L’ascesa dei Draghi - Морган Райс 4 стр.


“L’avete ucciso voi, vero?” chiese uno di essi a Brandon avvicinandosi ed esaminandolo.

La folla si infittì e Brandon e Braxton alla fine si fermarono prendendosi gli apprezzamenti e l’ammirazione di quei grandi uomini, cercando di non dare a vedere quanto affannosamente stavano respirando.

“Sì” esclamò Braxton fieramente.

“Un corno nero,” esclamò un altro guerriero avvicinandosi e facendo scorrere la mano sulla schiena dell’animale. “Non ne vedevo uno da quando ero ragazzo. Anche io una volta ho aiutato ad ucciderne uno, ma ero insieme a un gruppo di uomini e due di loro persero delle dita.”

“Beh, noi non abbiamo perso niente,” disse Braxton con orgoglio. “Solo la punta di una lancia.”

Kyra avvampò mentre gli uomini ridevano, chiaramente impressionati dalla preda, mentre un altro guerriero, il loro capo – Anvin – si faceva avanti e osservava con attenzione da vicino l’animale. Gli uomini lo lasciarono passare cedendogli lo spazio in segno di rispetto.

Il comandante di suo padre, Anvin, era il preferito di Kyra tra gli altri uomini: rispondeva solo a suo padre e comandava su quei grandi guerrieri. Anvin era stato come un secondo padre per lei e lei lo conosceva da sempre. Lui le voleva bene, lo sapeva, e faceva sempre attenzione a lei. Cosa più importante, aveva sempre del tempo per lei e le mostrava le tecniche del combattimento con la spada e le armi quando gli altri non c’erano. Le aveva addirittura permesso di allenarsi con gli altri uomini in più di un’occasione e lei aveva apprezzato ogni singolo momento. Era il più tenace di tutti loro ma era anche quello con il cuore più tenero e per questo lei gli piaceva. Ma se non si rientrava tra i suoi preferiti, c’era da avere paura.

Anvin aveva poca tolleranza per le bugie, era il genere di uomo che doveva sempre giungere all’assoluta verità su ogni cosa. Aveva un occhio scrupoloso e quando si fu avvicinato osservò il cinghiale con attenzione. Kyra lo vide fermarsi a guardare le ferite inferte dalle due frecce. Aveva occhio per i dettagli e se c’era qualcuno che poteva vedere la verità, quello era lui.

Anvin osservò le due ferite, ispezionando le piccole punte di freccia ancora conficcate all’interno, i frammenti di legno dove i suoi fratelli avevano spezzato le frecce. Le avevano rotte vicino all’estremità così che nessuno potesse vedere cosa lo aveva veramente abbattuto. Ma Anvin non era uno qualsiasi.

Kyra guardò Anvin che studiava le ferrite, vide che socchiudeva gli occhi e capì che a primo colpo d’occhio aveva capito la verità. Allungò un braccio, si tolse il guanto e mise le dita nell’occhio del cinghiale tirandone fuori la piccola punta di freccia. La tenne in aria, sanguinante, poi lentamente si voltò verso i due fratelli con sguardo scettico.

“Un punta di lancia, vero?” chiese con tono colmo di disapprovazione.

Un teso silenzio calò sul gruppo mentre Brandon e Braxton apparivano per la prima volta nervosi. Si muovevano sul posto.

Anvin si voltò verso Kyra.

“O una punta di freccia?” aggiunse e Kyra poté quasi vedere gli ingranaggi che gli ruotavano in testa, portandolo alla sua conclusione.

Anvin si avvicinò a Kyra, prese una freccia dalla sua faretra e la portò vicino alla punta di freccia. Erano uguali e tutti potevano constatarlo. Guardò Kyra con orgoglio e lei sentì che tutti gli occhi si puntavano su di lei.

“È stato un tuo tiro, vero?” le chiese. Era un’affermazione più che una domanda.

Lei annuì.

“Sì,” disse con tono inespressivo, adorando Anvin per averla riconosciuta e sentendosi finalmente vendicata.

“Ed è stato il colpo che l’ha abbattuto,” concluse. Era un’osservazione, di nuovo non una domanda, posta con voce forte, definitiva, mentre osservava il cinghiale.

“Non vedo nessun’altra ferita oltre a queste due,” aggiunse facendo scorrere la mano lungo il corpo della bestia e fermandosi vicino all’orecchio. Lo esaminò, poi si voltò verso Brandon e Braxton guardandoli in modo sprezzante. “A meno che non chiamiate ferita questo graffio di lancia qui.”

Sollevò l’orecchio del cinghiale e Brandon e Braxton arrossirono mentre tutti i guerrieri ridevano.

Un altro famoso guerriero si fece avanti: Vidar, grande amico di Anvin, un uomo basso e magro sulla trentina con il viso scarno e una cicatrice sul naso. Con la sua piccola corporatura non sembrava uno del gruppo, ma Kyra lo conosceva bene. Vidar era duro come la roccia, famoso per la sua abilità nel combattimento corpo a corpo. Era uno degli uomini più duri che Kyra avesse mai conosciuto, noto per essere capace di abbattere due uomini grossi il doppio di lui. Troppi uomini, a causa della sua statura minuta, avevano fatto l’errore di provocarlo, per poi imparare la lezione in maniera piuttosto dura. Anche lui aveva preso Kyra sotto la sua ala, sempre protettivo nei suoi confronti.

“Pare che l’abbiano mancato,” concluse Vidar, “e la ragazza li ha salvati. Chi vi ha insegnato a tirare?”

Brandon e Braxton sembravano sempre più nervosi, chiaramente colti con le mani nel sacco e non erano più in grado di dire una sola parola.

“È una cosa grave mentire riguardo a una caccia,” disse Anvin rivolgendosi con tono cupo ai due fratelli. “Sputate il rospo ora. Vostro padre vorrà sentire la verità.”

Brandon e Braxton rimasero lì, spostando i piedi da un posto all’altro, chiaramente a disagio, guardandosi come se fossero dibattuti su cosa dire. Per la prima volta Kyra li vedeva incapaci di parlare.

Proprio quando stavano per aprire bocca, improvvisamente una voce sconosciuta spezzò il silenzio.

“Non importa chi l’ha ucciso,” disse. “Ora è nostro.”

Kyra si voltò insieme a tutti gli altri, sobbalzando per quella voce rude e poco familiare. Sentì una fitta allo stomaco vedendo un gruppo di uomini del Lord, con le loro caratteristiche armature scarlatte, farsi avanti tra la folla mentre i paesani si spostavano da parte. Si avvicinarono al cinghiale guardandolo avidamente e Kyra capì che volevano quella preda trofeo non perché ne avessero bisogno, ma solo come pretesto per umiliare la sua gente, per strappare loro di mano quel motivo di orgoglio. Accanto a lei Leo ringhiò e lei pose una mano rassicurante sul suo collo trattenendolo.

“Nel nome del vostro Lord governatore,” disse uno degli uomini del Lord, un soldato corpulento, con la fronte bassa, le sopracciglia fitte, la pancia prominente e la faccia demarcata da un’espressione stupida, “reclamiamo questo cinghiale. Vi ringrazia anticipatamente per il vostro regalo in questo giorno di festa.”

Fece un cenno ai suoi uomini e questi si fecero avanti come per afferrare il cinghiale.

Ma subito Anvin avanzò, con Vidar al suo fianco, e bloccò loro la strada.

Un silenzio stupito velò la folla: nessuno si opponeva mai agli uomini del Lord, era una tacita regola. Nessuno voleva suscitare l’ira di Pandesia.

“Nessuno ha offerto un regalo, per quanto io possa vedere,” disse con voce d’acciaio, “al vostro Lord governatore.”

La folla si fece più fitta, centinaia di abitanti si riunirono a guardare cosa stesse accadendo, percependo che si poteva scatenare un confronto. Contemporaneamente altri arretrarono, creando spazio attorno ai due uomini, mentre la tensione nell’aria si faceva sempre più intensa.

Kyra sentiva il cuore che le batteva in petto. Inconsciamente strinse il pugno sull’arco, sapendo che l’atmosfera era sempre più pesante. Voleva un combattimento tanto quanto la sua libertà, ma sapeva anche che il suo popolo non poteva permettersi di scatenare l’ira del Lord governatore. Anche se per qualche miracolo avessero sconfitto quei soldati, l’Impero pandesiano era di fronte a loro. Avrebbero potuto raggruppare delle divisioni di uomini grandi come il mare.

Eppure allo stesso tempo Kyra era orgogliosa che Anvin si opponesse a loro. Alla fine qualcuno lo faceva.

Il soldato lanciò un occhiataccia ad Anvin.

“Osi sfidare il tuo Lord governatore?” gli chiese.

Anvin rimase fermo.

“Quel cinghiale è nostro, nessuno te lo sta dando,” rispose.

Era vostro,” lo corresse il soldato, “e ora appartiene a noi.” Si voltò verso i suoi uomini. “Prendete il cinghiale,” ordinò.

Gli uomini del Lord si avvicinarono e subito una decina di uomini del padre di Kyra avanzarono in difesa di Anvin e Vidar, bloccando la strada agli uomini del Lord con le mani pronte alle armi.

La tensione si fece così intensa che Kyra strinse l’arco fino a che le nocche le divennero bianche e mentre stava lì si sentiva malissimo, come se in qualche modo fosse lei la responsabile di tutto questo, dato che era stata lei ad uccidere il cinghiale. Sentiva che stava per accadere qualcosa di molto brutto e maledisse i suoi fratelli per aver portato quel cattivo presagio nel loro villaggio, soprattutto nella Luna d’Inverno. Accadevano sempre cose strane in quella festa, un momento mistico nel quale si diceva che i morti fossero capaci di passare da un mondo all’altro. Perché i suoi fratelli avevano dovuto provocare gli spiriti a quel modo?

Mentre gli uomini erano gli uni di fronte agli altri e quelli di suo padre si accingevano a sguainare le spade, tutti così vicini a uno spargimento di sangue, una voce autoritaria improvvisamente squarciò l’aria, tuonando nel silenzio.

“La preda è della ragazza!” disse.

Era una voce forte, piena di sicurezza, una voce che richiedeva attenzione, una voce che Kyra ammirava e rispettava più di qualunque altra al mondo: la voce di suo padre. Il comandante Duncan.

Tutti gli occhi si voltarono mentre suo padre si avvicinava e la folla si divise lasciandogli un ampio passaggio. Lui stava lì, una montagna d’uomo, due volte più alto degli altri, con spalle molto più ampie, una barba castana e incolta, lunghi capelli striati di grigio, con una pelliccia sulle spalle e due lunghe spade alla cintura, oltre a una lancia dietro alla schiena. La sua armatura, quella nera di Volis, aveva un drago intagliato sul petto, il simbolo della loro casata. Le sue armi erano graffiate e ammaccate dopo moltissime battaglie e da lui traspariva tutta la sua esperienza. Era un uomo da temere, un uomo da ammirare, un uomo che tutti conoscevano come giusto e onesto. Un uomo amato e soprattutto rispettato.

“È la preda di Kyra,” ripeté, guardando con disapprovazione i due figli e poi voltandosi a guardare Kyra, ignorando gli uomini del Lord. “Sta a lei decidere il suo destino.”

Kyra era scioccata dalle parole di suo padre. Non se lo sarebbe mai aspettato, non avrebbe mai creduto che lui le mettesse tra le mani una tale responsabilità, che le lasciasse una decisione così difficile. Perché non si trattava solo di decidere del cinghiale, ma del destino del proprio popolo.

I soldati si allinearono da entrambe le parti, tutti con le mani alle spade, e mentre lei guardava tutti i volti che si giravano verso di lei, tutti in attesa della sua risposta, capì che la prossima decisione, le sue prossime parole, sarebbero state le più importanti che avesse mai pronunciato.

CAPITOLO QUATTRO

Merk percorreva lentamente il sentiero nella foresta facendosi strada verso Boscobianco e riflettendo sulla sua vita. I suoi quarant’anni erano stati difficili: non si era mai preso prima d’ora il tempo di camminare attraverso un bosco e di ammirare la bellezza che aveva attorno. Guardava le foglie bianche che scricchiolavano sotto i piedi, ascoltava il rumore del suo bastone che picchiettava il soffice suolo della foresta. Sollevò lo sguardo e ammirò la bellezza degli alberi di Esopo, con le loro foglie bianche e luccicati e rami rossi che brillavano alla luce del sole. Le foglie cadevano piovendogli attorno come neve e per la prima volta nella sua vita provò un reale senso di pace.

Di altezza e corporatura media, con capelli neri e la barba sempre incolta, la mascella larga, gli zigomi lunghi e marcati e grandi occhi neri segnati dalle occhiaie, Merk aveva sempre l’aspetto di uno che non dormiva da giorni. Ed era anche sempre così che si sentiva. A parte adesso. Finalmente adesso si sentiva riposato. Qui a Ur, nell’angolo nord-occidentale di Escalon non c’era neve. Le brezze temperate che venivano dall’oceano, ad appena un giorno di viaggio verso occidente, assicuravano un tempo più mite e permettevano alle foglie di ogni colore di rigogliare. Permettevano anche a Merk di stare lì con solo un mantello addosso, senza bisogno di trovare riparo dai venti gelidi, come per la maggiore si faceva ad Escalon. Si stava già abituando all’idea di indossare un mantello invece di un’armatura, di portare un bastone invece di una spada, di picchiettare le foglie con il suo bastone invece di infilzare avversari con un pugnale. Era tutto nuovo per lui. Stava cercando di vedere come si stava nei panni di quella nuova persona che ora desiderava essere. Era una sensazione di pace, ma strana. Come se stesse fingendo di essere qualcuno che non era.

Perché Merk non era in viaggiatore e neppure un uomo pacifico. Nel suo sangue era ancora un guerriero. E non un guerriero qualsiasi: lui era un uomo che combatteva secondo le sue regole e che non aveva mai perso una battaglia. Era un uomo che non aveva paura di portare le sue battaglie dalla corsia dei tornei fino ai vicoli delle taverne che amava frequentare. Era ciò che molti amavano chiamare un mercenario. Un assassino. Una spada in affitto. Aveva molti nomi, alcuni anche meno adulatori, ma a Merk non importavano le etichette, né cosa la gente pensasse. Tutto ciò che gli importava era che lui era uno dei migliori.

Merk, per assecondare il proprio ruolo, era passato lui stesso da un nome all’altro cambiandoli a suo piacimento. Non gli piaceva il nome che suo padre gli aveva dato – del resto non gli piaceva neppure suo padre – e non aveva intenzione di trascorrere la sua vita con il nome affibbiatogli da qualcun altro. Merk era il nome più frequente da lui utilizzato e gli piaceva, per adesso. Non gli interessava come lo chiamassero gli altri. Solo due cose gli importavano nella vita: trovare il punto giusto per la punta del suo pugnale e che chi lo assoldava lo pagasse con oro fresco, e con tanto anche.

Merk aveva scoperto da giovane di avere un dono naturale, di essere superiore agli altri in ciò che faceva. I suoi fratelli, come suo padre e tutti i suoi famosi antenati, erano fieri e nobili cavalieri, indossavano le migliori armature, maneggiavano le migliori armi, incedendo baldanzosamente a cavallo e facendo sventolare i loro stendardi insieme ai loro capelli fluenti: vincevano le competizioni mentre le dame gettavano fiori ai loro piedi. Non avrebbero potuto essere più orgogliosi di se stessi.

Ma Merk odiava lo sfarzo e le luci della ribalta. Quei cavalieri erano sembrati tutti impacciati nell’uccidere, ampiamente inefficienti, e Merk non li rispettava. E neppure aveva bisogno del riconoscimento, di insegne e stendardi o della copertura d’armi che i cavalieri desideravano così ardentemente. Quella era roba per gente cui mancava ciò che contava di più: la capacità di prendere la vita di un uomo, velocemente e in silenzio, con efficacia. Nella sua mente non c’era nient’altro di cui valesse la pena di parlare.

Quando era giovane e i suoi amici, troppo piccoli per difendersi, erano stati presi di mira, erano andati da lui – che già era noto per essere eccezionale con la spada – e lo avevano pagato perché li difendesse. I loro persecutori non li avevano più tormentati e Merk aveva fatto quel passo in avanti. La voce della sua abilità si era diffusa velocemente e mentre lui accettava sempre più pagamenti le sue doti nell’uccidere si affinavano.

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