Ora e per sempre - Софи Лав 2 стр.


“Sono i miei soldi che spreco!” urlò Emily al suo riflesso nello specchio buttando tutti i suoi averi in una capiente borsa.

Sapeva di avere l’aria di una pazza, a sfrecciare su e giù così per il bagno gettando bottiglie mezze vuote di shampoo nella borsa, ma non le importava. La sua vita con Ben era stata solo una bugia, e voleva uscirne il più presto possibile.

Poi corse nella camera accanto e afferrò la sua valigia da sotto il letto. La riempì velocemente con tutti i vestiti e le scarpe. Finito di raccogliere le sue cose, portò tutto fuori in strada. Poi, come gesto simbolico finale, tornò nell’appartamento e pose la sua chiave sul tavolino da caffè “sentimentale” di Ben, poi uscì, per non tornare mai più.

Fu solo lì in piedi sul cordolo del marciapiede che Emily prese coscienza di ciò che aveva fatto. Aveva perso il lavoro e la casa nello giro di poche ore. Diventare single era una cosa, ma perdere tutta la sua vita era decisamente un’altra.

Piccoli palpiti di panico cominciarono a percorrerla. Le mani le tremavano mentre tirava fuori il cellulare e componeva il numero di Amy.

“Ehi, che c’è?” chiese Amy.

“Ho fatto una cosa stupida,” rispose Emily.

“Dimmi…” la sollecitò a continuare Amy.

“Ho lasciato il lavoro.”

Sentì Amy sospirare dall’altra parte della cornetta.

“Oh, grazie a Dio,” disse la voce della sua amica. “Pensavo che mi avresti detto di essere tornata con Ben.”

“No, no, tutto il contrario. Ho fatto le valigie e ho lasciato la casa. Sto qui per la strada come una barbona.”

Amy cominciò a ridere. “Mi hai dipinto proprio una bella scena.”

“Non è divertente!” replicò Emily, più spaventata che mai. “Cosa faccio adesso? Ho lasciato il lavoro. Non riuscirò a trovare un appartamento senza un lavoro!”

“Devi ammettere che un po’ divertente lo è,” rispose Amy sogghignando. “Porta tutto qui,” aggiunse con nonchalance. “Lo sai che puoi restare da me finché non sistemi le cose.”

Ma Emily non voleva. Praticamente aveva trascorso anni della sua vita vivendo in casa di qualcun altro, costretta a sentirsi un’ospite nella sua stessa casa, come se Ben le stesse facendo un favore ad averla intorno. Non voleva più vivere così. Aveva bisogno di costruirsi la sua vita, di stare in piedi da sola.

“Apprezzo l’offerta,” disse Emily, “ma devo occuparmi di me stessa per un po’.”

“Lo capisco,” rispose Amy. “E allora che fai? Lasci la città per un po’? Ti schiarisci le idee?”

Le fece venire in mente una cosa. Il padre di Emily aveva una casa nel Maine. Ci avevano trascorso le estati quando lei era piccola, ma era rimasta vuota da quando vent’anni prima era scomparso. Era vecchia, decisamente particolare, ed era stata fantastica a un certo punto, in una specie di modo storico; era più come un contorto Bed and Breakfast di cui suo padre non sapeva che farnese, che una casa.

All’epoca aveva un’aria appena passabile, ed Emily sapeva che non sarebbe stata presa bene adesso, dopo vent’anni di abbandono; e non le avrebbe dato la stessa sensazione di vuoto – non ora che non era più una bambina. Senza pensare che non si era proprio in estate. Era febbraio!

Eppure l’idea di trascorrere qualche giorno seduta sul portico, a guardare l’oceano, in un luogo che era suo (più o meno) all’improvviso le sembrò molto romantica. Lasciare New York per il weekend sarebbe stato un buon modo per chiarirsi le idee e cercare di decidere cosa fare dopo.

“Devo andare,” disse Emily.

“Aspetta,” rispose Amy. “Prima dimmi dove vai!”

Emily fece un respiro profondo.

“Vado nel Maine.”

CAPITOLO TRE

Emily dovette prendere molte metropolitane per raggiungere il parcheggio a lungo termine a Long Island City dove si trovava la sua vecchia, abbandonata e malconcia auto. Erano passati anni da quando l’aveva guidata, perché Ben aveva sempre preso su di sé tutte le responsabilità dell’autista per esibire la sua preziosa Lexus, e mentre Emily attraversava a piedi l’enorme parcheggio pieno di ombre, trascinando la valigia dietro di sé, si chiedeva se fosse ancora in grado di guidare. Era un’altra di quelle cose che si era lasciata scivolare via nel corso della sua relazione.

Già il viaggio per arrivare lì – a quel parcheggio nei sobborghi della città – era sembrato infinito. Mentre si avvicinava alla macchina, mentre i suoi passi riecheggiavano nel parcheggio freddo, si sentiva quasi troppo stanca per andare avanti.

Stava commettendo un errore? si chiese. Sarebbe dovuta tornare indietro?

“Eccola.”

Emily si voltò e vide l’addetto al garage che sorrideva alla sua auto malconcia, sembrava con pietà. Allungò un braccio e le porse le chiavi.

Il pensiero di avere ancora otto ore di viaggio davanti era soverchiante, impossibile. Era già esausta, fisicamente ed emotivamente.

“Ha intenzione di prenderle?” chiese l’uomo alla fine.

Emily sbatté le palpebre, non rendendosi conto di aver avuto la testa da un’altra parte.

Se ne stava lì, in piedi, sapendo che quello era un momento decisivo, per certi versi. Sarebbe crollata, sarebbe tornata di corsa alla sua vecchia vita?

O sarebbe stata abbastanza forte da andare avanti?

Emily alla fine si riscosse dai pensieri inquietanti e si costrinse a essere forte. Almeno per adesso.

Prese le chiavi e si avviò trionfante verso la macchina, cercando di mostrare coraggio e fiducia in se stessa mentre si allontanava, ma segretamente innervosita dall’idea che l’auto non sarebbe neanche partita – e che se anche l’avesse fatto, lei non si sarebbe neanche ricordata come guidare.

Sedette nell’auto fredda, chiuse gli occhi e accese il motore. Se partiva, si disse, era un segno. Se non partiva, poteva tornare indietro.

Odiava ammetterlo con se stessa, ma segretamente sperava che non partisse.

Girò la chiave.

Partì.

*

Fu una bellissima sorpresa e un conforto per Emily vedere che, pure in modo un po’ bizzarro, conosceva ancora le basi della guida. Tutto quello che doveva fare era dare gas e guidare.

Era liberatorio guardare il mondo sfrecciarle accanto, e lentamente si riscosse dal cattivo umore. Accese perfino la radio, ricordandosene.

Con la radio che faceva chiasso, i finestrini giù, Emily stringeva il volante forte tra le mani. Nella mente si vedeva come un’affascinante sirena dei film in bianco e nero degli anni Quaranta, con il vento che le scompigliava la perfetta messa in piega. In realtà, la gelida aria di febbraio le aveva colorato il naso di rosso bacca e le aveva increspato i capelli.

Presto uscì dalla città, e più a nord andava più le strade erano costeggiate da sempreverdi. Si prese il tempo di ammirarne la bellezza mentre le superava. Quanto era stato facile farsi prendere dalla frenesia e dal trambusto della vita di città. Per quanti anni era scivolata in avanti senza fermarsi davvero ad ammirare la bellezza della natura?

Ben presto le strade si allargarono, il numero di corsie aumentò, ed eccola in autostrada. Accelerò, spingendo il suo macinino ad andare più veloce, sentendosi viva e rapita dalla velocità. Tutte quelle persone nelle loro auto che partivano per viaggi da qualche altra parte, e lei, Emily, che alla fine era una di loro. L’eccitazione le batteva dentro mentre faceva correre la macchina in avanti, aumentando la velocità fino a quanto osava.

La fiducia in se stessa si librava a mano a mano che le gomme mangiavano le strade. Quanto superò il confine di stato con il Connecticut, aveva davvero raggiunto l’obiettivo di andarsene. Il lavoro, Ben, si era finalmente liberata di tutto quel bagaglio.

Più a nord andava più faceva freddo, ed Emily alla fine dovette ammettere che era troppo freddo per tenere i finestrini aperti. Li chiuse e si strofinò le mani, desiderando di avere addosso qualcosa di più appropriato per il tempo. Aveva lasciato New York in uno scomodo completo, e in un altro momento di impulsività aveva scagliato la giacca aderente e le scarpe con tacco a spillo fuori dalla finestra. Adesso indossava solo una camicetta e le dita dei piedi nudi sembravano essersi tramutate in blocchi di ghiaccio. L’immagine della star del cinema degli anni Quaranta andò in pezzi quando guardò il suo riflesso sullo specchietto retrovisore. Era un disastro. Ma non le importava. Era libera, e quello era tutto ciò che contava.

Passarono ore, e prima che se ne rendesse conto si era lasciata alle spalle il Connecticut, che era ormai un ricordo passato, solo un luogo che aveva attraversato sulla sua strada verso un futuro migliore. Il paesaggio del Massachusetts era più aperto. Invece del fogliame verde scuro dei sempreverdi, gli alberi ora avevano cambiato le foglie estive e svettavano come scheletri allampanati su ogni lato, rivelando accenni di neve e di ghiaccio sul terreno duro ai loro piedi. Sopra Emily il cielo cominciò a cambiare colore, dall’azzurro al grigio umido, ricordandole che sarebbe stato buio quando avrebbe raggiunto il Maine.

Attraversò Worcester, molte case erano alte, rivestite di pannelli di legno e dipinte di varie tonalità pastello. Emily non poteva fare a meno di pensare alle persone che vivevano lì, di porsi domande sulle loro vite e sulle loro esperienze. Era solo a poche ore da casa ma già tutto le sembrava alieno – tutte le possibilità, tutti i diversi posti dove vivere ed essere e da visitare. Come aveva fatto a trascorrere sette anni vivendo un’unica versione della vita, continuando la vecchia e familiare routine, ripentendo la stessa giornata all’infinito, aspettando, aspettando, aspettando qualcosa di più. Per tutto quel tempo aveva aspettato che Ben crescesse in modo che lei potesse dare inizio al nuovo capitolo della sua vita. Ma per tutto quel tempo, lei stessa aveva avuto il potere di essere la forza motrice della sua storia.

Si trovò ad attraversare un ponte, seguendo la Route 290 che diventava la Route 495. Erano scomparsi gli alberi di cui meravigliarsi, rimpiazzati adesso da rocce scoscese. Lo stomaco si mise a brontolare, ricordandole che l’ora di pranzo era arrivata e passata e che lei non se ne era preoccupata. Pensò di fermarsi a un autogrill ma l’impulso di raggiungere il Maine era troppo grande. Poteva mangiare una volta arrivata là.

Passarono altre ore, e attraversò il confine per il New Hampshire. Il cielo si aprì, le strade erano ampie e numerose, le pianure si distendevano su ogni lato fin dove poteva vedere. Emily non riusciva a fare a meno di pensare solo a quanto grande fosse il mondo, a quante persone contenesse in realtà.

L’ottimismo la portò fino dopo Portsmouth, dove gli aeroplani scendevano in picchiata oltre la sua testa, con i motori che rombavano mentre si avvicinavano alla pista di atterraggio. Accelerò, superò il paese successivo dove le gelate coprivano le banchine su ogni lato dell’autostrada, poi avanti attraverso Portland, dove la strada correva a lato della ferrovia. Emily colse ogni dettaglio, sbalordita dalla grandezza del mondo.

Corse lungo il ponte che portava fuori Portland, desiderando disperatamente di fermare la macchina e godere della vista dell’oceano. Ma il cielo si stava facendo scuro e sapeva di doversi muovere se voleva raggiungere Sunset Harbor prima della mezzanotte. Erano almeno altre tre ore di viaggio da lì, e l’orologio sul cruscotto segnava già le 21. Lo stomaco protestò di nuovo, rimproverandola per aver saltato la cena, oltre che il pranzo.

Tra tutte le cose che non vedeva l’ora di fare una volta arrivata alla casa, la prima era dormire per tutta la notte. La stanchezza cominciava a farsi sentire; il divano di Amy non era stato particolarmente comodo, per non parlare del subbuglio emotivo che l’aveva tormentata tutta la notte. Ma ad aspettare Emily nella casa di Sunset Harbor c’era il bellissimo letto a baldacchino di quercia scura che si trovava nella camera matrimoniale, quello che i suoi genitori avevano condiviso in tempi più felici. Il pensiero di averlo tutto per sé la spronava ad andare avanti.

Sebbene il cielo minacciasse neve, Emily decise di uscire dall’autostrada fino a Sunset Harbor. Suo padre adorava guidare lungo la strada meno frequentata – una serie di ponti che scavalcavano la miriade di fiumi che scorrevano fin nell’oceano in quella parte del Maine.

Lasciò l’autostrada, sollevata almeno di rallentare. Le strade sembravano più pericolose, ma il panorama era stupendo. Emily fissava le stelle che occhieggiavano sull’acqua chiara e scintillante.

Restò sulla Route 1 lungo la costa, aprendo la mente alla bellezza che le offriva. Il cielo passò dal grigio al nero, e l’acqua ne rifletteva l’immagine. Le sembrava di guidare attraverso lo spazio, puntando all’infinito.

Puntando all’inizio del resto della sua vita.

*

Sfinita dal viaggio lunghissimo, sforzandosi di tenere gli occhi infiammati aperti, si riprese quando i fanali illuminarono finalmente un cartello che le diceva che stava entrando a Sunset Harbor. Il cuore le batté più veloce di sollievo e dalla trepidazione.

Oltrepassò il piccolo aeroporto e guidò sul ponte che l’avrebbe condotta a Mount Desert Island, ricordando, con una stretta di nostalgia, di quando si trovava nella macchina di famiglia mentre attraversava questo stesso ponte. Sapeva che si trovava solo a dieci miglia dalla casa, che le ci sarebbero voluti non più di venti minuti per raggiungere la destinazione. Il cuore si mise a martellare dall’agitazione. La stanchezza e la fame sembrarono sparire.

Vide il piccolo cartello di legno che le dava il benvenuto a Sunset Harbor e sorrise a se stessa. Alti alberi costeggiavano entrambi i lati della carreggiata, ed Emily si sentì confortata dal sapere che erano gli stessi che guardava da bambina quando suo padre guidava lungo questa stessa strada.

Pochi minuti dopo attraversò un ponte su cui ricordava di aver passeggiato da bambina in una bellissima sera d’autunno, con le foglie rosse che scricchiolavano sotto le scarpe. L’immagine era così vivida che riusciva anche a vedere le muffole di lana viola che indossava mentre si teneva per mano con suo padre. Non doveva aver avuto più di cinque anni all’epoca, ma il ricordo la colpì tanto chiaramente che sembrava essere stato ieri.

Le vennero in mente altri ricordi a mano a mano che vedeva altre cose – il ristorante che serviva pancake fantastici, il campeggio pieno di scout per tutta l’estate, la stradina a una corsia che portava a Salisbury Cove. Quando raggiunse il cartello per l’Acadia National Park sorrise, sapendo che era a sole due miglia dalla sua destinazione. Sembrava che avrebbe raggiunto la casa al momento opportuno; la neve stava cominciando a cadere adesso e il suo macinino probabilmente non sarebbe resistito a una bufera.

Ed ecco che la macchina si mise a fare uno strano rumore stridulo da sotto al cofano. Emily si morse il labbro dall’ansia. Ben era sempre stato quello pratico dei due, il riparatore della relazione. Le capacità meccaniche di Emily erano miserevoli. Pregò che la macchina reggesse per l’ultimo miglio.

Ma lo stridio peggiorava, e presto fu accompagnato da uno strano ronzio, poi da un click irritante, e alla fine da un rantolo. Emily chiuse forte i pugni attorno al volante e lanciò un’imprecazione sottovoce. La neve cominciò a cadere più veloce e più fitta, e la macchina si mise a lamentarsi anche di più, prima di crepitare e alla fine morire.

Ascoltando il sibilo del motore a terra, Emily sedeva lì impotente, cercando di capire cosa fare. L’orologio le disse che era mezzanotte. Non c’erano altre auto, nessuno fuori a quell’ora di notte. C’era un silenzio di morte e, senza la luce dei fanali, un buio spettacolare; non c’erano lampioni lungo quella strada e le nuvole coprivano le stelle e la luna. Era inquietante, ed Emily pensava che fosse l’ambientazione ideale per un film horror.

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