Rimanendo sdraiata, si guardò attorno e fu sorpresa di vedere che stava navigando nel mezzo di un vasto mare, su una zattera di legno, lontano da qualsiasi costa. Grandi e alte onde portavano con grazia la zattera su e giù. Si sentiva come se stesse andando alla deriva verso l’orizzonte, verso un altro mondo, un’altra vita. Verso un luogo di pace. Per la prima volta in vita sua non si preoccupava più del mondo: si sentiva avvolta nell’abbraccio dell’universo, come se finalmente potesse abbassare la guardia e sentirsi al sicuro, protetta da ogni male.
Kyra percepì un’altra presenza sulla barca e mettendosi a sedere fu sorpresa di vedere una donna accanto a lei. La donna indossava abiti che emanavano luce, aveva i capelli lunghi e dorati e dei meravigliosi occhi blu. Era la donna più bella che Kyra avesse mai visto.
Provò un senso di stupore insieme alla certezza che si trattasse di sua madre.
“Kyra, amore mio,” disse la donna.
La donna le sorrise, un sorriso così dolce da farle bene all’anima. Kyra ricambiò lo sguardo e provò un senso di pace ancora più intenso. La voce le risuonava dentro e la faceva sentire in pace con il mondo.
“Madre,” le rispose.
Sua madre tese una mano, quasi trasparente, e Kyra la strinse. La sensazione della sua pelle era elettrizzante e mentre la teneva sentiva che una parte della sua stessa anima veniva rimessa in sesto.
“Ti ho sempre guardata,” le disse la donna. “E sono fiera di te. Più fiera di quanto tu possa immaginare.”
Kyra cercava di concentrarsi, ma sentiva il calore dell’abbraccio di sua madre, si sentiva come se stesse lasciando quel mondo.
“Sto morendo, madre?”
Sua madre la guardò con occhi vividi e la strinse ancora più forte.
“È giunto il tuo momento, Kyra,” le disse. “Eppure il tuo coraggio ha cambiato il tuo destino. Il tuo coraggio, e il mio amore.”
Kyra sbatté le palpebre confusa.
“Non staremo insieme adesso?”
Sua madre le sorrise e Kyra sentì che lentamente la lasciava e se ne andava. Provò un’ondata di panico capendo che sua madre l’avrebbe lasciata e se ne sarebbe andata per sempre. Cercò di tenerla stretta, ma lei si scostò e le mise una mano sullo stomaco. Kyra sentì calore e amore intensi scorrerle dentro, ristorarla. Poco alla volta sentiva che la stava curando.
“Non ti lascerò morire,” le rispose sua madre. “Il mio amore per te è più forte del fato.”
Improvvisamente sua madre scomparve.
Al suo posto si trovava ora un ragazzo dai lunghi capelli lisci che la fissava con lucenti occhi grigi, ipnotizzandola. Kyra sentiva l’amore nel suo sguardo.
“Neppure io ti lascerò morire, Kyra,” ripeté.
Si chinò in avanti, le mise una mano sulla pancia, lo stesso punto dove l’aveva posata sua madre, e lei sentì un calore ancora più intenso scorrerle nel corpo. Vide una piccola luce bianca e percepì il calore che si diramava di lei. Sentiva che stava tornando in vita e faceva fatica a respirare.
“Chi sei?” chiese con voce ridotta a poco più di un sussurro.
Sprofondando nel caldo e nella luce non poté fare a meno di chiudere gli occhi.
Chi sei? Sentì le proprie parole riecheggiare nella mente.
Kyra aprì gli occhi lentamente, sentendo un’intensa ondata di pace e calma. Si guardò attorno aspettandosi di trovarsi ancora nel mezzo dell’oceano, di vedere acqua e cielo.
Udì invece il fremente squittio di insetti. Si voltò confusa e si ritrovò in un bosco. Era stesa in una radura e sentiva un intenso calore allo stomaco, nel punto in cui era stata pugnalata. Vide che c’era una mano appoggiata su quel punto: era una mano bellissima e pallida che le toccava la pancia come nel suo sogno. Kyra aveva la testa leggera e sollevò lo sguardo vedendo quei bellissimi occhi grigi che la fissavano, così intensi che sembravano ardere.
Kyle.
Stava inginocchiato al suo fianco tenendole una mano sulla fronte e mentre la toccava Kyra sentiva che lentamente la sua ferita veniva sanata, si sentiva tornare lentamente al mondo, come se lui desiderasse il suo ritorno in vita. Le aveva veramente fatto visita con sua madre? Era stato tutto reale? Si sentiva come se fosse stata sul punto di morire, e invece adesso in qualche modo il suo destino era cambiato. Era come se sua madre fosse intervenuta. E anche Kyle. Il loro amore l’aveva riportata indietro. E, come sua madre aveva detto, anche il suo coraggio.
Kyra si leccò le labbra, troppo debole per mettersi a sedere. Voleva ringraziare Kyle, ma aveva la gola troppo secca e le parole non venivano fuori.
“Shhh,” le disse lui vedendo che si stava sforzando. Si chinò su di lei e le baciò la fronte.
“Sono morta?” riuscì finalmente a chiedere Kyra.
Dopo un lungo silenzio lui le rispose, con voce dolce ma allo stesso tempo potente.
“Sei tornata,” le disse. “Non ti avrei lasciata andare.”
Era una sensazione strana: guardando i suoi occhi si sentiva come se l’avesse conosciuto da sempre. Gli prese un polso, stringendolo e sentendosi estremamente grata. C’erano così tante cose che avrebbe voluto dirgli. Voleva chiedergli perché avrebbe rischiato la sua vita per lei, perché gli interessasse così tanto di lei, perché si sarebbe sacrificato per portarla indietro. Sentiva che aveva effettivamente fatto un grosso sacrificio per lei, un sacrificio che in qualche modo gli avrebbe nociuto.
Ma più di tutto voleva che lui sapesse ciò che lei stava provando in quel preciso istante.
Ti amo, voleva dirgli.
Ma le parole non venivano fuori. Fu invece sopraffatta da un’ondata di stanchezza e mentre gli occhi le si chiudevano, non ebbe altra scelta che cedere. Si sentì cadere in un sonno sempre più profondo, il mondo le scorreva accanto e si chiese se stesse per caso morendo di nuovo. Era stata riportata indietro solo per un momento? Era tornata un’ultima volta solo per dire addio a Kyle?
E quando il profondo torpore finalmente la sopraffece, fu quasi certa di udire poche ultime parole prima di cedere del tutto:
Anch’io ti amo.
CAPITOLO CINQUE
Il piccolo drago volava sofferente, ogni battito di ali era uno sforzo indicibile, ormai da ore al di sopra della campagna di Escalon. Si sentiva perso e solo in quel mondo crudele nel quale era nato. Nella mente gli lampeggiavano le immagini del padre morente, steso a terra con gli occhi che si chiudevano, trafitto a morte da tutti quei soldati. Suo padre, che non aveva mai avuto la possibilità di conoscere eccetto che in quel momento di gloriosa battaglia. Suo padre, che era morto salvandolo.
Il piccolo drago sentiva la morte di suo padre come la propria e a ogni battito d’ali si sentiva ardere sempre di più per la colpa. Se non fosse stato per lui, suo padre probabilmente sarebbe stato vivo in quel momento.
Il drago volava, lacerato dal dolore e dal rimorso all’idea che non avrebbe mai avuto la possibilità di conoscere suo padre, di ringraziarlo per il suo generoso atto di valore, per avergli salvato la vita. Una parte di lui stesso non voleva più vivere.
Ma un’altra parte ardeva di rabbia, era disperatamente desiderosa di uccidere tutti quegli umani, di vendicare suo padre e distruggere la terra sotto di sé. Non sapeva dove si trovava, ma percepiva intuitivamente di essere a oceani di distanza dalla sua terra madre. Un qualche istinto lo guidava verso casa, ma non sapeva dove questa fosse.
Il piccolo drago volava senza meta, così perso nel mondo, soffiando fuoco contro le cime degli alberi, contro qualsiasi cosa trovasse. Presto esaurì le fiamme, e subito dopo si trovò a scendere sempre più in basso a ogni battito d’ali. Cercò di risollevarsi e salire, ma scoprì con spavento che non ne aveva più la forza. Cercò di evitare le cime degli alberi, ma le ali non lo potevano più sorreggere e vi andò a sbattere contro, dolendo per tutte le ferite che non si erano ancora rimarginate.
Dolorante rimbalzò e continuò a volare, l’elevazione sempre più precaria man mano che perdeva la forza. Gocciolava sangue che cadeva come gocce di pioggia di sotto. Era debole per la fame, per le ferite, per le migliaia di colpi di lancia che aveva ricevuto. Voleva continuare a volare, trovare un bersaglio di distruzione, ma sentiva che gli si chiudevano gli occhi, ora troppo pesanti per lui. Sentiva che stava a tratti perdendo e riprendendo conoscenza.
Sapeva che stava morendo. Da un lato era una specie di sollievo: si sarebbe riunito a suo padre.
Fu risvegliato dal fruscio delle foglie e dallo scricchiolio di rami mentre andava a sbattere di nuovo contro le cime degli alberi. Quindi finalmente riaprì gli occhi. La vista era offuscata da un mondo totalmente verde. Non più capace di controllarsi si sentì ruzzolare, spezzare rami e provare sempre più dolore a ogni colpo.
Alla fine si fermò bruscamente in cima a un albero, incastrato tra i rami, troppo debole per lottare. Rimase appeso lì, immobile, troppo dolorante per muoversi. Ogni respiro faceva più male del precedente. Era certo che sarebbe morto lassù, in quel groviglio di rami.
Improvvisamente uno dei rami cedette con un forte schiocco e il drago precipitò. Ruotò su se stesso più volte, cadendo da una buona quindicina di metri, fino a che colpì il terreno.
Rimase lì, sentendo tutte le costole come rotte e respirando sangue. Mosse un’ala lentamente, ma non riuscì a fare molto di più.
Mentre sentiva che la forza vitale lo stava abbandonando, lo trovò ingiusto, prematuro. Sapeva di avere un destino, ma non capiva quale fosse. Sembrava essere breve e crudele, venuto al mondo solo per assistere alla morte di suo padre e poi morire lui stesso. Forse era così che andava la vita: crudele e ingiusta.
Sentendo gli occhi che si chiudevano per un’ultima volta, il drago si trovò la mente riempita da un ultimo pensiero: Padre, aspettami. Ci vedremo presto.
CAPITOLO SEI
Alec si trovava sul pontile, aggrappato al parapetto della scivolosa nave nera, intento a guardare il mare come faceva ormai da giorni. Guardava le onde enormi che si alzavano e abbassavano sollevando la loro piccola barca. Guardava la schiuma che si formava sotto lo scafo mentre fendevano l’acqua a una velocità mai provata. La barca si inclinava con le vele gonfie di vento, le folate forti e regolari. Alec studiava la situazione con occhi da artigiano, chiedendosi di cosa fosse fatta quell’imbarcazione: era chiaramente costruita di un insolito materiale viscido, un materiale che non aveva mai visto prima e che aveva permesso loro di mantenere la velocità per tutto il giorno e per tutta la notte, di sgusciare nel buio nel mezzo della flotta pandesiana e di procedere nel Mare dei Dispiaceri e arrivare poi al Mare di Lacrime.
Mentre Alec rifletteva, riportava alla mente quanto quel viaggio fosse stato tormentoso: un viaggio navigando giorno e notte, le vele mai calate, le lunghe nottate in mezzo al mare nero piene di rumori ostili, di cigolii e stridii della barca e delle esotiche creature che lì intorno balzavano e volavano. Più di una volta si era svegliato vedendo un serpente luccicante che cercava di salire a bordo, fermato dal suo compagno di viaggio che lo rispediva in acqua con un calcio.
Ma l’elemento più misterioso di tutti, anche più di qualsiasi esotica forma di vita marina, era Sovos, l’uomo che si trovava al timone della nave. Quell’uomo che aveva tratto Alec fuori dalla forgia, che lo aveva portato su quella barca, che lo stava portando in qualche posto lontano, un uomo che Alec si chiedeva se fosse follia seguire. Fino a quel momento almeno Sovos gli aveva già salvato la vita. Alec ricordava di aver guardato verso la città di Ur mentre si allontanavano in mare, provando dolore, sentendosi inutile mentre vedeva la flotta pandesiana avvicinarsi. Dall’orizzonte aveva visto le palle di cannone volare in aria, aveva udito il lontano rimbombo, aveva visto il crollo dei grandiosi edifici, edifici nei quali lui stesso era stato solo poche ore prima. Aveva cercato di abbandonare la nave, di andare a prestare il suo aiuto, ma in quel momento erano tutti troppo distanti ormai. Aveva insistito perché Sovos si girasse, ma le sue implorazioni erano andate a sbattere contro un muro sordo.
Alec si sentiva straziato all’idea che tutti i suoi amici si trovassero lì, soprattutto Marco e Dierdre. Chiuse gli occhi e cercò, senza successo, si scacciare quei ricordi dalla mente. Gli si stringeva il petto al pensiero di averli traditi e abbandonati tutti.
L’unica cosa che lo spingeva ancora avanti, che lo scuoteva dal suo scoraggiamento, era la sensazione che altrove ci fosse bisogno di lui, come Sovos aveva insistito. Il pensiero di avere un destino sicuro, di poterlo usare per distruggere i Pandesiani da qualche altra parte. Dopotutto, come Sovos aveva detto, essere morto là dietro con il resto della gente non avrebbe aiutato nessuno. Eppure sperava e pregava ancora che Marco e Dierdre fossero sopravvissuti e che un giorno si sarebbero ritrovati.
Curioso di sapere dove stessero andando, Alec aveva tormentato Sovos con domande, ma questi era rimasto testardamente in silenzio, sempre al timone – giorno e notte – dandogli le spalle. Per quanto potesse aver visto non aveva mai dormito né mangiato. Se ne stava semplicemente lì a guardare il mare con i suoi alti stivali in pelle e il cappotto nero, le sete scarlatte avvolte attorno alle spalle, la tunica con la sua curiosa insegna. Con la sua barba corta e castana e i lampeggianti occhi verdi che fissavano le onde come se fossero un tutt’uno con lui, il mistero attorno a quell’uomo si faceva sempre più fitto.
Alec guardava l’insolito Mare di Lacrime, con il suo colore chiaro, e si sentiva sopraffatto dall’urgenza di sapere dove lo stessero portando. Incapace di sopportare oltre il silenzio, si voltò verso Sovos, disperatamente desideroso di avere delle risposte.
“Perché io?” chiese spezzando il silenzio, tentando ancora una volta, determinato questa volta ad avere una risposta. “Perché scegliere me in tutta la città? Perché dovevo essere destinato io a sopravvivere? Avresti potuto salvare cento persone ben più importanti di me.”
Alec aspettava, ma Sovos restava in silenzio, dandogli la schiena, studiando il mare.
Alec decise di tentare per un’altra via.
“Dove stiamo andando?” chiese di nuovo. “E come fa questa nave ad andare così veloce? Di cos’è fatta?”
Alec guardava la schiena dell’uomo. I minuti passavano.
Alla fine l’uomo scosse la testa, sempre con la schiena girata.
“Stai andando dove devi andare, dove è destino che tu vada. Ho scelto te perché è di te che abbiamo bisogno, e di nessun altro.”
Alec era pensieroso e dubbioso.
“Bisogno di me per che cosa?” insistette.
“Per distruggere Pandesia.”
“Perché io?” chiese Alec. “Come posso essere di aiuto?”
“Tutto sarà chiaro quando arriveremo,” rispose Sovos.
“Arriveremo dove?” insistette Alec, frustrato. “I miei amici si trovano ad Escalon. È gente cui voglio bene. Una ragazza.”
“Mi spiace,” sospirò Sovos, “ma non è rimasto nessuno laggiù. Tutti quelli che un tempo conoscevi e amavi non ci sono più.”
Seguì un lungo silenzio e nel mezzo del fischiare del vento Alec pregava che si sbagliasse, anche se dentro di sé sapeva bene che aveva ragione. Come poteva la vita cambiare così repentinamente?
“Però tu sei vivo,” continuò Sovos. “E questo è un dono molto prezioso. Non sprecarlo. Puoi aiutare molti altri, se passerai la prova.”
Alec corrugò la fronte.