Il trono dei draghi - Морган Райс 4 стр.


“Ho bisogno di sapere,” rispose.

“Seguimi allora,” disse il Maestro Grey, voltandosi e camminando come fosse certo che l’avrebbe seguito. Per una volta non sembrò dissolversi nel nulla e Devin, troppo grato per quell’opportunità, si affrettò sulla sua scia e dentro al castello. Gruppi di domestici si separarono, spostandosi di lato per far passare il mago.

“Io… Io ho sognato delle cose strane,” disse Devin mentre camminava. “Ho sognato di non essere chi ho sempre pensato fossi.”

Il Maestro Grey non rispose, continuò solo a camminare verso una serie di scalini che conducevano in basso, nelle viscere del castello. C’erano delle torce che sfarfallavano laggiù, gettando delle ombre sulle pietre che sembravano più antiche del resto del castello, dalla superficie levigata e ricoperta da un accenno della malta che le aveva tenute insieme, impedendo che si sgretolassero nel tempo.

“Stiamo scendendo,” affermò Devin. “Dove siamo diretti?”

Di nuovo, non ricevette alcuna risposta dal mago. Devin poteva avvertire la frustrazione crescergli dentro. Gli si schierò davanti, determinato a provocare una qualche reazione in lui. Lo stregone si fermò e lo fissò, finché lo scomodo peso del suo sguardo lo spinse a farsi da parte.

“Voglio solo delle risposte!” insistette Devin.

“Le risposte sono spesso preziose,” disse il Maestro Grey. “Ma di rado ci vengono date così.”

“Voglio solo dare un senso alle cose che ho visto,” replicò Devin. “So di essere nato sotto alla luna del drago. So che i miei genitori non sono i miei genitori.”

“Cose pericolose da dire,” ribatté il Maestro Grey. “Forse persino cose pericolose da sapere.”

“E voi non avete intenzione di spiegarmi niente di tutto ciò,” suppose Devin. “Perché mi avete incontrato al cancello se non volete parlarmi?”

“Perché devi eseguire un compito,” disse il Maestro Grey. “Un compito che potrebbe rivelarsi importante nei giorni a venire.”

“Quale compito?” domandò Devin.

Raggiunsero una porta di quercia nera, bloccata con del ferro, e il mago la spinse ad aprirla, rivelando uno spazio cavernoso dal soffitto a volta; una finestra soprastante lasciava entrare un fascio di luce che diffondeva un cerchio luminoso sul pavimento di piastrelle bianche e nere. La stanza era dotata di una forgia, un forno fusorio, un’incudine e ciò che a Devin sembrava un complesso di tutti gli attrezzi necessari per lavorare il metallo, disposti su scaffali di ferro annerito.

Quella zona era piuttosto strana, ma c’erano simboli intarsiati su ogni superficie, simboli che ricordavano a Devin quelli presenti sugli indumenti del Maestro Grey.

“Avete messo la magia in tutto questo?” chiese.

Con sua sorpresa, il Maestro Grey scosse la testa. “Questo non è metterci dentro la magia, ma contenerla quando la usi.”

“E come posso farlo?” chiese Devin.

Persino il sorriso del Maestro Grey era enigmatico, impossibile da decifrare del tutto. “Sai già cosa vuol dire evocare la magia. Devi solo incanalarla nel metallo mentre lavori.”

“E come lo faccio?” ripeté Devin.

“Imparerai,” lo rassicurò lo stregone e indicò la forgia. “Dovrai farlo, perché il metallo stellare non risponderà semplicemente al calore o al martello.”

Devin guardò dove il minerale grezzo del metallo stellare giaceva in attesa, vicino al forno fusorio. Camminò fin lì, lo toccò e avvertì la sensazione di qualcosa che da esso si propagava verso di lui; qualcosa che non riusciva a collocare, che non riusciva ancora a comprendere del tutto.

“Ti risponde,” affermò il Maestro Grey e si spostò per mettersi in piedi accanto alla parete. “Adesso devi controllare quella risposta. La magia è pericolosa. I miei incantesimi la conterranno, ma se per disgrazia sbagli a rapportartici… il metallo potrebbe consumarti.”

“Consumarmi?” ripeté Devin. All’improvviso, il ferro e l’acciaio parvero distanti anni luce.

“Il metallo assorbe la magia. Ne ha bisogno per prendere forma, ma versane troppa e potresti perdere te stesso,” disse il Maestro Grey. “Trova la tua magia, ragazzino. Incanalala, usala per dare forma al metallo mentre lo lavori. Avvia il forno.”

Devin voleva ribattere, ma quello era il compito che gli era stato attribuito. Doveva sbrigarsela da solo se voleva guadagnarsi il suo posto al castello. Doveva portare la spada al re… o a Rodry. Ad ogni modo, doveva prima fabbricarla.

Accese il fuoco per il forno; prima la legna, poi il carbone, pompando il mantice, accrescendo il calore. Guardò le fiamme, aspettando che acquisissero il colore giusto, quello che gli faceva capire che erano abbastanza calde.

“Non basta il calore, ragazzino,” gli ricordò il Maestro Grey.

Devin si scavò dentro, cercando di trovare quell’energia che era uscita così prontamente in quella valle. Aveva risposto al metallo, quindi Devin toccò un pezzo del minerale grezzo, concentrandosi su quella sensazione. Poteva sentirla, poteva avvertirla. Cercò di spingere quella sensazione nel forno, nelle fiamme…

Riuscì a malapena a gettarsi a terra quando le lingue di fuoco balzarono all’esterno, sfrecciando alle sue spalle come era accaduto in quella visione che aveva avuto del drago. Mentre approdava sul lastricato in pietra del pavimento, Devin vide le protezioni che il Maestro Grey aveva intrecciato brillare di vita per assorbire quella forza liberata.

“Io…” Devin si alzò su gambe instabili. “Non posso farlo.”

“Puoi e lo farai. Porta pazienza.”

Devin era tutto tranne che paziente in quel momento, soprattutto perché le persone più su nel castello gridavano come forsennate, forte come se il posto fosse sotto attacco.

“Che cosa sta accadendo là fuori?” chiese.

“Non è rilevante per il tuo ruolo in tutto questo,” rispose il mago.

“Voglio saperlo,” disse Devin, mentre si rialzava. “Cosa mi state nascondendo?”

“Ci sono tante cose che io so e tu no,” sottolineò il Maestro Grey.

Devin si incamminò verso la porta. “Lo scoprirò da solo.”

“La Principessa Lenore è stata catturata dagli uomini di Re Ravin,” disse lo stregone a quel punto, con un tono empatico ma in modo distaccato, come se niente di tutto ciò lo toccasse davvero. “Il Principe Rodry è già andato a salvarla, mentre suo padre sta raggruppando gli uomini per attraversare i ponti e andare a sud.”

Devin si sentì come se il cuore gli si fosse fermato in petto all’istante. Lenore era in pericolo? Il solo pensiero bastava a fargli desiderare di precipitarsi a cercarla, pronto a metterla in salvo. Non sapeva da cosa derivasse quel sentimento, ma era lì e lui era consapevole di non poter restare da una parte mentre lei era in pericolo.

“Devo unirmi alle truppe del re,” disse, incamminandosi di nuovo verso la porta.

Il Maestro Grey gli si mise davanti. “Per fare cosa?”

“Potrei… Potrei aiutare nel combattimento e riportarla indietro.”

“E pensi che non ci siano già abbastanza uomini che si stanno precipitando a farlo?” rispose il Maestro Grey. “Il Principe Rodry ha i suoi… amici. Il re ha i suoi cavalieri e le sue guardie. Non c’è niente che tu possa fare unendoti a loro, eccetto che condannarti a morte.”

Lo fece suonare certo come il sorgere del sole.

“Che ve ne importa?” domandò Devin.

“Me ne importa perché sei troppo potente per essere sprecato così. Il ragazzo nato sotto alla luna del drago? Quello della profezia? No, questo è il tuo ruolo: imparare, migliorare nell’uso della tua magia e forgiare la spada.”

Devin proseguì verso la porta, ma il Maestro Grey alzò una mano.

“Pensi che il re non ti chiuderebbe qui se glielo chiedessi?” domandò e fece un cenno con la testa al forno. “Adesso, hai un compito da eseguire. Sii gentile questa volta.”

Devin voleva ribattere, ma sapeva che non avrebbe portato a niente di buono. Voleva aiutare a salvare Lenore, ma che lo stregone avesse ragione era tanto frustrante quanto innegabile allo stesso tempo. Non poteva aggiungere niente agli uomini che si stavano già occupando del salvataggio, non poteva essere il nobile guerriero che l’avrebbe salvata. Quello era tutto ciò che poteva fare.

Tornò al forno, pronto a fare un secondo tentativo. Avvertiva la frustrazione dentro di sé, e non solo per questo. Aveva così tante domande e il Maestro Grey non avrebbe mai risposto neanche a una.

Avrebbe trovato un modo per ottenere le risposte però, a tutte le domande.

CAPITOLO QUINTO

Il Principe Greave non era abituato a occuparsi di navi se non a livello puramente teorico. Oh, aveva letto parti di Sulla navigazione di Samir e Attorno alle coste di Hussard in vista del viaggio, ma nessuno dei due lo aveva preparato alla realtà di un mare che si agitava violento, a un equipaggio di marinai che lo ignorava, chi più chi meno, e a un cielo che sembrava a un passo dalla tempesta.

La Serpentina era un’ampia nave a tre alberi, dai lati alti e curvi che, come una spada, tagliava le onde mentre si faceva strada nel mare. Portava piccole scialuppe ai lati, assicurate alle ringhiere. I marinai erano uomini dall’aspetto duro, ricoperti da indumenti larghi e spartani che permettevano loro di muoversi senza difficoltà nelle manovre navali. Erano robusti e segnati dalle intemperie, l’esatto opposto di Greave; e osservavano la sua pelle liscia e il suo aspetto femmineo con disprezzo.

Tuttavia, il solo pensiero di Nerra e che tutto ciò era finalizzato ad aiutarla, rendeva l’impresa degna dello sforzo. Quello era il modo più veloce per raggiungere Astare e la grande biblioteca che giaceva lì. Era l’unica via per arrivare dove avrebbe potuto trovare una cura alla malattia a squame abbastanza in fretta. Nonostante ciò… nonostante ciò, Greave era preoccupato di non fare in tempo.

“Questo è… normale?” chiese Aurelle, che era accanto a lui.

“Stai iniziando a desiderare di non essere venuta?” chiese Greave.

Scosse la testa. “Voi siete qui ed io non vi lascerò.”

Lo fece sembrare del tutto normale, ma Greave non poteva immaginare un’altra donna che lo avrebbe seguito lì, in quei mari spietati che avevano reclamato così tante vite, su una nave che avrebbe potuto essere fatta a pezzi se si fosse avvicinata troppo alle correnti rapide in prossimità delle sponde del fiume Slate. Nessun’altra donna avrebbe accettato di farlo, ma Aurelle era più di una donna qualsiasi.

“Sembra che abbiate la nausea,” disse Aurelle.

Greave detestava pensare all’aspetto che doveva avere in quel momento. Di solito era elegante, esile, con tratti quasi femminei, i capelli che gli scendevano in onde morbide e i tratti chiusi in un’espressione che avrebbe potuto fornire una perfetta ispirazione per la tristezza a un artista. Adesso, i suoi capelli erano aggrovigliati per il sale marino e il primo accenno di barba scura gli punteggiava il mento. Il suo non era un volto che poteva ospitare una barba, neanche quando non tendeva al verde per il mal di mare.

Mentre per quanto riguardava Aurelle… lei era perfetta.

Non era solo bellissima, sebbene lo fosse, con la sua pelle d’alabastro e gli zigomi e le labbra che ricordavano le stelle più luminose in una costellazione di tratti perfetti. Il suo corpo… Greave avrebbe potuto scrivere delle poesie su di lei, soprattutto poiché non portava più un abito elegante, ma dei vestiti da viaggio, con una tunica grigia e argento, un corsetto e dei calzoncini.

Niente di tutto ciò era tanto importante quanto il fatto che fosse lì, con lui, sulla rotta migliore che potevano trovare per raggiungere la grande biblioteca di Astare. Lo aveva accompagnato nella sua caccia per trovare una cura alla malattia a squame, quando nessun altro lo avrebbe fatto; stava cercando di aiutare Nerra, essendo salita a bordo di quella nave insieme a lui con piacere, se non addirittura con gioia.

“Non avremmo potuto andarci a cavallo?” chiese.

“È all’estremo nord-est e per arrivare laggiù occorre attraversare le terre vulcaniche,” disse Greave. “Raggiungerlo a cavallo sarebbe difficile e pericoloso se siamo solo noi due.”

“E questo invece non lo è?” chiese Aurelle, accennando al mare attorno a loro.

Non c’era segno di terraferma da lì; le navi dovevano viaggiare a largo per evitare il rischio di essere travolte dalle pericolose correnti in prossimità della costa. Era snervante; Greave aveva trascorso la maggior parte della sua vita confinato in biblioteca ma, allo stesso tempo, poteva sentire qualcosa crescere in lui a quella vista. Quello era ciò che gli scrittori che ammirava avevano visto: il mondo in tutta la sua gloria.

“Greave,” disse Aurelle, puntando il dito all’orizzonte. “Guardate, una balena.”

Greave guardò e vide un’ampia forma grigia sollevarsi dall’acqua, ma le fauci che mostrava erano troppo lunghe e piene di denti appuntiti per appartenere a quel cetaceo. Il suo corpo era grande quanto quello di una balena, ma era percorso da fronde di carne che potevano essere scambiate per alghe da lontano. Greave richiamò alla memoria Creature del profondo di Lolland, e la paura gli si agitò dentro.

“Quella non è una balena,” disse. “Aggrappati a qualcosa, Aurelle.” Gridò forte, in modo che l’equipaggio potesse sentire. “Faucenera!”

L’equipaggio si girò verso la creatura e impiegò un secondo in più di quanto avrebbe dovuto metterci a reagire, perché era stato lui a urlare invece che uno di loro. Greave sapeva cosa dovevano pensare in quel momento: che quel tenero principe viziato non avrebbe distinto una faucenera da un branco di sardine. Tuttavia, un secondo dopo, la videro coi loro occhi e corsero verso la riserva di arpioni della nave.

A quel punto, la creatura era già sott’acqua.

Greave osservò la sua ombra da sopra alla superficie, la seguì con gli occhi mentre si aggrappava a una delle corde della nave. Attorno a lui, i marinai guardavano cauti, diversi ancora affannandosi per prendere le armi.

Poi la creatura colpì.

Sbatté al lato della nave, ma il nostromo la stava già facendo allontanare quindi non accusarono il pieno impatto dell’attacco. Nonostante ciò, bastò a scuotere il mezzo con violenza, inclinandolo di lato abbastanza forte che se Greave non avesse afferrato la corda, sarebbe caduto.

Aurelle non fu altrettanto fortunata e urlò mentre ruzzolava verso il bordo della nave. La faucenera si stava già sollevando con le sue grosse fauci spalancate, pronte ad afferrare la preda, mentre con le sue lunghe fronde si aggrappava alla nave, sorreggendosi sul suo lato inclinato.

Greave balzò in avanti d’istinto, afferrando Aurelle, anche se quello significava abbandonare la sua presa sicura. Le avvolse la vita con le dita, ma anche mentre lo faceva, avvertiva il suo stesso supporto cedere.

Davanti a sé, Greave poté vedere gli arpioni conficcarsi nella carne della creatura, ma non servì a molto. Stava continuando ad avvicinarsi, con quei suoi grandi occhi privi di palpebre che lo guardavano fissi con una cattiveria terrificante.

“Vostra altezza!” gridò uno dei marinai e Greave si voltò nella sua direzione, appena in tempo per accorgersi che l’uomo gli stava tirando un arpione. L’arma restò sospesa nell’aria per un secondo prima di sbattergli contro al palmo mentre la afferrava.

“Greave!” urlò Aurelle. Era quasi al bordo della nave adesso, frenata dalla sua presa sul suo polso, ma solo appena. Sollevò l’arpione, rimpiangendo di non aver trascorso più tempo ad allenarsi con le armi e consapevole che avrebbe dovuto essere vicino a quel grande occhio per…

Lanciò l’arpione, che sfrecciò più preciso di quanto avrebbe potuto sperare. Si conficcò nel bulbo scoperto dell’occhio della faucenera, immergendosi abbastanza in profondità da far emettere alla creatura un grido che parve scuotere il mondo. La sua mole si ritrasse dalla nave che tornò a raddrizzarsi e il tonfo provocato dal suo rientro in acqua riversò sul ponte un’onda che minacciò di affondarla.

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