Un Cielo Di Incantesimi - Морган Райс 6 стр.


Thor si accigliò.

“Io non mi arrendo a nessuno! Meno che meno a te!”

Thor si sforzò di pensare a Gwendolyn, a ciò che Andronico le aveva fatto, e la sua rabbia si intensificò. Ora era il momento. Thor era determinato a finire Andronico una volta per tutte e spedire quell’orribile creatura all’inferno.

Thor si lanciò all’attacco con un ultimo sprazzo di energia, dando tutto se stesso e lanciando un fortissimo grido.

Abbassò la spada a destra e a sinistra, roteandola così velocemente da riuscire a malapena a contenerla mentre Andronico parava ogni colpo anche se costretto ad indietreggiare un passo alla volta. Il combattimento proseguì a lungo e Andronico sembrava sorpreso che suo figlio potesse fare mostra di una tale e così duratura forza.

Thor trovò un’opportunità quando, per un momento, le braccia di Andronico si fecero più stanche. Thor fece roteare la spada contro la sommità della sua ascia e riuscì a disarmarlo levandogliela dalle mani. Andronico la vide volare in aria, scioccato, e Thor gli diede un calcio al petto mandandolo a terra, steso sulla propria schiena.

Prima che potesse rialzarsi, Thor gli si avvicinò e gli mise un piede sulla gola. Lo aveva immobilizzato e ora era sopra di lui a guardarlo dall’alto in basso.

Tutti nel campo di battaglia erano intenti a guardare mentre Thor lo sovrastava a quel modo, tenendo la punta della spada puntata contro la gola di suo padre.

Andronico, con il sangue che gli scendeva in un rivolo dalla bocca, sorrise tra le zanne.

“Non puoi farlo, figlio,” disse. “Questa è la tua grande debolezza. Il tuo amore per me. Proprio come la mia debolezza per te. Non potrei mai arrivare al punto di ucciderti. Non ora e non per il resto della tua vita. Questa lotta è inutile. Mi lascerai andare. Perché io e te siamo uno.”

Thor stava su di lui, le mani gli tremavano mentre teneva la spada puntata alla sua gola. Lentamente la sollevò. Una parte di lui sentiva che le parole di suo padre erano vere. Come poteva arrivare ad uccidere suo padre?

Ma mentre lo guardava ripensò a tutto il dolore, a tutti i danni che suo padre aveva inflitto a coloro che gli stavano attorno. Ripensò al prezzo che avrebbero pagato se l’avesse lasciato vivere. Il prezzo della compassione. Era un prezzo troppo grosso da pagare, non solo per Thorgrin, ma per tutti quelli che amava e a cui voleva bene. Thor si guardò alle spalle e vide le decine di migliaia di soldati dell’Impero che avevano invaso la sua terra, ora pronti lì ad attaccare il suo popolo. E quell’uomo era il loro capo. Thor lo doveva alla sua patria. A Gwendolyn. E soprattutto a se stesso. Quell’uomo poteva anche essere suo padre di sangue, ma quello era tutto. Non era suo padre in nessun altro senso della parola. E il sangue da solo non faceva un padre.

Thor sollevò la spada in aria e con un forte gridò la calò giù.

Chiuse gli occhi e quando li riaprì la vide conficcata nel terreno, proprio accanto alla testa di Andronico. La lasciò lì e fece un passo indietro.

Suo padre aveva ragione: era stato incapace di farlo. Nonostante tutto non era in grado di uccidere un uomo indifeso.

Voltò la schiena a suo padre e si portò di fronte al suo popolo, a Gwendolyn. Era chiaro che aveva vinto la battaglia, aveva avuto il suo punto. Ora Andronico, se aveva un onore, non avrebbe avuto altra scelta che tornare a casa.

“THORGRIN!” gridò Gwendolyn.

Thor si voltò e vide con shock l’ascia di Andronico che roteava verso di lui, diretta proprio contro al sua testa. Si abbassò all’ultimo secondo e l’ascia volò oltre.

Andronico fu comunque veloce e con lo stesso movimento fece roteare una mano e diede a Thor un manrovescio con il guanto, colpendolo alla mandibola e mandandolo a terra su mani e ginocchia.

Thor sentì un orrendo scricchiolio alle costole quando lo stivale di Andronico lo colpì allo stomaco, facendolo rotolare e annaspare.

Thor rimase a terra, respirando affannosamente, con il sangue che gli gocciolava dalla bocca e le costole che gli facevano un male terribile mentre cercava di raccogliere le ultime forze per rialzarsi in piedi. Con la coda dell’occhio vide che Andronico si avvicinava, sorridendo e sollevando l’ascia con entrambe le mani. Thor vide che mirava a tagliargli la testa. Vide nei suoi occhi iniettati di sangue che Andronico non avrebbe avuto pietà, non quella che gli aveva mostrato Thor.

“Questo è quello che avrei dovuto fare anni fa,” disse Andronico.

Andronico gridò e calò l’ascia contro il collo esposto di Thor.

Ma Thor non aveva smesso di combattere: riuscì in un’ultima esplosione di energia, nonostante il dolore, a balzare in piedi e ad attaccare suo padre, prendendolo attorno alle costole e facendolo cadere steso a terra.

Thor si trovava ora sopra di lui e lottava per tenerlo al suolo, pronto a combattere a mani nude. Era diventato un incontro corpo a corpo. Andronico gli prese la gola e Thor si sorprese per la sua forza: sentiva che l’aria gradualmente gli veniva a mancare mentre suo padre lo strozzava.

Thor portò la mano alla cintura alla disperata ricerca del suo pugnale. Il pugnale reale, quello che re MacGil gli aveva dato prima di morire. Gli mancava l’aria sempre di più e sapeva che se non avesse agito in fretta sarebbe morto.

Lo trovò, lo sollevò in aria e lo affondò con entrambe le mani nel petto di Andronico.

Andronico inarcò il busto di scatto, cercando di respirare, gli occhi velati in uno sguardo di morte, ma nonostante tutto continuò a stringere il collo di suo figlio.

Thor, ormai senza fiato, stava iniziando a vedere le stelle e cominciava a perdere le forze.

Alla fine, lentamente, Andronico lasciò la presa e le braccia gli caddero di lato. Gli occhi ruotarono e smise di muoversi.

Rimase a terra immobile. Morto.

Thor fece un profondo respirò togliendosi la mano floscia di suo padre dalla gola, sollevandosi e tossendo.

Tutto il suo corpo era scosso. Aveva appena ucciso suo padre. Non avrebbe mai pensato che fosse possibile.

Si guardò attorno e vide che tutti i guerrieri, entrambi gli eserciti, lo stavano fissando scioccati. Sentì un tremendo calore scorrergli nel corpo, come se un profondo cambiamento avesse appena avuto luogo dentro di sé, come se avesse appena spazzato via una qualche parte malvagia di se stesso. Si sentiva cambiato, più leggero.

Udì un forte rumore provenire dal cielo, come un tuono, e sollevando lo sguardo vide una piccola nuvola nera apparire al di sopra del cadavere di Andronico, come un gruppo di piccole ombre nere, demoni che si calavano a terra. Rotearono attorno a suo padre avvolgendolo, ululando e raccogliendo il suo corpo, sollevandolo in aria, in alto fino a farlo scomparire tra le nuvole. Thor guardò scioccato e si chiese dove diavolo stessero trascinando la sua anima.

Sollevò lo sguardo e vide l’esercito dell’Impero di fronte a sé, decine di migliaia di uomini con la vendetta negli occhi. Il grande Andronico era morto. Ma i suoi uomini erano ancora lì. Thor e gli uomini dell’Anello erano ancora in minoranza, uno contro cento. Avevano vinto una battaglia, ma stavano per perdere la guerra.

Erec, Kendrick, Srog e Bronson si avvicinarono a Thor, sguainarono le spade, pronti ad affrontare l’Impero insieme a lui. I corni suonarono lungo le linee nemiche e Thor si preparò ad affrontare l’ultima battaglia. Sapeva che non potevano vincerla. Ma almeno sarebbero tutti morti insieme, in un grande scontro di gloria.

CAPITOLO SETTE

Reece marciava accanto a Selese, Illepra, Elden, Indra, O’Connor, Conven, Krog e Serna, tutti e nove diretti verso est ormai da ore, fin da quando erano emersi dal Canyon. Reece sapeva che da qualche parte all’orizzonte si trovava la sua gente, viva o morta, ed era determinato a trovarli.

Era rimasto scioccato attraversando un paesaggio di distruzione, campi sterminati di cadaveri, pieni di uccelli spazzini, tutto bruciato dal fuoco dei draghi. Migliaia di cadaveri dell’Impero erano disseminati all’orizzonte, alcuni ancora fumanti. Il fumo si levava dai loro corpi e riempiva l’aria insieme all’insopportabile puzzo di carne bruciata che caratterizzava ormai una terra distrutta. Chiunque non fosse stato ucciso dalla fiammata del drago era stato macellato in battaglia contro i soldati dell’Impero, dei MacGil e dei McCloud. I cadaveri di ogni fazione giacevano a terra, intere città erano state distrutte e c’erano cumuli di macerie ovunque. Reece scosse la testa: quella terra che un tempo era stata così florida ora era stata devastata dalla guerra.

Da quando erano risaliti dal Canyon Reece e gli altri erano determinati a raggiungere casa, a tornare nella parte di Anello appartenente ai MacGil. Non riuscendo a trovare cavalli, avevano marciato fino alla parte dei McCloud, risalendo l’Altopiano e scendendo dall’altro versante. Ora, finalmente, si trovavano in territorio MacGil, e passavano tra nient’altro che rovine e devastazione. Dall’aspetto della terra, i draghi avevano dato una mano a distruggere le truppe dell’Impero e per questo Reece era loro grato. Ma non aveva ancora idea di quale fosse lo stato nel quale avrebbe ritrovato la sua gente. Erano morti tutti nell’Anello? Fino a quel punto pareva di sì. Reece moriva dalla voglia di scoprire se c’era qualcuno che stesse bene.

Ogni volta che raggiungevano un campo di battaglia pieno di morti e feriti – quelli che non erano stati uccisi dalle fiamme del drago – Selese ed Illepra andavano di cadavere in cadavere e li rigiravano controllando la loro identità. Non erano guidate solo dalla loro professione, bensì da un altro scopo: Illepra voleva trovare il fratello di Reece. Godfrey. E anche Reece aveva il medesimo obiettivo.

“Non è qui,” disse Illepra un’altra volta, rialzandosi dopo aver rigirato l’ultimo cadavere di quel campo, con il volto segnato dalla delusione.

Reece comprendeva quanto Godfrey contasse per Illepra e ne era toccato. Anche lui sperava che stesse bene e si trovasse tra i vivi, ma vedendo tutte quelle migliaia di cadaveri aveva il terribile presentimento che non fosse così.

Continuarono a marciare percorrendo campi sterminati, serie di colline, e così facendo scorsero un altro campo di battaglia all’orizzonte, disseminato di migliaia di cadaveri. Si diressero lì.

Mentre camminavano Illepra piangeva in silenzio. Selese le posò una mano sul polso.

“È vivo,” la rassicurò. “Non preoccuparti.”

Reece fece un passo avanti e le mise una mano rassicurante sulla spalla, provando compassione per lei.

“Se c’è una cosa che so di mio fratello,” le disse, “è che è un sopravvissuto. Trova sempre una via di scampo. Anche dalla morte. Te lo prometto. La cosa più probabile è che Godfrey sia già in una taverna da qualche parte, a ubriacarsi.”

Illepra rise tra le lacrime e se le asciugò.

“Lo spero,” disse. “Per la prima volta lo spero davvero.”

Continuarono la loro triste marcia attraversando in silenzio quella terra desolata, ognuno perso nei suoi pensieri. Le immagini del Canyon passavano di tanto in tanto a sprazzi nella mente di Reece: non riusciva a sbarazzarsene. Ripensava alla situazione disperata nella quale si erano trovati e provava immensa gratitudine per Selese: se non fosse giunta al momento giusto si sarebbero trovati ancora là sotto, sicuramente tutti morti.

Reece prese la mano di Selese e le sorrise mentre continuavano a camminare. Era commosso dal suo amore e dalla devozione che provava per lui, dalla sua determinazione nell’attraversare tutta al campagna solo per salvarlo. Provava un’incommensurabile ondata d’amore per lei e non vedeva l’ora di poter avere un momento da solo con lei per poterglielo esprimere. Già desiderava passare il resto della sua vita con lei. Provava nei suoi confronti una lealtà mai provata per nessun altro e non appena avessero avuto un po’ di tempo aveva giurato che le avrebbe chiesto di sposarlo. Le avrebbe dato l’anello di sua madre, quello che lei le aveva dato perché lo donasse all’amore della sua vita quando l’avesse trovata.

“Non posso ancora credere che tu abbia attraversato tutto l’Anello solo per me,” le disse.

Lei sorrise.

“Non era così tanta strada,” gli rispose.

“Non così tanta strada?” le chiese. “Hai messo in pericolo la tua vita per attraversare un territorio devastato dalla guerra. Sono in debito con te. Oltre quanto possa dire.”

“Non mi devi nulla. Sono felice che tu sia vivo.”

“Siamo tutti in debito con te,” si intromise Elden. “Ci hai salvati tutti. Saremmo rimasti bloccati là sotto, nelle viscere della terra, per sempre.”

“Parlando di debiti, ce n’è uno di cui devo discutere con te,” disse Krog a Reece avvicinandoglisi zoppicando. Da quando Illepra gli aveva steccato la gamba in cima al Canyon, almeno Krog era stato capace di camminare da solo, sebbene rigidamente.

“Laggiù mi hai salvato, e ben più di una volta,” continuò. “È stato piuttosto sciocco da parte tua, se me lo chiedi. Ma l’hai fatto lo stesso. Comunque non penso di essere in debito con te.”

Reece scosse la testa, preso alla sprovvista dalla rudezza di Krog e dal suo impacciato tentativo di ringraziarlo.

“Non so se stai cercando di insultarmi o se tenti di ringraziarmi,” disse Reece.

“Ho i miei modi,” disse Krog. “Da ora in poi ho intenzione di guardarti le spalle. Non perché tu mi piaccia ma perché mi sento chiamato a farlo.”

Reece scosse la testa, come sempre sbalordito dal comportamento di Krog.

“Non ti preoccupare,” gli disse. “Neanche tu piaci a me.”

Continuarono tutti a camminare, tutti rilassati, felici di essere vivi, di trovarsi in superficie, di essere tornati da quella parte dell’Anello. Tutti eccetto Conven, che camminava in silenzio, separato dagli altri, chiuso in se stesso fin dalla morte di suo fratello nell’Impero. Niente, neppure la fuga dalla morte, sembrava poterlo scuotere.

Reece ripensò e ricordò come, là sotto, Conven si fosse gettato senza paura incontro al pericolo, una volta dopo l’altra, quasi rischiando di morire per salvare gli altri. Reece non poteva fare a meno di chiedersi se fosse stato spinto più da un desidero di rimanere ucciso che da quello di dare reale aiuto ai compagni. Era preoccupato per lui. Non gli piaceva vederlo così alienato, così perduto e depresso.

Reece gli si avvicinò.

“Hai combattuto brillantemente laggiù,” gli disse.

Conven si limitò a scrollare le spalle e a guardare a terra.

Reece si scervellava alla ricerca di qualcosa da dire, mentre camminavano in silenzio.

“Sei contento di essere tornato a casa?” gli chiese. “Di essere libero?”

Conven si voltò e lo guardò con occhi vuoti.

“Non sono a casa. Non sono libero. Mio fratello è morto. E io non ho il diritto di vivere senza di lui.”

Reece sentì un brivido scorrergli lungo la schiena a quelle parole. Chiaramente Conven era ancora sopraffatto dal dolore e lo portava come un riconoscimento d’onore. Conven era più come un morto che camminava, gli occhi vuoti. Lo ricordava com’era un tempo, sempre pieno di gioia. Capiva che il suo lutto era molto profondo e aveva il brutto presentimento che non si sarebbe mai ripreso. Si chiedeva cosa ne sarebbe stato di Conven. Per la prima volta non gli venne alla mente alcun pensiero positivo.

Continuarono a marciare e le ore passarono. Raggiunsero un altro campo di battaglia, ritrovandosi ancora spalla a spalla con i cadaveri. Illepra e Selese si divisero come anche gli altri, andando di corpo in corpo, rigirandoli e cercando tracce di Godfrey.

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