Ci sarebbe stato tempo dopo, quando il suo cervello non era inibito dalla mancanza di sonno e dagli antidolorifici.
"Quindi, tutto qui?" chiese. "Posso andare?"
"Può andare". Riker sorrise di nuovo. Non gli piaceva affatto quel sorriso sulla sua faccia.
Cartwright guardò l'orologio. “Le tue figlie dovrebbero arrivare a Dulles tra circa... due ore. C'è un'auto ad aspettarti se la vuoi. Farai in tempo a lavarti, cambiarti e a farti trovare lì per accoglierle”.
I due vicedirettori si alzarono dai loro posti e si diressero verso la porta.
"Bentornato, Zero." Cartwright gli fece l'occhiolino prima di andarsene.
Solo nella stanza, Reid abbassò lo sguardo sulla chiave delle manette d'argento davanti a sé. Alzò gli occhi verso le telecamere montate agli angoli della stanza.
Stava per tornare a casa, ma c'era qualcosa di molto, molto strano.
*
Reid si affrettò verso il garage di Langley, senza manette e fuori dalla stanza di detenzione, sollevato dal compito di agente sul campo. Sollevato dalla paura di ripercussioni contro coloro che amava. Dopo aver evitato di essere gettato in un buco nel terreno a H-6.
Un'idea sorprendente lo colpì mentre varcava la porta e usciva sulla strada. Avrebbero potuto semplicemente buttarlo in Hell-Six. Avrebbero potuto almeno minacciarlo, alimentando la sua paura di non vedere più la sua famiglia. Ma non l'avevano fatto.
Perché se lo avessero fatto, avrei avuto tutte le ragioni per parlare, pensò Reid. Nulla mi impedirebbe di rivelare ogni cosa se fossi convinto di passare il resto della mia vita in una cella.
Anche se sembravano passate settimane, solo quattro giorni prima gli era tornato alla memoria un ricordo frammentato; prima che gli venisse applicato il soppressore della memoria, Kent Steele aveva raccolto informazioni su una guerra pianificata che il governo degli Stati Uniti stava progettando. Non ne aveva parlato con nessuno, anche se aveva rivelato a Maria che aveva ricordato qualcosa che poteva portare molti problemi a molte persone.
Il suo consiglio era stato semplice e chiaro: non fidarti di nessuno tranne che di te stesso.
Non ci aveva pensato prima, nella stanza di detenzione mentre veniva messo in discussione il suo destino e gli antidolorifici che gli annebbiavano il cervello. Ma se ne rese conto in quel momento. L'agenzia sapeva che lui sapeva qualcosa, ma non sapevano quanto lui sapesse o quanto avrebbe potuto ricordare. Lui per primo non era sicuro di quanto sapesse veramente.
Cercò di allontanare il pensiero dalla testa. Ora che il suo destino gli era stato svelato, tutta la tensione si era sciolta e si trovò affaticato e dolorante, pieno di emozione al pensiero di rivedere le sue ragazze.
Aveva due ore prima dell'atterraggio dell'aereo. Due ore sarebbero state più che sufficienti per tornare a casa, fare la doccia, cambiarsi e accoglierle. Ma decise di rinunciare a tutto ciò e andò direttamente all'aeroporto.
Non voleva proprio tornare in quella casa vuota da solo.
Parcheggiò quindi nel parcheggio ad ore a Dulles e si diresse agli arrivi. Prese un caffè in un bar e si sedette su una sedia di plastica, sorseggiandolo lentamente mentre mille pensieri gli giravano in testa, senza che riuscisse a fermarsi coscientemente su alcuno di essi.
Doveva chiamare Maria, decise. Aveva bisogno di sentire la sua voce. Lei avrebbe saputo cosa dire, e anche se non l'avesse saputo, parlare con lei sembrava essere la cura più efficace per la sua mente malata. Reid non aveva con sé il suo cellulare, ma per fortuna c'erano delle cabine telefoniche all'aeroporto, qualcosa di sempre più raro nel ventunesimo secolo. Entrò immediatamente nella cabina, compose prima lo zero e poi il numero di cellulare che conosceva a memoria.
Non ricevette risposta. La linea squillò quattro volte prima di passare alla segreteria telefonica. Non lasciò un messaggio. Non sapeva cosa dire.
Finalmente l'aereo arrivò e una processione di passeggeri a passo veloce si avviò lungo il corridoio, superando i cancelli e il controllo di sicurezza e portandosi tra le braccia dei propri cari che li attendevano oppure al punto di ritiro bagagli.
Strickland lo vide per primo. L'agente Todd Strickland era giovane, ventisette anni, con un taglio in stile militare e un collo largo. Camminava con una leggera spavalderia che era in qualche modo accessibile ma autoritaria allo stesso tempo. Ancora più importante, Strickland non sembrava affatto sorpreso di vedere Reid; senza dubbio la CIA gli aveva detto che Kent Steele era stato rilasciato. Fece un semplice cenno a Reid mentre accompagnava le due ragazze alla lunga passerella.
Sembrava che Strickland non avesse detto a nessuna delle sue figlie che sarebbe stato lì al loro arrivo, e per questo Reid gli era grato. Maya lo vide subito dopo, e sebbene le sue gambe continuassero a muoversi, la sua mascella le cadde per lo stupore. Sara batté le palpebre due volte, poi le sue labbra si spalancarono in un sorriso sinceramente euforico. Nonostante il suo braccio fosse ingessato - si era rotta il braccio dopo essersi lanciata da un treno in movimento - corse da lui. "Papà!"
Reid si piegò su un ginocchio e la abbracciò forte. Maya si avvicinò subito dopo la sorella, e tutti e tre si abbracciarono a lungo.
"Come è possibile?" Maya gli sussurrò piano nell'orecchio. Entrambe le ragazze avevano molte ragioni di credere che non avrebbero rivisto il padre per molto tempo.
"Ne parliamo più tardi", promise Reid. Poi si alzò rivolgendosi a Strickland. "Grazie per averle riportate a casa sane e salve".
Strickland annuì e strinse la mano di Reid. "Ho semplicemente mantenuto la mia parola". Nell'Europa dell'Est, Strickland e Reid avevano raggiunto una forma di comprensione reciproca e il giovane agente aveva fatto la promessa di proteggere le due ragazze, indipendentemente dal fatto che Reid fosse presente o meno. "Credo di poter andare", disse loro. "Voi due state bene". Sorrise alle ragazze e si allontanò dalla famiglia riunita.
Il viaggio verso casa fu breve, durò solo mezz'ora, e Sara lo rese ancora più breve intrattenendolo con un insolito chiacchiericcio. Gli disse quanto bene l'agente Strickland le avesse trattate e come i dottori in Polonia le avevano permesso di scegliere il colore della sua benda al braccio, ma che aveva scelto comunque il classico beige in modo da poterlo colorare da sola con dei pennarelli. Maya sedeva silenziosa sul sedile del passeggero, lanciando di tanto in tanto un'occhiata alla sua sorellina e sorridendo brevemente.
Poi arrivarono a casa loro ad Alessandria, e fu come se la porta d'ingresso avesse assorbito qualsiasi pensiero allegro o gioioso. L'umore cambiò in un secondo; l'ultima volta che erano entrati nell'atrio c'era un uomo morto che giaceva proprio di fronte alla cucina. Dave Thompson, il loro vicino, era un agente della CIA in pensione che era stato ucciso dall'assassino che aveva rapito Maya e Sara.
Nessuno parlò mentre Reid chiudeva la porta e digitava il codice per disattivare il sistema di allarme. Le ragazze sembravano esitanti ad entrare in casa.
"Va tutto bene", disse Raid piano, e sebbene lui stesso quasi non ci credesse, fece strada verso la cucina per dimostrare che non c'era nulla di cui avere paura. La squadra di pulizia della scena del crimine aveva svolto un lavoro minuzioso, ma era evidente dal forte odore di ammoniaca e dal pulito immacolato tra le piastrelle che qualcuno era stato lì da poco, per rimuovere il sangue ed eliminare ogni traccia del fatto che in quel luogo si fosse verificato un omicidio.
"Qualcuno ha fame?" Chiese Reid, cercando di sembrare sereno ma risultando piuttosto teatrale.
"No", disse Maya piano. Sara scosse la testa.
“Okay”. Il silenzio che seguì fu palpabile, come un palloncino invisibile che si gonfiava sempre di più tra di loro. “Bene”, disse infine Reid, sperando di farlo scoppiare, “Non so voi, ma io sono sfinito. Penso che dovremmo riposarci".
Le ragazze annuirono di nuovo. Reid baciò Sara in fronte e lei si trascinò su per le scale fino a camera sua, camminando radente al muro, sebbene non ci fosse nulla che bloccasse il percorso.
Maya rimase in attesa in silenzio, ascoltando attentamente i passi di sua sorella sulle scale finché non ebbe raggiunto il piano di sopra. Si tolse le scarpe e poi chiese all'improvviso: "È morto?"
Reid batté le palpebre due volte. "Chi è morto?"
Maya non alzò lo sguardo. “L'uomo che ci ha preso. Quello che ha ucciso il signor Thompson. "Rais".
"Sì", disse Reid piano.
"L'hai ucciso tu?" Il suo sguardo era sostenuto, ma non arrabbiato. Voleva la verità, non un'altra copertura o un'altra bugia.
"Sì", ammise dopo un istante.
"Bene", disse in un sussurro.
"Ti ha detto il suo nome?" Chiese Reid.
Maya annuì e poi lo guardò senza batter ciglio. “C'era un altro nome che voleva che io conoscessi. Kent Steele".
Reid chiuse gli occhi e sospirò. In qualche modo Rais continuava a tormentarlo, anche dalla tomba. "Ora è tutto finito".
"Lo giuri?" Sollevò entrambe le sopracciglia, sperando che fosse sincero.
"Sì. Te lo giuro".
Maya annuì. Reid sapeva fin troppo bene che non sarebbe finita lì; era troppo intelligente e curiosa per farsi andar bene una bugia. Ma per il momento, le sue risposte sembravano soddisfarla e quindi salì le scale.
Odiava mentire alle sue figlie. Odiava ancora di più mentire a se stesso. Non aveva finito con il lavoro sul campo, forse aveva finito con il lavoro retribuito sul campo, ma avrebbe avuto ancora molto da fare se gli fosse riaffiorata alla memoria la cospirazione che aveva appena iniziato a ricordare. Non aveva scelta; finché sapeva qualcosa, era ancora in pericolo. Le sue ragazze potevano essere ancora in pericolo.
Desiderò per un attimo di non sapere nulla, di poter dimenticare ciò che sapeva sull'agenzia, sulle cospirazioni e di essere solo un professore universitario e un padre per le sue figlie.
Ma non puoi. Quindi devi fare il contrario.
Non aveva bisogno di meno ricordi; ci aveva provato prima e non aveva mai funzionato. Aveva bisogno di più ricordi. Più riusciva a ricordare ciò che sapeva due anni fa, meno fatica avrebbe dovuto fare per scoprire la verità. E forse non avrebbe dovuto preoccuparsi a lungo.
In piedi in cucina, a pochi passi dal luogo in cui Thompson era stato ucciso, Reid prese la sua decisione. Avrebbe trovato la vecchia lettera di Alan Reidigger e il nome del neurologo svizzero che aveva impiantato il soppressore della memoria nella sua testa.
CAPITOLO UNO
Abdallah bin Mohammed era morto.
Il corpo del vecchio giaceva su una lastra di granito nel cortile del complesso, un gruppo murato di strutture beige squadrate situato a circa cinquanta miglia a ovest di Albaghdadi nel deserto dell'Iraq. Era lì che la Fratellanza era sopravvissuta all'espulsione da Hamas, nonché al controllo delle forze americane durante l'occupazione e alla successiva democratizzazione del paese. Per chiunque al di fuori della Fratellanza, il complesso era semplicemente una comunità di sciiti ortodossi; incursioni e ispezioni forzate della proprietà non avevano portato nulla alla luce. I loro rifugi erano ben nascosti.
Il vecchio aveva vissuto personalmente la loro sopravvivenza, dedicando la vita al servizio della sua ideologia. Ma ora Bin Mohammed era morto.
Awad stava fermo accanto alla lastra che conteneva il cadavere cinereo del vecchio. Le quattro mogli di Bin Mohammed gli avevano già dato l'estremo saluto, lavandogli il corpo tre volte prima di avvolgerlo nel sudario bianco. I suoi occhi erano chiusi in un'espressione pacifica, le sue mani erano incrociate sul petto, la mano destra sulla sinistra. Sul suo corpo non c'erano ferite né cicatrici. Negli ultimi sei anni era vissuto e morto nel complesso, non era mai uscito dalle sue mura. Non era stato ucciso da colpi di fucile o dai droni come molti altri mujaheddin.
"Come?" Domandò Awad in arabo. “Come è morto?"
"Ha avuto un infarto durante la notte", rispose Tarek. L'uomo si trovava al lato opposto della bara di pietra, di fronte a Awad. Molti nella Confraternita consideravano Tarek come il secondo di Bin Mohammed, ma Awad sapeva che il suo ruolo era stato poco più che quello di messaggero e custode mentre la salute del vecchio peggiorava. "L'infarto ha causato un attacco di cuore. È morto immediatamente; non ha sofferto".
Awad posò una mano sul petto immobile del vecchio. Bin Mohammed gli aveva insegnato molto, non solo sulla fede, ma anche sul mondo, delle infinite difficoltà e di cosa significasse guidare un gruppo.
E lui, Awad, davanti a sé vedeva non solo un cadavere ma anche un'opportunità. Tre notti prima Allah gli aveva regalato un sogno, anche se ora era difficile chiamarlo così. Era un presagio. In sogno aveva visto la morte di Bin Mohammed e una voce gli aveva annunciato che lui avrebbe guidato la Fratellanza. La voce, ne era certo, apparteneva al Profeta, che parlava a nome dell'Unico Vero Dio.
"Hassan sta facendo un'incursione per le munizioni", disse piano Tarek. “Non sa ancora che suo padre è morto. Ritorna oggi; presto saprà che il mantello della guida della Fratellanza cadrà su di lui... "
"Hassan è un debole", disse Awad all'improvviso, più duramente di quanto intendesse. "Mentre la salute di Bin Mohammed peggiorava, Hassan non ha fatto nulla per impedire che ci indebolissimo di riflesso".
"Ma…" Tarek esitò; era ben consapevole del carattere irascibile di Awad. "I doveri della leadership spettano al figlio maggiore..."
"Questa non è una dinastia", ribatté Awad.
"E allora a chi...?" Tarek si interruppe mentre si rendeva conto di ciò che Awad suggeriva.
Il giovane socchiuse gli occhi ma non disse nulla. Non ne aveva bisogno; uno sguardo valeva più di una minaccia. Awad era giovane, non aveva ancora compiuto i trent'anni, ma era alto e forte, la sua mascella era rigida e irremovibile come la sua convinzione. Pochi avrebbero alzato la voce contro di lui.
"Bin Mohammed voleva che io avessi la guida", disse Awad a Tarek. "Lo ha detto lui stesso". Questo non era del tutto vero; il vecchio aveva detto in diverse occasioni che vedeva il potenziale di grandezza in Awad e che aveva le doti naturali di un vero leader. Awad aveva interpretato questa affermazione come una dichiarazione di intenzioni del vecchio.
"Non mi ha mai detto nulla di simile", osò dire Tarek, per quanto lo pronunciò silenziosamente. Il suo sguardo era rivolto verso il basso, per non incrociare gli occhi scuri di Awad.
"Perché sapeva che anche tu sei un debole", lo sfidò Awad. “Dimmi, Tarek, quanto tempo è passato dall'ultima volta in cui ti sei avventurato fuori da queste mura? Per quanto tempo hai vissuto lontano dalla protezione di Bin Mohammed, senza preoccuparti di proiettili e bombe? " Awad si sporse in avanti, sopra il corpo del vecchio, mentre lui tranquillamente aggiunse: "Quanto pensi di poter durare protetto solamente dai tuoi vestiti quando prenderò il potere e ti caccerò?"
Il labbro inferiore di Tarek si mosse, ma nessun suono gli uscì dalla gola. Awad fece un sorrisetto; Tarek, piccolo e confuso, aveva paura.
"Continua", supplicò Awad. "Dimmi cosa ne pensi".
"Per quanto tempo..." Tarek deglutì. “Quanto pensi che durerai tra queste mura senza il finanziamento di Hassan bin Abdallah? Saremo nella stessa posizione. Solo in posti diversi".