Il Nostro Sacro Onore - Джек Марс 6 стр.


Susan scosse la testa. “Questa giornata continua a migliorare.”

Attraversarono le porte doppie ed entrarono nello Studio Ovale.

“Vuole che le organizzi una telefonata con lui?” disse Kat.

Susan scrollò le spalle. “Certo. Ci parlerò. Kurt, puoi farmi stendere da qualcuno i miei appunti? Che cosa dovrei dirgli? Perché non possiamo essere tutti amici? Perché non potete preparare una torta per quelli con i missili?”

“Ma certo,” disse Kurt, e se ne andò in un angolo dell’ufficio, già al telefono.

Kat sparì per la soglia.

Susan si guardò intorno nello Studio Ovale. Davanti a lei tre alte finestre, con le tende tirate, che davano sul giardino delle rose. Fuori c’era una giornata di sole di inizio inverno. C’erano molte persone nella stanza. Luke Stone sedeva su una poltrona dall’alto schienale nel salottino. Sotto ai suoi piedi c’era il sigillo del presidente degli Stati Uniti. Seduto accanto a lui c’era il grosso Haley Lawrence, il segretario della Difesa, che pareva aver preso peso – la mole maggiore in qualche modo aveva un che da grasso infantile, e rendeva un uomo di ben più di un metro e ottanta molto simile a un bambinetto.

C’erano altri due uomini nella stanza, entrambi in piedi. Indossavano uniformi verdi dell’esercito – uomini che Susan immaginava sui cinquantacinque anni, molto in forma, con i capelli a spazzola. Potevano essere gemelli – Pincopanco e Pancopinco.

“Signora presidente,” disse Pincopanco. Le allungò una mano. “Sono il generale Steven Perkins della Defense Intelligence Agency.”

Lei gli fece un cenno col capo mentre la mano le veniva ingoiata da quella di lui in una ferma stretta militare.

“Generale.”

Anche Pancopinco si allungò per farsi stringere la mano. “Signora presidente, sono Mike Sobchak della Naval Intelligence.”

“Ammiraglio.”

Scosse la testa. “Ok, signori, a che punto siamo?” disse Susan. “Che schema avete imbastito insieme all’agente Stone?”

Kurt era in fondo, a mormorare al telefono per tutti gli undici secondi. “Per cortesia, chiuda la porta,” disse a un uomo dei servizi.

“È una missione altamente segreta,” disse Haley Lawrence.

Susan fece spallucce e fece ruotare la mano. “Me lo immaginavo. Quindi ditemi.”

“Mandiamo una piccola squadra in Israele su un aereo del Dipartimento di Stato,” disse Kurt. “Da ieri abbiamo mandato già tre aerei del Dipartimento di Stato, quindi secondo tutti potrebbe fare più o meno lo stesso – diplomatici della crisi in viaggio per cercare di calmare la situazione.”

“Sono sicura che nessuno sospetterà che facciamo entrare delle spie,” disse Susan.

“Arrivata la squadra, avrà ragguagli dall’intelligence israeliana su possibili ubicazioni di siti nucleari iraniani. La squadra si coordinerà con gli israeliani per progettare un’infiltrazione, e poi si farà paracadutare sotto la copertura del buio in Iran. La squadra poi si farà strada, con qualsiasi mezzo disponibile, fino ai siti più probabili, e confermerà o meno l’esistenza di armi nucleari sugli stessi. Se vengono trovate armi, richiederanno attacchi aerei, sulle coordinate specifiche, che distruggeranno le armi nei silos.”

“Attacchi aerei da chi?” disse Susan. “Dagli americani o dagli israeliani?”

“Dagli americani,” disse Pincopanco. “Per definizione, gli attacchi dovranno essere potenti anti-bunker lanciati da alte altitudini. Più probabilmente, bombe MOAB lanciate da bombardieri B-52, e questo se riusciamo a far fuori i bunker tramite armi convenzionali, il che non è garantito. Non crediamo che gli israeliani abbiano capacità del genere.”

“Non crediamo?” disse Susan. “Non dovremmo saperlo?”

“Qui stiamo discutendo con Israele,” disse Pancopinco. “Potrebbero averle, potrebbero non averle. Non sono sempre collaborativi su informazioni come questa. Per ogni eventualità, se gli israeliani si mettono a bombardare silos missilistici iraniani, c’è sempre la possibilità che scoppi la terza guerra mondiale. I russi sono vicini alleati dell’Iran. E i paesi sunniti odiano gli iraniani sciiti. Ma solo quando gli israeliani non li bombardano. Altrimenti sono tutti amici musulmani e l’aggressione israeliana deve essere vendicata. Se bombardiamo noi…”

Fece spallucce. “Penso che possiamo trovare il modo di placare i russi, sulla faccenda. E i paesi sunniti se la metteranno via.”

“Perché gli israeliani non mandano le loro spie in cerca della bomba?” disse Susan.

“Abbiamo parlato con la loro intelligence. Pensano che la missione sia un fallimento sicuro. Preferirebbero bombardare l’Iran indiscriminatamente e distruggere tutte le basi e le infrastrutture militari iraniane, nella speranza di colpire eventuali testate in loro possesso. Noi li stiamo incoraggiando – li stiamo incoraggiando molto strenuamente – ad astenersi da azioni del genere. Ovviamente, il rischio di bombardare l’Iran e lasciare anche un solo missile nucleare operativo è troppo alto da contemplare…”

Susan guardò Luke. “Salve, agente Stone.”

Lui la guardò dritto negli occhi. Era una cosa che lei odiava, la cosa di cui aveva avuto terrore. Voleva fermare il tempo proprio lì e non fargli dire un’altra parola.

“Signora presidente.”

“Ha intenzione di accettare la missione?”

Annuì. “Sì. Certo. È stata una mia idea.”

“A me pare una missione suicida, agente Stone.”

“Ne ho sentite di peggio,” disse Luke. “In ogni caso, è esattamente il tipo di cosa per cui è stato organizzato il nuovo Special Response Team. Ho già parlato con la mia squadra. Possiamo essere pronti a partire in un paio d’ore.”

Tentò una tattica diversa. “Agente Stone, lei è il direttore dello Special Response Team. I miei registri indicano che ha quarantadue anni. La missione non verrebbe gestita meglio da un operativo junior dell’agenzia? Qualcuno di un po’ più giovane, diciamo? Qualcuno di un po’ più energico?”

“Ho in progetto di andare con Ed Newsam,” disse Luke. “Lui ha trentacinque anni. E comunque sono ancora piuttosto energico per un vecchietto.”

“L’agente Stone e l’agente Newsam hanno entrambi un’estesa esperienza operativa nel Medio Oriente,” disse Pincopanco. “Sono entrambi combattenti d’élite veterani, sono stati sotto copertura, e conoscono bene la cultura israeliana, araba e persiana. Se la cavano entrambi benino col farsi.”

Susan lo ignorò. Guardò la stanza. Sembravano fissarla tutti. Volevano parlare del progetto della missione, lo sapeva. Volevano che desse immediatamente il via libera, in modo da raccogliere le risorse di cui avevano bisogno, venirsene fuori con le evenienze in caso di fallimento della missione, sviluppare strategie di negazione plausibile nel caso in cui la cosa fosse diventata di dominio pubblico. Nelle loro menti, non si trattava neanche più di chi stava per partire – la questione era già stata decisa.

“Signori, potete darmi cinque minuti da sola con l’agente Stone?”

* * *

“Luke, sei fuori di testa?”

Gli altri uomini, e tutti i servizi segreti, se n’erano andati.

“Non manderei il mio peggior nemico in questa missione. Dovresti paracadutarti in Iran, e poi vagare per il paese con gente che cerca di assassinarti, finché non trovi delle armi nucleari?”

Sorrise. “Be’, spero che la cosa verrà pensata un pochino meglio di così.”

“Ti farai uccidere.”

Allora lui si alzò, e andò da lei. Cercò di abbracciarla. Lei rimase rigida per un attimo, poi si sciolse nel suo abbraccio.

“Lo sai quant’è ridicolo che la presidente degli Stati Uniti si preoccupi esageratamente per la vita di un agente delle operazioni speciali, che fa esattamente questa roba per tutta la sua vita adulta?”

Lei scosse la testa. “Non mi interessa. È diverso. Non posso autorizzare una missione in cui potresti rimanere ucciso. È follia.”

Abbassò lo sguardo su di lei. “Mi stai dicendo che per stare con te devo mollare il lavoro?”

“No. Sei a capo della tua agenzia. Non devi accettarla. Non devi presentarti come volontario. Manda qualcun altro.”

“Vuoi che mandi qualcun altro anche se pensi che sia una missione suicida?”

Annuì. “Esatto. Manda qualcuno che non amo.”

“Susan, non posso.”

Allora lei si voltò dall’altra parte, e d’un tratto presero a scorrere lacrime di infelicità. “Lo so. Questo lo so. Ma per l’amor di Dio, ti prego di non morirci, laggiù.”

CAPITOLO DIECI

16:45 ora di Israele (9:45 ora della costa orientale)

Covo di Sansone – nelle profondità della terra

Gerusalemme, Israele

“Falli stare zitti.”

Yonatan Stern, il primo ministro di Israele, sedeva sulla sua solita sedia a capotavola nel centro di comando per le crisi israeliano, il mento sulla mano. La stanza era una cavernosa cupola a forma di uovo. Tutt’intorno a lui, il suo esercito e i suoi consiglieri politici si trovavano nel caos, urlavano, recriminavano, si puntavano il dito addosso gli uni con gli altri.

Come si era arrivati a questo? pareva essere la domanda prevalente. E la risposta alla quale era giunta la maggior parte di quelle brillanti menti strategiche era, È colpa di qualcun altro.

“David!” disse fissando il suo capo di gabinetto, un robusto ex commando suo braccio destro dai giorni dell’esercito. David si girò a guardarlo, grossi occhi scuri malevoli, denti che si mordevano l’interno della guancia, come faceva quando era nervoso o distratto. Un tempo quell’uomo avrebbe ucciso nemici a mani nude, eppure in qualche modo pareva scusarsene, nel mentre. Pareva scusarsi anche adesso.

“Per favore,” disse Yonatan. “Riporta all’ordine la stanza.”

David scrollò le spalle. Andò al tavolo da conferenze e mandò a schiantare un pugno gigante sulla sua superficie.

BUM!

Non disse una parola, ma riportò di nuovo giù il pugno.

BUM!

E ancora. E ancora. E ancora. Ogni volta che il pugno atterrava, la stanza si faceva un po’ più silenziosa. Alla fine tutti gli uomini presenti si alzarono per guardare David Cohn, l’organizzatore e gendarme di Yonatan Stern, un uomo che nessuno di loro rispettava intellettualmente, ma anche che nessuno di loro avrebbe mai osato intralciare.

Sollevò il pugno un’ultima volta, ma adesso la stanza era silenziosa. Si fermò a mezz’aria, come un martello. Poi fluttuò lentamente di nuovo sul fianco.

“Grazie, David,” disse Yonatan. Guardò gli altri uomini presenti. “Signori, vorrei cominciare questa riunione. Quindi, per favore, prendete posto e ammaliatemi con il vostro acume.”

Si guardò intorno. C’era Efraim Shavitz, sempre giovanile, dimostrava molto meno dei suoi anni. La gente lo chiamava il Modello. Era il direttore del Mossad. Indossava un costoso completo su misura e delle scarpe italiane di pelle nera lucidissime. Pareva che si stesse recando a un nightclub di Tel Aviv, e non che stesse attualmente supervisionando la distruzione del suo stesso popolo. In una stanza piena di sciatti intellettuali e uomini dell’esercito di un’età, Shavitz il dandy sembrava una specie di uccello esotico.

Yonatan scosse la testa. Shavitz era uno degli uomini del suo predecessore. Yonatan se lo teneva lì perché gli era stato ben raccomandato e sembrava sapere quel che faceva. Fino a oggi.

“Efraim, le tue stime, per cortesia.”

Shavitz annuì. “Certamente.”

Prese un telecomando dalla tasca della giacca e si voltò verso il grande schermo alla fine del tavolo. Istantaneamente apparve il video di un lancio missilistico da una piattaforma mobile verdastra.

“Il Fateh-200 è arrivato in Libano. Sospettavamo che potesse essere il caso…”

“Quando, lo sospettavate?” disse Yonatan.

Shavitz lo guardò. “Prego?”

“Quando sospettavate che Hezbollah avesse ottenuto il sistema d’arma Fateh-200? Quando? Io un rapporto del genere non l’ho mai letto, né qualcuno mi ha mai menzionato l’arrivo di un rapporto del genere. Ne ho sentito parlare per la prima volta quando dei missili a lungo raggio altamente esplosivi hanno cominciato ad abbattersi su edifici residenziali di Tel Aviv.”

Ci fu un lungo silenzio trascinato. Gli altri uomini presenti osservavano, alcuni Yonatan Stern, altri Efraim Shavitz, alcuni la tavola che avevano davanti.

“In ogni caso, ce li hanno,” disse Shavitz.

Yonatan annuì. “Sì, ce li hanno. Ora, a proposito dell’Iran… loro che cos’hanno?”

Shavitz indicò Yonatan. “Non confonda l’acquisizione da parte di Hezbollah di potenti armi convenzionali con la minaccia nucleare iraniana, Yonatan. Non lo faccia. Le abbiamo detto che gli iraniani stavano lavorando su missili nucleari. Conosciamo le ubicazioni sospette. Conosciamo le persone coinvolte. Abbiamo un’idea del numero di testate. Viene avvertito di questi pericoli da anni. Abbiamo perso molti buoni uomini per ottenere queste informazioni. Che lei non abbia agito non è colpa mia, né del Mossad.”

“Ci sono considerazioni politiche,” disse Yonatan.

Shavitz scosse il capo. “Questo non è il mio dipartimento. Ora, crediamo che gli iraniani possano avere almeno quattordici testate, nascoste in tre luoghi, e probabilmente ben sottoterra. Potrebbero non averne per niente. Potrebbe essere una menzogna. Ma non più di quattordici.”

“E se ce le hanno, tutte e quattordici?”

Shavitz scrollò le spalle. Gli era scivolato fuori posto un capello, sulla fronte, molto strano per lui. Avrebbe fatto meglio a pettinarsi prima di presentarsi al nightclub. “E riescono a lanciarle?”

Yonatan annuì. “Sì.”

“Verremo annientati. Semplicissimo.”

“Che opzioni abbiamo?”

“Molte poche,” disse Shavitz. “Tutti i presenti già sanno quali sono. Tutti qui conoscono bene le nostre capacità missilistiche, nucleari e convenzionali, e della nostra forza aerea. Possiamo lanciare un massiccio attacco preventivo, al massimo, contro tutti i siti missilistici noti iraniani e siriani, e contro tutte le basi aeree iraniane. Se agiamo con impegno totale, e con tutte le nostre forze in perfetto accordo, possiamo distruggere totalmente le capacità militari iraniane e siriane, e riportare la società civile iraniana ai secoli bui. Chi tra i presenti possiede qualche nozione politica, non ha bisogno che gli dica quale sarebbe il contraccolpo mondiale.”

“E un attacco minore?”

Shavitz scosse la testa. “Per cosa? Qualsiasi attacco che conservi le capacità missilistiche dell’Iran, con aerei da combattimento o bombardieri in aria, o che lasci anche un solo missile nucleare operativo, per noi implicherà il disastro. Mentre alcuni di noi dormivano, primo ministro, o premiavano i nostri amici con contratti governativi, gli iraniani lavoravano come termiti, costruendo un arsenale missilistico convenzionale quasi incredibilmente resistente, e tutto con noi in mente.

“Il Fajr-3, con guida di precisione e veicoli di rientro multipli – quasi impossibile da abbattere. Il programma Shahab-3, con missili sufficienti, potenza di fuoco sufficiente, e portata tale da bombardare a tappeto ogni centimetro quadrato di Israele. I sistemi Ghadr-110, Ashoura, Sejjil e Bina, e tutti possono raggiungerci, con migliaia di proiettili e testate individuali. E, pur se difficilmente pare pressante al momento, stanno ancora lavorando sul lanciatore spaziale Simorgh, che è sotto test e che possiamo aspettarci di vedere operativo nel giro di un anno. Una volta approntato quel sistema…”

Shavitz sospirò. Il resto della stanza era in silenzio.

“E i nostri sistemi di rifugio?”

Shavitz annuì. “Certo. Presumendo che gli iraniani stiano bluffando e che non abbiano armi nucleari, possiamo dire con sicurezza che, dovessero lanciarci addosso un attacco maggiore, una percentuale del nostro popolo arriverebbe ai rifugi in tempo, alcuni rifugi terrebbero, e dopo, una manciata di sopravvissuti ne uscirebbe sana e salva. Ma non credo neanche per un minuto che ricostruirebbero. Sarebbero traumatizzati e inermi, lì a vagare per un cacchio di paesaggio lunare. Che cosa farebbe allora Hezbollah? O cosa farebbero i turchi? O i siriani? O i sauditi? Accorrerebbero per portare assistenza e conforto agli ultimi rimasugli della società israeliana? Non credo proprio.”

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