Operazione Presidente - Джек Марс 2 стр.


“Devi guardare, bello,” disse piano Ed. “È il tuo lavoro, guardare.”

Luke scosse il capo. “No.”

Ma non c’era scelta. Buttò un’occhiata al corpo sotto di lui. La barba nera dello jihadista era sparita. Il volto aspro era stato sostituito dai bei lineamenti di una donna. I capelli ricci e neri adesso erano lunghi e morbidi e castano chiaro.

Luke stava coprendo la bocca di una donna con le mani. I suoi occhi azzurri e morti lo fissavano, ciechi – gli occhi di sua moglie Becca.

Ed adesso sussurrava. “Sei stato tu, bello. L’hai uccisa.”

Luke si svegliò d’improvviso.

Si mise seduto di scatto nella profonda oscurità, il cuore che gli martellava in petto. Era nudo, e aveva il corpo ricoperto di sudore. I capelli erano un lungo groviglio arruffato. La barba bionda era folta quanto quella di un qualsiasi guerriero santo islamico. Con quei capelli e quella barba, e la pelle segnata, poteva tranquillamente passare per un senzatetto.

Era avvolto in un sacco a pelo a mummia – tarato per il freddo estremo, venti gradi sottozero. Fuori dalla piccola tenda, fischiava il vento – la falda della tenda sbatteva rabbiosamente, un rumore così forte che riusciva a malapena a sentire il vento. Era a quasi cinquemila metri sul versante occidentale del Denali, e la montagna era già in pieno inverno. Due giorni prima era scoppiata una tempesta di neve, e il vento non aveva smesso di soffiare.

Non accendeva un fuoco da quando era arrivata la tempesta. In quaranta ore, non aveva lasciato la tenda tranne che per urinare. Era a milleduecento metri dalla sommità, e sembrava che non ci sarebbe arrivato. Alcuni avrebbero detto che non sarebbe arrivato da nessuna parte.

Era salito lassù impreparato in modo deplorevole – se ne era accorto adesso. Aveva portato abbastanza acqua per quattro giorni – era finita due giorni prima. Mangiava neve e ghiaccio per idratarsi, a quel punto. Andava bene così. Il peggio era il cibo. Si era portato un po’ di pasti pronti secchi. Adesso erano per la maggior parte andati. Quando era arrivata la tempesta, aveva cominciato a razionarli. Mangiava meno della metà delle calorie di cui aveva bisogno – per fortuna in due giorni si era appena mosso, e stava conservando le energie.

Non si era preoccupato di portare un fornello da campo. Non aveva una radio, quindi non aveva idea di cosa dicesse il bollettino meteorologico. Era arrivato in elicottero con un pilota privato, e non aveva presentato un itinerario all’assistenza del parco. Nessuno aveva la più pallida idea che lui fosse lì tranne il pilota, e gli aveva detto che l’avrebbe chiamato una volta finito.

“Sto cercando di uccidermi?” disse a voce alta. Rimase sconvolto dal suono della sua voce.

Conosceva la risposta. No. Non necessariamente. Se così fosse stato, ok, ma non stava cercando attivamente di morire. Si potrebbe dire che stava sfidando la sorte, accollandosi rischi assurdi, e che lo stava facendo dalla morte di Becca.

Lui voleva vivere. Voleva solo essere più bravo, a vivere. Se non ci riusciva…

Come marito era stato un fallimento. Come padre era un fallimento. La sua carriera era finita a quarantun anni – era uscito dal lavoro governativo due anni prima e non aveva cercato nient’altro. Non controllava i conti in banca da un po’, ma era ragionevole presumere che avesse quasi finito i soldi. Praticamente l’unica cosa in cui era bravo era sopravvivere in ambienti rigidi e impietosi. E uccidere – era bravo anche in questo. Per il resto era stato un totale e miserabile fallimento.

Poteva morire su quella montagna, ma la prospettiva non gli portava terrore.

Era spento, vuoto… intorpidito.

“Devi cominciare a pensare a come andartene di qui,” disse, ma erano solo chiacchiere – poteva andarsene, oppure no. Sarebbe stato un bel posto dove morire, nonché una cosa semplice da fare. Tutto ciò che doveva fare era… nulla. Alla fine – presto – avrebbe finito il cibo. Bere neve sciolta non lo avrebbe sostenuto a lungo. Gradualmente si sarebbe fatto più debole, finché non gli sarebbe stato impossibile scendere dalla montagna da solo. Sarebbe morto di fame. A un certo punto si sarebbe appisolato per non svegliarsi più.

Come fare a decidere? Come fare a decidere?

Di colpo urlò, inconsapevole del gesto finché non emise suono.

“Dammi un segno! Mostrami cosa devo fare!”

Proprio allora il telefono fece una cosa che non faceva da molto tempo – squillò. Il rumore lo fece saltare, e il cuore perse un colpo. La suoneria era il più forte possibile. Il motivetto era una canzone rock che suo figlio Gunner gli aveva messo nel telefono due anni prima. Luke non l’aveva mai cambiata. Anzi, l’aveva proprio tenuta di proposito. Faceva tesoro di quella canzone come dell’ultimo collegamento tra di loro.

Guardò il telefono. Gli ricordò una cosa viva, una vipera velenosa – si doveva fare attenzione nel maneggiarlo. Lo raccolse, guardò il numero e rispose.

“Pronto?”

Il rumore era confuso. Naturalmente la spessa tenda stava bloccando il segnale del satellite. Doveva uscire per rispondere a quella telefonata – un pensiero poco bello.

“Devo richiamare!” urlò nel microfono.

Persino muovendosi rapidamente, ci vollero molti minuti per assemblare lo strato di abiti necessario e vestirsi. Fuori faceva troppo freddo per vestirsi a metà. Tirò giù la zip della tenda, strisciò fuori dalla minuscola entrata e si spinse fuori nelle intemperie. Il vento e il pungente ghiaccio lo colpirono in volto tutto in una volta. Avrebbe fatto meglio a sbrigarsi.

Appese un faretto lampeggiante alla struttura della tenda e incespicando si allontanò dal rumore del tessuto che sbatteva nella neve profonda. Portò con sé una torcia potente, girandosi ogni qualche metro a segnare l’ubicazione del campo. Non c’erano luci là fuori, e la visibilità era di circa venti metri. La neve e il ghiaccio gli vorticavano attorno.

Premette il pulsante per chiamare e portò il telefono all’interno del cappuccio del parka. Rimase in piedi come una statua, in ascolto dei segnali acustici mentre il telefono stringeva la mano al satellite e tentava di avviare la chiamata.

“Stone?” disse una profonda voce maschile.

“Sì.”

“Resti in attesa per parlare con la presidente degli Stati Uniti.”

Fu un’attesa breve.

“Luke?” disse una voce femminile.

“Signora presidente,” urlò Luke. Non poté evitare di sorridere. “Da quanto tempo.”

“Troppo,” disse Susan Hopkins.

“A cosa devo l’onore?”

“Ho dei problemi,” disse lei. “Devi venire.”

Luke ci pensò per un attimo. “Oh, sono lontanissimo da tutto al momento. Sarà un po’ difficile arrivare…”

“Non importa,” disse Susan. “Ovunque tu sia, mando un aereo. O un elicottero. Qualsiasi cosa ti serva.”

“Un grosso e amichevole San Bernardo sarebbe un buon inizio,” disse Luke. “Con uno di quei barilotti di whiskey al collo.”

“Fatto. Ti porta anche un panino, nel caso avessi fame.”

Luke quasi rise. “Fame è un eufemismo. E quando ho finito di mangiare, avrò davvero bisogno di quell’elicottero.”

“Fatto anche questo. Prima che riappendiamo, ti passo qualcuno che possa prendere le tue coordinate e che mandi qualcuno a prenderti. Ci facciamo in quattro, qua. Crediamo nel servizio porta a porta.”

Luke dovette ammettere di sentire un rapido bagliore di sollievo. Pochi momenti prima non vedeva modo di andarsene da quella montagna, nessuna seconda chance per la vita. Adesso ne aveva una. Prima non lo sapeva se voleva morire o vivere – ma adesso lo sapeva con sicurezza. Lo capì dall’accelerazione del sangue quando Susan menzionò un modo per andarsene di lì. Intellettualmente, ancora non lo sapeva, ma visceralmente, il suo corpo glielo diceva.

Voleva vivere.

Nonostante tutto l’inferno che aveva passato, in qualche modo voleva vivere.

“Che succede?” disse Luke.

Susan esitò, e aveva la voce leggermente scossa. Lui lo sentì anche attraverso il vento che gli soffiava attorno. “Ieri ci sono state le elezioni.”

Luke prese in considerazione la cosa. Era disconnesso da tanto tempo che non aveva idea di che giorno fosse. Da qualche parte, lontanissimo, in un altro mondo, la gente faceva ancora campagna elettorale per la carica. Le ruote del governo continuavano a girare. C’erano politiche da discutere e importanti decisioni da prendere. C’era copertura mediatica, e mezzibusti che si urlavano addosso l’uno con l’altro. Era un po’ che non pensava a queste cose. Anzi, si era quasi dimenticato della loro esistenza.

Tra loro passò una lunga pausa.

“Luke,” disse Susan. “Ho perso le elezioni.”

CAPITOLO TRE

8:03 ora della costa orientale

Studio Ovale

Casa Bianca, Washington DC


“Che malefico bastardo,” disse qualcuno nella stanza. “Ha rubato, chiaro e semplice.”

Susan Hopkins era in piedi nel centro dell’ufficio e fissava il grande pannello televisivo piatto sulla parete. Era ancora intorpidita, quasi sotto shock. Anche se osservava con attenzione, aveva problemi a formare dei pensieri chiari. Era troppo da processare.

Era ben consapevole del completo che indossava. Era blu con una camicia elegante bianca. Era un po’ scomodo. Un tempo le era stato bene – anzi, era stato fatto su misura perché le andasse alla perfezione – ma oggi era chiaro che il suo corpo stava cambiando. Adesso l’abito le cadeva male. Le spalline della giacca erano troppo allentate, i pantaloni troppo stretti. Le spalline del reggiseno le pizzicavano la carne della schiena.

Troppi pasti a tarda notte. Troppo poco sonno. Troppa poca ginnastica.

Sospirò pesantemente. Quel lavoro la stava uccidendo.

Ieri, in quello stesso momento, appena aperti i seggi, lei era stata tra le prime persone degli Stati Uniti a votare. Era uscita dalla cabina elettorale con un gran sorriso in volto e un pugno in aria – immagine colta dalle telecamere e dai fotografi, e che era stata virale per tutto il giorno. Aveva cavalcato un’ondata di ottimismo fino al giorno delle elezioni, e gli exit poll della mattina precedente avevano fissato il supporto a lei a più del sessanta per cento di probabili votanti – una possibile vittoria schiacciante in corso.

E adesso questo.

Mentre guardava, il suo avversario, Jefferson Monroe, prese il palco nel suo quartier generale di Wheeling, Virginia Occidentale. Anche se erano le otto del mattino, c’era comunque una folla di supporter e addetti alla campagna. Ovunque le telecamere facessero una panoramica nella folla si vedevano alti cappelli alla Abramo Lincoln rossi, bianchi e blu – in qualche modo erano diventati l’emblema della campagna di Monroe. Quelli, e gli aggressivi cartelli divenuti il grido di guerra della sua campagna: L’AMERICA È NOSTRA!

Nostra? Che voleva dire? E contro chi? A chi altri doveva appartenere?

Sembrava chiaro: le minoranze, i non cristiani, i gay… i soliti. In particolare, era chiaro che si parlava dei cinesi immigrati in America, così come dei cinesi americani. Qualche settimana prima i cinesi avevano minacciato di chiedere il pagamento del debito e potenzialmente causare la bancarotta degli Stati Uniti. Ciò aveva permesso a Monroe di cavalcare un’ondata di paura cinese negli ultimi giorni della sua elezione. Monroe prosperava sulla paura – sulla paura cinese, in particolare. Stando a lui quella gente si comportava come il burattino segreto delle ambizioni imperialistiche del governo di Pechino e degli oligarchi cinesi che stavano acquistando ampi spazi di interessi commerciali e immobiliari americani. Stando a lui, se non ci facevamo duri i cinesi si sarebbero presi l’America.

La gente se l’era bevuta.

Gli arcinemici di Jefferson Monroe, e i nemici dei suoi supporter, erano i cinesi. I cinesi erano la grande nemesi dell’America, e quella testa vuota dell’ex modella alla Casa Bianca non aveva occhi per vederlo, o era una collaboratrice dei cinesi venduta.

Monroe fissò la folla con i suoi incassati occhi di ghiaccio. Aveva settantaquattro anni, i capelli bianchi, un viso rugoso e segnato dal tempo – un viso che sembrava molto più vecchio dei suoi anni. A giudicare dalla sua sola faccia, poteva avere cent’anni, o mille. Però era alto, e stava bello dritto. A detta di tutti dormiva tre o quattro ore a notte, ed era tutto quello che gli serviva.

Indossava una camicia bianca appena inamidata aperta sulla gola, senza cravatta – un altro suo marchio di fabbrica. Era miliardario, o quasi, ma era l’uomo della gente, per Dio! Un uomo venuto dal nulla. Povero in canna, originario delle montagne della Virginia Occidentale. Un uomo che, nonostante il recente benessere, aveva disprezzato i ricchi per tutta la vita. Un uomo che, più di tutto, disprezzava i liberali, soprattutto nordorientali, e in particolare i newyorkesi. Niente pantaloni costosi, abito da politicante di Washington DC e cravatta da conservatore per lui. In qualche modo era riuscito a mettere convenientemente in ombra il fatto di essere lui stesso il sommo politicante di Washington, avendo trascorso ventiquattro anni nel Senato degli Stati Uniti.

Susan pensava che ci fosse un pizzico di verità nei suoi scimmiottamenti. Aveva vissuto dei primi anni poverissimi nell’Appalachia – questo si sapeva. E si era fatto strada fuori di lì con le unghie e con i denti. Ma non era amico dell’uomo comune, né della donna. Per orchestrare la salita, fin dai primi tempi si era sempre allineato con gli elementi più arretrati della società americana. Era stato un teppista di Pinkerton da giovane, attaccava gli scioperi dei minatori di carbone con mazze e manici di mannaie. Aveva passato tutta la sua carriera nel taschino degli interessi dei maggiori produttori di carbone, sempre combattendo per una minore regolamentazione, meno sicurezza sul posto di lavoro, e meno diritti per i lavoratori. Ed era stato premiato meravigliosamente per i suoi sforzi.

“Ve l’avevo detto,” disse nel microfono.

La folla eruttò in esultazioni rauche.

Monroe le fece scemare con un gesto della mano. “Ve l’avevo detto che ci saremmo ripresi l’America.” Le esultazioni ricominciarono. “Io e voi!” urlò Monroe. “Ce l’abbiamo fatta!”

Adesso l’esultanza cambiò, trasformandosi gradualmente in uno slogan, uno slogan che a Susan era fin troppo familiare. Aveva una cadenza strana, quello slogan, come un valzer o una specie di botta e risposta.

“L’AMERICA È NOSTRA! L’AMERICA È NOSTRA! L’AMERICA È NOSTRA!”

Andò avanti all’infinito. Il rumore a Susan fece venire il mal di stomaco. Almeno non avevano cominciato con gli slogan ‘Sbattiamola fuori!’ che per un po’ erano stati popolari. La prima volta che li aveva sentiti era quasi arrivata alle lacrime. Sapeva che molte delle persone coinvolte probabilmente si stavano solo mettendo in mostra. Però almeno alcuni di quei pazzi volevano davvero appenderla, presumibilmente perché era una traditrice in lega con i cinesi. Il pensiero le lasciava dentro un vuoto.

“Basta fabbriche vuote!” urlò Monroe. Adesso fu il suo turno di sollevare in aria un pugno trionfante. “Basta città guidate dal crimine! Basta oscenità umane! Basta tradimenti cinesi!”

“BASTA!” rispose la folla all’unisono, un altro dei loro slogan preferiti. “BASTA! BASTA! BASTA!”

Kurt Kimball, frizzante, attento, grosso e forte come sempre, con una testa assolutamente calva, si mise davanti alla tv e usò il telecomando per togliere il sonoro.

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