Allungò una mano verso di lei. “Le credo”.
Io so troppo.
“E confido che rimarrà in silenzio”.
Mi sta tranquillizzando. Non mi lasceranno vivere.
“Sono certo che avrò di nuovo bisogno di lei in futuro”.
Non c'era nulla che Harris potesse dire che le avrebbe fatto cambiare idea. Il presidente avrebbe potuto chiedere la sua mano proprio in qual momento e la sensazione di imminente pericolo sarebbe rimasta viva in lei.
Harris si alzò e si abbottonò la giacca. “Venga. La accompagno fuori”. Si fece strada fuori dalla stanza e Karina lo seguì. Si sentiva tremare. Era in uno dei posti più sicuri del pianeta, circondata da agenti addestrati dei servizi segreti. Quando raggiunsero il corridoio vide che una mezza dozzina di agenti li attendeva, in piedi con le spalle ai muri e le mani intrecciate davanti a loro.
Forse erano lì per lei.
Stai calma.
“Joe”. Harris fece un cenno all'agente che l'aveva recuperata per la prima volta dalla sala d'attesa. “Assicurati che la signora Pavlo torni al suo hotel in sicurezza. Prendi la nostra auto migliore”.
“Sì, signore”, disse l'agente con un lieve cenno del capo. Le sembrò un cenno strano. Un cenno di intesa.
“Grazie”, disse cercando di sembrare disinvolta, “ma posso prendere un taxi. Il mio hotel non è lontano”.
“Sciocchezze”, disse Harris dolcemente. “Che senso ha lavorare per il presidente se non godersi alcuni vantaggi?” Sorrise. “Grazie ancora. È stato un piacere incontrarla. Ci terremo in contatto”.
Lui le strinse la mano. Lei strinse la sua. Il suo sorriso rimase stampato sul volto, ma i suoi occhi lo tradirono.
Karina non aveva altra scelta. Seguì l'agente dei servizi segreti, l'uomo chiamato Joe (ammesso che quello fosse il suo vero nome), attraverso il seminterrato della Casa Bianca. Ogni muscolo del suo corpo era teso, ansioso, pronto a combattere o a scappare. Ma con sua sorpresa, l'agente la scortò effettivamente su una rampa di scale e giù per un corridoio e verso un'altra porta che conduceva all'esterno. La accompagnò senza dire una parola verso un piccolo garage, quindi le aprì la portiera di un SUV nero.
Non entrare.
Ma salì a bordo. Se avesse combattuto adesso o avesse cercato di scappare, non sarebbe nemmeno arrivata al cancello.
Due minuti dopo erano fuori dalla proprietà della Casa Bianca, e l’auto stava percorrendo la Pennsylvania Avenue. Mi sta portando da qualche parte per uccidermi. Si libereranno di me altrove. Da qualche parte dove nessuno mi troverà mai.
“Può cortesemente lasciarmi all'Hilton in centro”, disse lei con indifferenza.
L'agente dei servizi segreti sorrise timidamente. “Siamo il governo degli Stati Uniti, signora Pavlo. Sappiamo dove alloggia”.
Lei ridacchiò appena, cercando di non apparire nervosa. “Naturalmente. Ma devo incontrarmi con un amico all'Hilton per cena”.
“In ogni caso”, rispose l'agente, “gli ordini del presidente erano di riportarla al suo hotel, quindi questo è quello che devo fare. Motivi di sicurezza”. Sospirò, come se avesse pietà di lei, anche se era abbastanza certa che l'avrebbe uccisa. “Sono sicuro che capirà”.
“Oh”, disse all'improvviso. “E le mie cose? Il mio telefono e le chiavi?”
“Le ho io”. Joe si diede una pacca sul taschino della giacca.
Dopo un lungo momento di silenzio, Karina disse: “Posso averle...?”
“Certo”, disse lui. “Appena arriviamo”.
“Vorrei davvero averle ora”, insistette lei.
L'agente sorrise di nuovo, pur tenendo gli occhi fissi sulla strada. “Saremo lì tra pochi minuti”, disse con calma, come se rispondesse a una bambina petulante. Karina dubitava che avesse i suoi oggetti nella giacca.
Si sedette al suo posto, o almeno sembrò farlo, cercando di sembrare rilassata mentre il SUV si fermava a un semaforo rosso. L'agente dei servizi segreti cercò nella console centrale un paio di occhiali da sole neri e li indossò.
La luce divenne verde.
L'auto davanti a loro cominciò ad avanzare.
L'agente tolse il piede dal freno, premette l’acceleratore.
Con un rapido movimento, Karina Pavlo premette il rilascio della cintura di sicurezza con una mano ed aprì la portiera con l'altra. Saltò giù dal SUV in movimento, colpendo l'asfalto con i tacchi. Uno dei due si ruppe. Cadde in avanti, colpendo il marciapiede con i gomiti e rotolando ma si alzò subito in piedi. Si tolse entrambe le scarpe e cominciò a correre per la strada.
“Che diavolo?” L'agente dei servizi segreti frenò di colpo e parcheggiò proprio in mezzo alla strada. Non si prese la briga di urlare, e di certo non la lasciò andare, e ciò non fece che confermare la sua idea.
I conducenti suonarono il clacson e gridarono mentre l'agente balzava fuori dalla macchina, ma a quel punto era a più di mezzo isolato di distanza, praticamente a piedi nudi, con le calze strappate, ignorando il dolore alle piante dei piedi.
Girò bruscamente l'angolo e corse verso la prima apertura che vide, un piccolo vicolo. Quindi svoltò a sinistra, correndo più veloce che poté, guardandosi ogni tanto alle spalle senza vedere l'agente.
Mentre uscì nella strada successiva, vide un taxi giallo.
L'autista quasi sputò il suo caffè quando lei si precipitò sul sedile posteriore e gridò: “Metta in moto! Per favore, metta in moto!”
“Gesù Cristo, signora!” la rimproverò. “Mi ha spaventato a morte...”
“Qualcuno mi sta inseguendo, per favore, metta in moto”, supplicò lei.
Lui si accigliò. “Chi la sta inseguendo?” L'autista, irritante, si guardò intorno. “Non vedo nessuno...”
“Per favore, metta in moto e basta!” strillò lei.
“Ok, ok!” Il tassista si spostò e il taxi virò nel traffico facendo suonare altri clacson che non avrebbero fatto altro che indicare all'agente la sua posizione.
Mentre si girava sul sedile per guardare fuori dal parabrezza posteriore vide l'agente che girava l'angolo correndo. Rallentò e i suoi occhi incontrarono quelli di lei. Una delle sue mani si infilò per un attimo nella sua giacca, ma sembrò pensarci due volte prima di estrarre una pistola in pieno giorno, poi si portò una mano all'orecchio per chiamare qualcuno.
“Giri a sinistra”. Karina ordinò al tassista di svoltare, passare qualche altro isolato, svoltare a destra e poi saltò di nuovo fuori mentre lui le urlava di pagare. Corse giù per l’isolato e lo fece altre tre volte, saltando sui taxi e uscendo fino a quando non ebbe attraversato Washington con un percorso così tortuoso da essere certa che quell'agente dei servizi segreti non sarebbe riuscito a trovarla.
Trattenne il respiro e si lisciò i capelli mentre rallentava a passo svelto, tenendo la testa bassa e cercando di non sembrare terrorizzata. Lo scenario più probabile era che l'agente avesse ottenuto il numero di targa del taxi e che lo sfortunato tassista (sebbene un po' lento) venisse fermato, controllato e interrogato per assicurarsi che non facesse parte di un piano di fuga.
Karina si infilò in una libreria, sperando che nessuno si accorgesse che era senza scarpe. Il negozio era tranquillo e gli scaffali erano alti. Si diresse rapidamente verso la parte posteriore, si diresse in un bagno, si spruzzò dell'acqua sul viso e si sforzò di trattenere le lacrime.
La sua faccia era ancora pallida per lo shock. Con che velocità la situazione era precipitata.
“Bozhe Moy”, sospirò pesantemente. Mio Dio. Mentre l'adrenalina svaniva, la piena gravità della sua situazione la colpì. Aveva sentito cose che non avrebbero mai dovuto lasciare nel seminterrato della Casa Bianca. Non aveva alcun documento. Nessun telefono. Nemmeno un soldo. Cavolo, non aveva nemmeno le scarpe. Non poteva tornare al suo hotel. Anche mostrare il suo viso in qualsiasi spazio pubblico dove avrebbe potuto esserci una telecamera era rischioso.
Non avrebbero smesso di cercarla, dato ciò che sapeva.
Ma aveva le perle dei suoi orecchini. Karina si toccò distrattamente il lobo sinistro, accarezzando quella pietra liscia. Conosceva le parole pronunciate in quell'incontro, ed erano ben più di un lieve ricordo. Aveva la prova del fatto che il presidente americano, un presunto liberale democratico che si era guadagnato l'ammirazione del paese, non era altro che un burattino nelle mani dei russi.
Lì nella toilette femminile di una libreria del centro, Karina si guardò allo specchio mentre mormorava disperatamente: “Ho bisogno di aiuto”.
CAPITOLO UNO
Zero si sedette sul bordo del letto matrimoniale e si strinse nervosamente le mani in grembo. Ci aveva già pensato molte volte, l'aveva provato mille volte nella sua mente. Eppure, era ancora lì.
Le sue due figlie adolescenti erano sedute sul letto vicino al suo. Erano in una stanza del Plaza, un hotel di lusso appena fuori Washington. Avevano deciso di dormire lì invece di tornare a casa a seguito dell'attentato alla vita del presidente Pierson.
“Vi devo dire una cosa”.
Maya aveva quasi diciassette anni. Aveva i capelli castani e i lineamenti del viso di suo padre, lo spirito acuto e il sarcasmo pungente di sua madre. Lo guardò passivamente, con un'ombra di preoccupazione.
“Non è facile da dire. Ma avete il diritto di saperlo”.
Sara aveva quattordici anni e viveva i conflitti dell'età in cui ci si avvicina alla pubertà. Aveva ereditato i capelli biondi di Kate e il suo viso espressivo. Assomigliava sempre di più a sua madre ogni giorno che passava, e al momento sembrava nervosa.
“Riguarda vostra madre”.
Entrambe ne avevano passate molte, erano state rapite e avevano assistito a omicidi e più volte era stata loro puntata la canna di una pistola in fronte. Nonostante tutto, erano sempre state forti. Meritavano di saperlo.
Perciò lo disse loro.
L'aveva provato tante volte nella sua mente, ma per lui era ancora difficile trovare le parole. Arrivavano lentamente, come tronchi alla deriva sul letto di un fiume. Pensava che una volta iniziato sarebbe stato più facile, ma non era affatto così.
Lì nell'hotel Plaza, mentre Alan andava a prendere le pizze e a pochi passi da loro una TV trasmetteva una sitcom, Zero disse alle sue figlie che la loro madre, Kate Lawson, non era morta per un ictus ischemico come tutti pensavano.
Era stata avvelenata.
La CIA l'aveva uccisa.
Per colpa sua. Dell'agente Zero. Per le sue azioni.
E la persona che l'aveva uccisa...
“Non sapeva nulla”, disse Zero alle sue figlie. Fissò il copriletto, il tappeto, qualsiasi cosa che non fossero i loro occhi. “Non sapeva chi fosse. Gli avevano mentito. Non lo seppe fino a più tardi. Fino a quando non ebbe compiuto il fatto”. Stava farfugliando. Stava accampando scuse per l'uomo che aveva ucciso sua moglie, la madre delle sue figlie. L'uomo che Zero aveva lasciato fuggire invece che ucciderlo.
“Chi?” La voce di Maya si fece roca, come un sussurro aspro, era più un suono che una parola.
L'agente John Watson. L'uomo che aveva salvato la vita delle sue figlie più di una volta. Un uomo che avevano conosciuto, a cui volevano bene di cui potevano fidarsi.
Il silenzio negli istanti successivi fu terribile, e a Zero sembrò una mano invisibile che gli stringeva il cuore. L'unità di aria condizionata della camera d'albergo si animò all'improvviso, forte come un motore a reazione nel vuoto.
“Da quanto tempo lo sai?” Il tono di Maya era diretto, intransigente.
Sii sincero. Questa era la posizione che voleva avere con le sue ragazze. Onestà. Non importa quanto male faccia la verità. Quella confessione era l'ultima barriera tra di loro. Sapeva che era tempo di abbatterla.
Sapeva già che le avrebbe distrutte.
“So da tempo che non è stato un incidente”, disse loro. “Non sapevo chi fosse stato. Ed ora lo so”.
A quel punto osò alzare lo sguardo e guardare i loro volti. Sara piangeva in silenzio, senza emettere alcun suono mentre le lacrime le rigavano le guance. Maya si fissava le mani, senza espressione.
Lui le prese la mano. Era l'unica cosa che aveva senso fare in quel momento. Per avere un contatto.
Ricordava esattamente cosa fosse successo. Mentre le sue dita si chiudevano attorno alle sue, lei si era allontanata con violenza. Si era girata ed era saltata giù dal letto. Sara aveva sussultato, sorpresa, mentre Maya gli diceva che lo odiava. Mentre gli rivolgeva i peggiori insulti. E lui era rimasto seduto, e se li era presi, perché era quello che si meritava.
Questa volta non accadde nulla di tutto ciò. Mentre le sue dita si chiudevano attorno alle sue, la mano di Maya si dissolse nella sua come nebbia.
“No...”
Cercò di raggiungerla, ma lei svanì sotto il suo tocco come una colonna di cenere nella brezza. Si voltò rapidamente e prese Sara, ma lei scosse solo la testa tristemente mentre anche lei si dissolveva davanti ai suoi occhi.
E rimase solo.
*
“Sara!”
Zero si svegliò di soprassalto, gemendo. Aveva un forte mal di testa. Era solo un sogno, un incubo. Un incubo che aveva avuto già mille volte prima.
Era andata sempre all'incirca così.
Zero aveva avuto un incredibile successo. Aveva evitato un tentato omicidio presidenziale. Aveva fermato una guerra prima che scoppiasse. Aveva scoperto una cospirazione. E poi lui e le sue ragazze erano andati al Plaza; nessuno di loro voleva tornare ad Alexandria, in Virginia. Erano successe troppe cose lì. Troppe morti.
Era lì che glielo aveva detto. Meritavano di conoscere la verità.
Ma poi se ne erano andate.
Era stato... quanto tempo prima? Quasi diciotto mesi, se ricordava bene. Un anno e mezzo fa. Tuttavia, quel sogno lo affliggeva quasi tutte le sere. A volte le ragazze evaporavano davanti ai suoi occhi. A volte urlavano contro di lui, maledicendolo con parole molto più dure di quelle che realmente avevano utilizzato. Altre volte se ne erano andate in silenzio, e quando le aveva raggiunte nel corridoio erano già svanite.
Sebbene il finale variasse, le conseguenze nella vita reale erano le stesse. Si svegliò dall'incubo con un forte mal di testa e il cupo, disperato ricordo che se ne erano andate davvero.
Zero si stiracchiò e si alzò dal divano. Non ricordava di essersi addormentato, ma non se ne stupì. Di notte non dormiva bene, e non solo per l'incubo delle sue figlie. Un anno e mezzo fa aveva recuperato i suoi ricordi, i suoi ricordi completi come Agente Zero, e con loro erano arrivati incubi terribili. I ricordi si facevano strada nel suo subconscio mentre dormiva o cercava di farlo. Scene atroci di tortura. Bombe sganciate su edifici. L'impatto dei proiettili su un cranio umano.
La cosa peggiore era che non sapeva se fossero reali o no. Il dottor Guyer, il geniale neurologo svizzero che lo aveva aiutato a recuperare i ricordi, lo aveva avvertito che alcuni ricordi avrebbero potuto non essere reali, ma un prodotto del suo sistema limbico che manifestava fantasie, sospetti e incubi come realtà.
Anche la realtà gli sembrava a tratti immaginazione.
Zero arrancò in cucina per prendere un bicchiere d'acqua, scalzo e intontito, quando suonò il campanello. Sobbalzò al suono, mentre ogni suo muscolo si irrigidì all'istante. Era ancora piuttosto nervoso, anche dopo tanto tempo. Lanciò un'occhiata all'orologio digitale sul fornello. Erano quasi le quattro e mezzo. Poteva essere solo una persona.
Lui aprì la porta e forzò un sorriso per accogliere il suo vecchio amico. “Giusto in tempo”.
Alan Reidigger sorrise sollevando un pacco di sei birre e tenendolo tra il pollice e l'indice. “Per la tua sessione di terapia settimanale”.