllati ai confini, non proprio parte reale del tutto. Poteva sentire le menti affilate di cose avvezze alla guerra, e i pensieri più morbidi e lenti di bestie da soma. Poi c’erano i Puri e i loro schiavi, scie luccicanti che spiccavano in mezzo a tutta quella rete.
Vieni a noi, lo incalzavano, le voci profonde e seducenti. Diventa uno di noi.
Kevin cercò di divincolarsi, e lo sforzo gli fece più male di quanto avesse potuto immaginare. Si sentì gridare, ma il suono parve venire da lontano. C’erano come degli artigli che lo tenevano fermo, conficcati nel suo cervello, troppo potenti per poterli ignorare.
Lo stesso Kevin continuò a lottare. Poteva sentire l’Alveare che si muoveva dentro di lui, prelevando parti della sua mente nel modo in cui un esercito invasore avrebbe potuto saccheggiare campi e città. Kevin iniziò a nascondere parti di se stesso, ricordando il modo in cui nascondeva la propria paura per il bene di sua madre, cercando di nascondere quello che poteva mentre gli alieni continuavano ad avanzare all’interno del suo cervello. Se fosse riuscito a resistere abbastanza, magari avrebbe trovato un modo per tenersi staccato dall’Alveare. Per rimanere se stesso.
Sentì il momento in cui lo collegarono all’Alveare, passando dal vedere tutte le scie separate ad esserne una parte. Poteva sentire i messaggi e i pensieri degli altri, gli ordini dei Puri e l’obbedienza del resto.
Una mente che divide le cose, pensò un Puro nei suoi confronti.
Una mente che è proprio quello che ci serve, confermò un altro.
Kevin poteva sentire la presenza di Puro Xan accanto a sé. Svegliati, Kevin, entra nella tua nuova vita.
Kevin aprì gli occhi di scatto. Non ricordava di averli chiusi. Il mondo attorno a lui sembrava strano, avvolto in uno scintillio di nuovi colori, dettagli che non avrebbe mai notato prima con i suoi occhi. Era come se fosse capace di concentrarsi su ogni movimento della polvere o cambiamento di colore.
Si guardò attorno osservando i macchinari, e l’Alveare dentro di lui gli spiegò a cosa servisse ciascuno di essi. Era riuscito a trattenere una parte di sé? Kevin non lo sapeva. Si sentiva ancora come fosse se stesso, anche se tutto il resto nel mondo gli appariva strano. Sembrava allo stesso tempo più vivo e più connesso di quanto avrebbe potuto credere possibile.
Puro Xan si portò accanto a lui, operando sui controlli della cornice, così che Kevin sentì la gravità riportarlo verso il pavimento, non più bloccato al pannello di vetro.
“Benvenuto nell’Alveare, Emissario Kevin,” lo accolse Puro Xan.
CAPITOLO CINQUE
Luna e i motociclisti scappavano dai controllati che man mano si avvicinavano. Scattarono verso le moto, cercando di arrivarvi prima che la maggiore velocità di quegli alieni li portasse loro addosso. Luna corse verso il punto dove si era fermata la sua motocicletta, ora riversa sul fianco con il sidecar verso l’alto, ovviamente buttata a terra dal caos che aveva fatto seguito al momento in cui l’avevano catturata.
Cercò di raddrizzarla, spingendovi contro tutto il corpo, ma sentendosi come se stesse premendo contro un muro di pietra. La sentì spostarsi leggermente mentre continuava a spingere, e poi finalmente la raddrizzò sollevando una piccola nuvola di polvere quando il sidecar andò a colpire la strada.
“Entra, Bobby,” gridò al cane, che era ancora impegnato a ringhiare all’orda di controllati in avanzata, come se potesse riuscire a respingerli. “Sbrigati!”
Luna indicò il sidecar e il cane colse il messaggio, saltandovi dentro e accomodandosi, guardandosi attorno ancora con i denti digrignati. Guardando alle sue spalle, Luna capì il motivo: i controllati erano davvero vicini, correndo a una velocità tale che a ogni battito di ciglio avevano guadagnato sempre maggior vantaggio. Luna fece per accendere la motocicletta, determinata a mettere più distanza possibile tra lei e i controllati…
Non partiva.
“Non ora,” disse a denti stretti mentre il motore borbottava e sputacchiava. “Andiamo!”
Saltò con tutto il proprio peso sul pedale dell’accensione, una volta e poi un’altra ancora. Vedeva i controllati sempre più vicini, a venti metri, poi a dieci. Luna sentì salire la paura. Non aveva davvero alcuna intenzione di venire a scoprire cosa facessero i controllati a qualcuno che non fosse più dei loro.
Saltò ancora una volta sul pedale, spingendo con tutto il suo peso, e la moto rombò avviandosi. Luna non esitò e accelerò il più forte possibile staccandosi dall’ondata di gente controllata che ormai incombeva su di lei. Sentì un peso mentre una mano priva di sensibilità si aggrappava alla sua moto, una donna con le pupille velate che si teneva con tutte le sue forze mentre la motocicletta la trascinava, facendola scivolare sul terreno.
Luna cercò di ricordare se avesse visto quella donna mentre erano stati tutti costretti a lavorare. Si trovò a pensare alla persona che probabilmente era ancora intrappolata da qualche parte dietro a quegli occhi, la persona che quasi sicuramente stava lottando contro quel corpo anche mentre tentava di afferrare Luna. Luna ora sapeva perfettamente quanto orribile fosse essere un controllato, e sapeva che non c’era nulla che la persona lì potesse fare per fermarsi.
D’altro canto sapeva anche che non sentivano dolore.
“Scusa,” le disse prendendo a calci alla donna fino a farla cadere in mezzo alla strada, permettendo alla moto di scattare in avanti. Luna stessa dovette tenersi con forza per non farsi sbalzare all’indietro.
Attorno a lei Luna vide i membri del Circolo Motociclistico di Capopolvere che prendevano le loro motociclette e partivano in formazione, le moto che disegnavano un’ampia V, come se potessero essere capaci di schiacciare qualsiasi cosa si fosse messa loro davanti. Vide Ignazio che saltava dietro a Orso, sempre tenendo stretta in pugno la sua preziosa pistola a vapore.
C’erano altri controllati che sbucavano dalle strade laterali ora, lanciandosi addosso alle motociclette da ogni direzione. L’unica speranza sembrava quella di continuare a dare gas ai motori, sperando che la pura velocità li portasse a superare la massa di gente controllata prima che questi potessero travolgerli come l’acqua che si riversa in un lavabo. A Luna non dispiaceva andare più forte. Avere paura della velocità era decisamente meglio che pensare alla prospettiva di essere fatti a pezzi dai controllati.
“Non vi fermate!” gridò Luna agli altri, con la voce più alta che poté in modo che le sue parole si potessero udire nonostante il rumore assordante dei motori. “Dobbiamo scappare!”
Continuarono a guidare il più velocemente possibile. Con i controllati che si avvicinavano da dietro e dai lati, le moto sbucarono dalla massa come un tappo dal collo di una bottiglia. In un istante si trovarono nello spazio aperto, lanciati a pazza velocità in mezzo a Sedona, cercando di allontanarsi il più possibile dall’orda di controllati. Ora la loro velocità era nettamente superiore a quella dei loro inseguitori, e si poterono dirigere senza ulteriori ostacoli verso i confini della città.
“Penso che ce ne siamo sbarazzati,” disse Lupetto con un sorriso che lasciava intendere quanto fosse felice di essere libero dal controllo degli alieni.
Luna gli sorrise, perché era ugualmente contenta di avercela fatta. Ed era contenta che anche lui fosse stato salvato. Non avrebbe per niente gradito l’idea di Lupetto che restava lì mentre lei e gli altri scappavano. Portò la moto vicino alla sua, pronta a chiamarlo, anche se non aveva un’idea chiara di cosa gli avrebbe detto. Magari che era contenta che lui fosse lì, o forse qualcosa di più.
Qualsiasi cosa stesse per dire, le parole le si bloccarono in gola quando il bagliore di qualcosa in cielo colse la sua attenzione, diventando ogni momento più grande.
“Una navicella!” gridò Luna mentre la vedeva scendere.
La navicella era una di quelle più piccole, ma questa aveva un aspetto in qualche modo più affusolato rispetto alle altre, e sembrava più pericolosa. Se le altre erano api operaie costruite per trasportare cose sulla nave più grande, questa assomigliava più a un calabrone, con i contorni spigolosi e dall’aspetto letale, progettata per uccidere qualsiasi cosa le si mettesse davanti.
“Sta venendo da questa parte!” gridò Luna.
Stava scendendo rapidamente e Luna si trovò a chiedersi da dove fosse saltata fuori. La navicella più grande sopra a Sedona era sparita. Addirittura la navicella madre che c’era prima in cielo ora se n’era andata, svanita tanto rapidamente quanto era arrivata. Questa doveva essere arrivata da una delle altre navicelle che stavano ancora sospese sopra ad altri paesi e città per prendere ciò che potevano. Dalla velocità a cui stava avanzando, probabilmente stava spingendo i suoi motori al massimo della loro potenzialità.