“Sara dorme?” chiese.
Maya annuì. “Sonnecchia sul divano”.
“Lo fa spesso recentemente”, disse, con espressione preoccupata. “Dorme molto”.
Lei forzò una leggera risata. “Ha sempre dormito molto. Non mi preoccuperei per questo”. Poi indicò il bicchiere con un cenno. “Birra?”
“Tè freddo”. Sorrise lui imbarazzato. “Da quando sono tornato al lavoro non bevo”.
“E come va?”
“Non male”, ammise. “Ultimamente non ho svolto nessun incarico sul campo, mi prendo cura di Sara e mi rimetto in forma”.
“Stavo per dirlo, si vede che hai perso peso. Stai molto meglio di… “
Dell'ultima volta in cui ti ho visto, stava per dire Maya, ma si interruppe, perché non voleva rievocare il ricordo di quella visita, quando aveva portato Greg a casa, si era arrabbiata, aveva perso il controllo, aveva abbandonato Greg lì e aveva detto a suo padre che non avrebbe mai più voluto vederlo.
“Grazie”, disse lui in fretta, chiaramente pensando lo stesso. “E la scuola sta andando bene?”
Gliel'aveva già detto così prima, a cena, ma sembrava che non le credesse del tutto, e Maya ricordò a sé stessa che parte del suo lavoro era la capacità di capire le persone. Era inutile mentirgli, ma ciò non significava che lei dovesse dirgli tutto.
“Preferisco non parlare della scuola”, gli disse chiaramente. Non voleva parlare di come talvolta sparissero degli oggetti dal suo armadietto. O del fatto che i ragazzi le gridassero parole poco gentili. O della sensazione che fosse soltanto l'inizio del tormento, e che più cercava di ignorarli, più i ragazzi di West Point sarebbero stati aggressivi.
“Giusto”. Suo padre si schiarì la gola. “Uhm, c'è qualcosa di cui vorrei parlare però. Avrei dovuto chiedertelo prima. Maria non ha un posto in cui andare domani, e non mi sembrava giusto…”
“Non preoccuparti, papà”. Maya sorrise al suo imbarazzante tentativo di chiederle il permesso. “Certo che non mi dispiace, e non devi chiedermi il permesso”.
Lui fece spallucce. “Si, hai ragione. È solo che sei così grande ora. Entrambe siete cresciute così tanto. Mi sono perso alcune parti importanti della vostra vita”.
Maya annuì leggermente, sebbene non sentisse il bisogno di aggiungere altro. Poi cambiò argomento. “È bello ciò che stai facendo per Sara. La stai aiutando. Sembra che ne abbia davvero bisogno”.
Questa volta fu suo padre ad annuire leggermente, fissando il vuoto. “Farei tutto il possibile per lei”, disse malinconicamente. “Ma temo che potrebbe non essere abbastanza”.
“Che intendi dire?”
Zero bevve un sorso di tè freddo prima di spiegare. “La scorsa settimana siamo andati a cena, solo noi due, in un ristorante in centro. È stato bello. Abbiamo parlato. Sembrava tutto a posto. Quando è arrivato il conto, ho pagato con una banconota da cento dollari. E lì qualcosa è scattato; come un'ombra le ha attraversato gli occhi. L'ho vista guardare i soldi, poi la porta e …”
Suo padre tacque, ma Maya non aveva bisogno che spiegasse ulteriormente. Ora capiva le parole di Sara; aveva davvero pensato di prendere i soldi e scappare. Non sarebbe andata lontano con solo un centinaio di dollari, ma probabilmente stava pensando a brevissimo termine. Voleva farsi una dose il prima possibile.
“Sicuramente te ne sei accorta”, continuò suo padre, “l'appartamento è un po' spoglio. Non l'ho decorato con molte cose, perché…”
Perché temi che potrebbe rubarle. Impegnarle. Scappare di nuovo. La CIA non lo aveva mandato da nessuna parte nel tempo in cui Sara aveva vissuto con lui, ma prima o poi lo avrebbe fatto, e a quel punto cosa sarebbe successo? Sara sarebbe rimasta semplicemente seduta ad aspettare il suo ritorno? O avrebbe cercato di fuggire, abbandonata a sé stessa e ai demoni del suo passato?
“È molto peggio di quanto pensassi”, mormorò Maya. Quindi, risolutamente e senza pensarci due volte, aggiunse: “Rimarrò qui”.
“Che cosa?”
Lei annuì. “Rimango qui. Mancano solo tre settimane alle vacanze di Natale. Posso recuperare il lavoro. Starò qui durante le vacanze, tornerò a New York dopo Capodanno”.
“No”, le disse Zero con fermezza. “Assolutamente no…”
“Ha bisogno di aiuto. Ha bisogno di supporto”. Maya non era sicura di quale tipo di aiuto o supporto potesse offrire a sua sorella, ma avrebbe avuto il tempo di capirlo. “Non preoccuparti. Me ne occupo io”.
“Non è compito tuo”. Suo padre si chinò e cercò la sua mano. Lei quasi sussultò, ma poi le sue dita si chiusero attorno alle sue. “Apprezzo l'offerta. Sono sicuro che anche Sara lo farebbe.
Ma hai degli obiettivi. Hai un sogno nel cassetto. Hai lavorato duramente per raggiungerlo e devi continuare a perseguirlo”.
Maya sbatté le palpebre, un po' sorpresa. Suo padre non aveva mai mostrato di sostenere il suo desiderio di entrare a far parte della CIA e di diventare l'agente più giovane della storia. In effetti, aveva spesso tentato di dissuaderla, ma lei era irremovibile.
Lui sorrise, sembrando cogliere la sua sorpresa. “Non fraintendermi. Non mi piace comunque. Ma ora sei grande; è la tua vita. È giusto che sia tu a scegliere”.
Lei ricambiò il sorriso. Era cambiato. E forse dopo tutto c'era la possibilità di tornare a quello che erano una volta. Ma prima bisognava aiutare Sara.
“Penso”, disse piano, “che Sara potrebbe aver bisogno di più aiuto rispetto a quello che possiamo darle. Penso che potrebbe aver bisogno di un aiuto professionale”.
Suo padre annuì come se lo sapesse già, come se avesse già pensato la stessa cosa ma sentisse il bisogno di sentirselo dire da qualcun altro. Lei gli strinse delicatamente la mano per rassicurarlo, e poi rimasero in silenzio. Nessuno dei due sapeva cosa sarebbe successo, ma per il momento tutto ciò che contava era che fossero a casa.
CAPITOLO TRE
Chiunque abbia definito New York “la città che non dorme mai” non è mai stato nella vecchia Avana, rifletté Alvaro mentre si dirigeva verso il porto e il Malecón. Alla luce del giorno, l’Avana vecchia era una bellissima parte della città, una ricca miscela di storia e arte, gastronomia e cultura, ma le strade erano piene di traffico e dei rumori dei cantieri per i vari progetti di restauro volti a riportare i quartieri storici all'antico splendore.
Ma di notte… era di notte che la città mostrava i suoi veri colori. Le luci, i profumi, la musica, le risate: e il Malecón era il posto migliore. Le strette stradine che circondavano Calle 23, dove abitava Alvaro, erano abbastanza vivaci, ma la maggior parte dei bar cubani chiudevano a mezzanotte. Tuttavia, vicino al porto i locali notturni rimanevano aperti, il volume della musica era sempre più alto e l'alcol scorreva copioso in molti bar e locali.
Il Malecón era un'ampia strada che si estendeva per otto chilometri lungo i confini dell'Avana, fiancheggiata da strutture dipinte di verde e rosa corallo. Molti dei locali tendevano a snobbarla a causa dei numerosi turisti, ma questa era una delle molte ragioni per cui Alvaro ne era attratto; nonostante i sempre più numerosi (e irritanti) locali in stile europeo, c'era ancora una manciata di posti in cui un ritmo di salsa resisteva alla musica elettronica proveniente dagli edifici vicini.
Tra la popolazione locale vigeva un detto secondo cui Cuba fosse l'unico posto al mondo in cui bisognasse pagare i musicisti per non suonare, e questo era certamente vero durante il giorno. Sembrava che ogni persona che possedesse una chitarra o una tromba o un set di bonghi avesse aperto un negozio all'angolo di una strada, e in ogni isolato la musica accompagnava il rombo delle macchine edili e il suono dei clacson delle macchine. Ma la notte era una storia diversa, specialmente sul Malecón; la musica dal vivo andava diminuendo, stava perdendo la battaglia contro la musica elettronica, o peggio, stava soccombendo a qualunque hit pop importata dagli Stati Uniti.
Eppure, Alvaro non si preoccupava di nulla di tutto ciò, purché ci fosse La Piedra. Si trattava di uno dei pochi veri bar cubani rimasti sul lungomare: le sue porte erano ancora aperte – letteralmente, bloccate da fermaporta in modo che la musica vivace della salsa arrivasse alle orecchie del visitatore ancora prima di entrare. Non c'era coda per entrare a La Piedra, a differenza delle moltissime discoteche europee. Non c'era una folla brulicante che cercava di richiamare l'attenzione dei baristi accalcandosi ai banconi. L'illuminazione non era debole o stroboscopica ma intensa, proprio per accentuare appieno l'arredamento vibrante e colorato. Una band di sei elementi suonava su un palco che difficilmente poteva essere chiamato tale, costituito da una piattaforma leggermente rialzata nell'angolo più lontano del bar.
Alvaro era in perfetta sintonia con La Piedra, con la sua camicia di seta decorata con un motivo bianco e giallo di Mariposa, il fiore nazionale di Cuba. Era alto e scuro, giovane e ben rasato, piuttosto bello. Qui, nel piccolo club di salsa di Malecón, non era solo un cuoco con le unghie sporche di grasso e lievi ustioni alle mani. Era un misterioso ed eccitante sconosciuto. Una storia allettante da raccontare a casa o un segreto da mantenere.
Si avvicinò al bar e indossò quello che sperava fosse un sorriso seducente. Al bancone c'era Luisa, come quasi tutte le sere. La loro routine era diventata una specie di danza in sé, uno scambio abituale e sempre uguale.
“Alvaro”, disse lei in tono indifferente, a malapena in grado di reprimere un sorriso. “Ecco la nostra trappola per turisti”.
“Luisa”, rispose lui languido. “Sei meravigliosa”. Effettivamente, Luisa era bellissima. Quella sera indossava una luminosa gonna lunga con uno spacco vertiginoso che accentuava le curve dei fianchi, con un top corto bianco appena appoggiato su un perfetto ombelico con un piercing a forma di rosa. I suoi capelli scuri ricadevano sulle spalle in morbide onde, incorniciando i suoi orecchini d'oro. Alvaro sospettava che metà degli avventori di La Piedra venisse solo per vederla; se non altro, per lui era così.
“Stai attento. Non vorrai sprecare le tue migliori battute con me”, scherzò.
“Tutte le mie frasi migliori sono dedicate a te”. Alvaro si appoggiò con i gomiti sul bancone di legno. “Lascia che ti porti a cena. Meglio ancora, lascia che io cucini per te. Il cibo è un linguaggio d'amore, lo sai”.
Lei sorrise. “Richiedimelo la prossima settimana”.
“Lo farò”, promise. “E nel frattempo, posso avere un mojito, per favore?”
Luisa si girò per preparare il suo drink, e Alvaro intravide la farfalla tatuata sulla spalla sinistra. Questi erano i loro passi di danza, i passi della loro salsa: un complimento, una proposta, un rifiuto, un drink. E altro ancora.
Alvaro distolse lo sguardo da lei e si guardò attorno al bar, ondeggiando dolcemente al suono della musica vivace. Gli avventori erano un piacevole mix di gente del posto e turisti amanti della musica, per lo più americani, alcuni europei e occasionalmente qualche gruppo di asiatici, tutti alla ricerca dell'autentica esperienza cubana e, con un po' di fortuna, lui sarebbe diventato parte dell'esperienza di qualcuna di loro.
In fondo al bar scorse dei capelli rosso fuoco, una pelle di porcellana, un bel sorriso. Appartenevano a una giovane donna, probabilmente degli Stati Uniti, sulla ventina. Era lì con due amici, seduti di fianco a lei su due sgabelli da bar. Uno di loro disse qualcosa che la fece ridere; inclinò la testa all'indietro e sorrise ancora di più, mostrando i suoi denti perfetti.
Gli amici potrebbero essere un problema. La donna dai capelli rossi non indossava alcun anello e sembrava si fosse vestita appositamente per attirare l'attenzione, ma sarebbero stati gli amici a decidere per lei.
“È carina”, disse Luisa mentre posava il mojito davanti a sé. Alvaro scosse la testa; non si era reso conto che la stava fissando.
Si strinse nelle spalle, cercando di scherzarci su. “Non è bella come te”.
Luisa rise di nuovo, questa volta di lui, mentre alzava gli occhi al cielo. “Sei tanto sciocco quanto dolce. Vai da lei”.
Alvaro prese il suo drink, mentre il suo cuore si spezzava ogni volta che Luisa respingeva le sue avance, sperando di trovare conforto in quella turista americana dai capelli rossi. I suoi metodi erano ben esercitati, sebbene non del tutto infallibili. Ma quella sera Alvaro si sentiva fortunato.
Si aggirò lungo il bancone, oltrepassando la ragazza e i suoi due amici senza rivolgere loro uno sguardo. Si sedette a un tavolo alto nella sua visuale e si appoggiò ad esso con i gomiti, battendo il tempo con la musica, aspettando il momento giusto. Poi, dopo un minuto, si guardò alle spalle con scioltezza.
La ragazza dai capelli rossi lo guardò a sua volta e i loro occhi si incontrarono. Alvaro distolse lo sguardo, sorridendo timidamente. Aspettò di nuovo, contando mentalmente fino a trenta prima di guardarla di nuovo. Lei distolse rapidamente lo sguardo. Lo stava guardando. Non aveva bisogno di altro.
Quando la canzone finì e il bar scoppiò in un applauso per la band, Alvaro raccolse il suo mojito e si avvicinò alla ragazza, non troppo in fretta, con le spalle dritte, la testa alta e sicuro di sé. Le sorrise e lei ricambiò il sorriso.
“Hola. ¿Bailar conmigo?”
La ragazza sbatté le palpebre confusa. “Scusami”, balbettò dolcemente. “Non parlo spagnolo…”
“Dance with me”. L'inglese di Alvaro era impeccabile, ma esagerò il suo accento per sembrare più esotico.
La ragazza arrossì, e le sue guance diventarono quasi dello stesso colore dei suoi capelli. “Io… non sono capace”.
“Ti insegno io. È facile”.
La ragazza sorrise nervosamente e, come Alvaro aveva previsto, guardò le sue amiche. Una di loro scrollò le spalle. L'altra annuì con entusiasmo e Alvaro dovette sforzarsi di non sorridere con troppo entusiasmo.
“Umm… va bene”.
Lui tese una mano e lei la prese, le sue dita calde in quelle di lui mentre la conduceva sulla pista da ballo, un'ampia area all'interno del bar in cui i tavoli erano stati allontanati per far spazio agli avventori giunti lì per la musica.
“Per ballare la salsa non serve conoscere i passi correttamente”, le disse. “È sufficiente seguire la musica. Così”. Quando la band iniziò la canzone successiva, Alvaro fece un passo avanti con il ritmo, dondolandosi sul piede posteriore e tornando subito indietro. I suoi gomiti ondeggiavano vagamente ai suoi lati, una mano ancora nella sua, muovendo i fianchi a ritmo con i suoi passi. Non era di certo un esperto, ma era dotato di un naturale senso del ritmo che faceva sembrare impressionanti anche i passi più semplici.
“Così?” La ragazza imitò rigidamente i suoi passi.
Lui sorrise. “Sì. Ma più sciolta. Fai come me. Uno, due, tre, pausa. Cinque, sei, sette, pausa”.
La ragazza rise nervosamente cercando di apprendere i passi, sciogliendosi progressivamente man mano che diventava più sicura. Alvaro temporeggiò, aspettando che la canzone finisse e che ne iniziasse un'altra prima di posarle delicatamente una mano sul fianco, mentre entrambi ballavano, dicendole: “Sei molto bella. Come ti chiami?”
La ragazza arrossì di nuovo. “Megan”.
“Megan”, ripeté. “Io sono Alvaro”.
La ragazza, Megan, sembrava sempre più a suo agio, cedendo progressivamente al fascino di uno sconosciuto bello e misterioso in quella terra esotica. Tutto stava andando secondo i suoi piani. Lei osò avvicinarsi, chiudendo gli occhi, seguendo la musica come lui le aveva detto, mentre i suoi fianchi ondeggiavano seguendo i passi di salsa, non erano così belli e formosi come i fianchi di Luisa, notò, ma erano comunque attraenti. Alvaro sapeva per esperienza di non muoversi troppo velocemente, di lasciare che la musica e la sua immaginazione prendessero il sopravvento, e poi…