L’anello dei draghi - Морган Райс 2 стр.


“Voi dove starete, Vostra Maestà?” chiese l’ufficiale.

“Seguitemi.”

Ravin scelse una casa nobile a caso; aveva un’elegante costruzione in pietra raffinata che si estendeva attorno alla porta e delle piante sistemate alle finestre che scendevano come lacrime per i morti della città. Si avvicinò alla porta e la colpì con un pugno. Comprensibilmente, solo il silenzio gli rispose.

Ravin alzò un piede e diede un calcio alla porta con lo stivale, frantumandone i catenacci che la tenevano chiusa con un solo colpo. Entrò in un corridoio dove erano appesi dei quadri, che raffiguravano figura dopo figura ciò che gli sembrava una dichiarazione sulla discendenza del proprietario e sul suo diritto rispetto alla proprietà. Ravin li stava ancora guardando quando un uomo gli si avvicinò nella tenue luce della casa, correndogli incontro con una spada alzata. Ravin la colpì su un fianco e poi gli infilzò il petto con la sua stessa lama, facendolo cadere ai suoi piedi.

“Se fossi partito da lì, saresti sopravvissuto,” disse.

Camminò rapido per la casa e fino alla cucina, seguendo l’unico sfarfallio di luce presente in quel luogo. Spinse la porta ad aprirla e vi trovò una donna e quelle che pensò fossero le sue figlie, rannicchiate in fondo alla cucina insieme a una manciata di servitori. Erano accovacciati accanto al fuoco e avevano rovesciato un grande tavolo di legno per usarlo come una specie di barricata. Una coppia di servitori aveva in mano dei coltelli e avanzava come potesse combattere.

Ravin alzò la spada, con la lama ancora bagnata dal sangue dell’uomo che gli si era avvicinato.

“Credete davvero di potermi battere?” chiese. “Io sono Ravin, Re dei Tre Regni e vostro legittimo sovrano. Inginocchiatevi o morirete.”

Mise tutte le sue forze in quel suo comando vocale e vide gli uomini impallidire mentre capivano l’enormità di chi avevano davanti. Il coltello di uno sferragliò a terra, ma l’altro fu più lento. La pazienza abbandonò Ravin, che conficcò la spada nel petto del secondo uomo, ignorando le urla delle donne intorno a lui. Gli diede poi un calcio per mandarlo all’indietro e spinse il tavolo a rimetterlo in piedi. Prese una sedia, la sistemò davanti al tavolo e vi poggiò sopra la sua spada ancora insanguinata.

Guardò quei suoi uomini che lo avevano seguito. “Io starò qui. Fate il vostro dovere.”

Si misero in marcia e solo una coppia di loro restò a fargli da guardia del corpo. Ravin se ne stava seduto lì, osservando quelli che erano rimasti nella stanza. Ora erano tutti in ginocchio e lo guardavano con evidente terrore.

“Uno di voi, mi porti del vino,” ordinò. “Il resto di voi dia per scontato un semplice fatto: tutto ciò che pensavate fosse vostro adesso è mio, i vostri soldi, le vostre proprietà, voi stessi. Questa città, questo intero regno… è tutto mio.”

O lo sarebbe diventato, non appena l’incantesimo del mago fosse svanito.

CAPITOLO SECONDO

La grande sala del castello era un alveare di attività; le sue piazze di moquette erano invase da persone che correvano avanti e indietro per qualsiasi compito potessero svolgere e le alte mura di pietra rimbombavano delle loro conversazioni mentre cercavano di capire cosa dovessero fare dopo.

In quel senso, ricordava a Lenore il brusio delle attività nelle settimane precedenti il suo matrimonio, quando il castello brulicava per i festeggiamenti, ma ora non c’era più nulla di leggero o gioioso. Al contrario, alcuni striscioni intorno alle mura erano stati tirati giù, mentre i nobili stavano discutendo se dovessero essere tagliati per ricavarne delle bende portafortuna; nel frattempo, il trono giaceva vuoto, perché di Vars non si vedeva neanche l’ombra e colui che avrebbe dovuto esservi sopra era morto.

Quel solo pensiero riempì Lenore di dolore, ma dovette fingere di essere calma, perché era la colonna portante attorno alla quale tutti gravitavano. Avevano bisogno di qualcuno che avesse il controllo e un certo equilibrio, e che pensasse mentre loro volevano solo agire; era necessaria una principessa e questo significava che Lenore stava recitando la parte per cui si era esercitata per tutta la vita.

“No,” disse, “non barricate solo la porta esterna della grande sala; voglio che i pezzi vengano inchiodati sul posto.”

“Ma dove troviamo i chiodi?” chiese un nobile. A Lenore non piacque il fatto che si rivolgesse a lei per ricevere istruzioni, quando solo un giorno o due prima l’avrebbe vista come una bella ma inutile statuetta.

“Non lo so. Setaccia i negozi del castello se devi,” replicò Lenore. “Vai.”

L’uomo si mise in marcia senza fare domande. Molti dei presenti agivano senza mettere in discussione le sue istruzioni. Lenore sospettava che molto avesse a che fare con chi era: la sorella del nuovo re e la moglie del figlio del Duca Viris. Forse qualcosa aveva anche a che fare con le persone che volevano semplicemente che qualcuno dicesse loro cosa fare, adesso che c’era una crisi.

Lenore si ritrovò a desiderare che ci fosse qualcuno che lo dicesse anche a lei.

In quel momento era spaventata come non lo era mai stata in vita sua. C’era un esercito in città, composto da persone come quelle che l’avevano rapita. I Cavalieri dello Sperone se n’erano andati, così come la maggior parte dei soldati. Come potevano resistere a tutto ciò? Se il castello fosse caduto, cosa sarebbe successo? Sarebbero stati uccisi tutti quelli che vi si trovavano dentro?

Quella non era nemmeno la cosa peggiore che Lenore potesse immaginare, visti gli orrori che erano accaduti ad alcune delle sue domestiche durante il rapimento. Aveva assistito a una sola battaglia ed era stata abbastanza terrificante, ma come sarebbe stato ritrovarsi davanti a un’intera orda di soldati fuori controllo che si abbatte sul castello?

Poi c’era Re Ravin, l’uomo che aveva ordinato il suo rapimento, l’uomo responsabile della morte di suo fratello e di suo padre. Lenore aveva sentito delle storie sulla sua crudeltà e ognuna era più nauseante dell’altra. Il solo pensiero di lui le mandava brividi di terrore giù per la spina dorsale.

“Vostra Altezza,” disse un domestico. “Volete che le armi vengano portate qui dall’armeria?”

Lenore rifletté sulle sue potenziali truppe. C’erano domestici che probabilmente non avevano mai neanche impugnato una spada in vita loro. C’era una manciata di nobili, molti dei quali erano anziani e apparivano spaventati quanto Lenore. Nonostante ciò, era forse meglio cercare quantomeno di opporre resistenza. Anche morire in fretta, poteva essere meglio delle alternative.

“Recupera tutto il possibile per armare le persone,” rispose lei e indicò un altro domestico. “Vai con lui.”

“Sì, Vostra Altezza,” ribatté l’uomo.

Lenore continuò a organizzare quante più difese possibili per il castello, rivolgendosi a nobili e domestici a turno. “Tu, prendi quanti te ne occorrono e vai nelle cucine a cercare quanto più olio possibile. Portatelo alla porta, iniziate a riscaldarlo e approntatevi a versarlo. Tu, chiudi i cancelli e abbassa la saracinesca.”

“E i nostri che sono fuori in città?” domandò l’uomo.

A Lenore si spezzò il cuore a quella domanda e alla risposta che non voleva dire. “Loro… con l’alta marea non alcuna possibilità di tornare indietro. Se li vediamo tornare, possiamo… possiamo lanciare delle corde.”

Non disse quali fossero le probabilità di un loro ritorno; non ci avrebbe pensato, perché Erin e quello strano monaco erano ancora là fuori a combattere il nemico. Forse, però, erano più al sicuro là fuori che al castello, perché significava che avrebbero avuto la possibilità di nascondersi e scappare quando sarebbe arrivato il momento. Non che Erin sarebbe mai scappata di sua volontà, ma forse Odd l’avrebbe costretta a farlo.

Lenore si guardò intorno, consapevole che lei e gli altri lì non avrebbero avuto la possibilità di scappare. La loro unica speranza era cercare di mantenere il controllo del castello, ma la verità era che erano troppo pochi per farlo. Poteva dare una lancia a ciascun domestico e insistere affinché i nobili si schierassero sulle mura per cercare di respingere l’imminente marea di nemici, ma non sarebbe bastato. I compiti che assegnava alle persone erano più finalizzati a farle sentire utili in un momento come quello, che non dovuti al fatto che pensava davvero che sarebbe servito a qualcosa opporre resistenza quando fosse arrivato l’esercito di Re Ravin.

Forse avrebbe potuto farci qualcosa se avesse saputo di più sulla strategia. Attualmente, tutto ciò che aveva ordinato, era un frammento di ricordo che richiamava solo per metà, perché Erin aveva insistito affinché giocassero insieme a difendere il posto da nemici immaginari quando erano piccole, o perché Rodry o il loro padre avevano raccontato storie di come avevano combattuto contro l’uno o l’altro nemico. Alcune di quelle cose le erano sembrate ovvie, ma molte non lo erano affatto.

Desiderò per quella che sembrava la centesima volta che vi fosse qualcun altro lì al suo posto e che prendesse in mano la situazione. Vars avrebbe dovuto essere re ora, ma non era lì a comandare. Rodry e suo padre erano entrambi morti, morti proprio nel momento in cui tutti avevano più bisogno delle loro capacità di guerra. Erin era fuori in città, a dare il massimo nel luogo dove poteva essere più utile. Nonostante Lenore ne capisse il senso e sapesse che con così poche truppe, colpire e correre in città era meglio che aspettare al castello, desiderava che sua sorella fosse lì accanto a lei.

Si ritrovò persino a desiderare che vi fosse Finnal, anche se Lenore non sapeva cosa pensare di suo marito. Era l’uomo buono che a volte sembrava o era crudele come lo dipingevano gli altri? Nel racconto di un bardo, questo sarebbe stato il momento in cui sarebbe arrivato di corsa per assumere il comando di tutto e dimostrare a Lenore quanto la amasse. Invece, non c’era nessuna traccia di lui. Forse era fuori a fare la sua parte nella difesa della città?

Ancora più di Finnal, però, Lenore si ritrovò a desiderare che vi fosse Devin. Era intelligente e gentile, e ogni volta che pensava a lui si sentiva… si sentiva al sicuro. Forse se fosse stato lì, avrebbe usato un qualche trucco che aveva appreso dal Maestro Grey, qualche strategia per tenere tutti al sicuro. Ancor più di quella di suo marito, Lenore si sorprese a desiderare la sua presenza. Forse era un bene che lui non fosse lì, però. Forse stava meglio in giro per il mondo, a intraprendere qualsiasi strano compito lo stregone gli avesse assegnato. Forse lì sarebbe stato più al sicuro. Sicuramente più al sicuro di quanto Lenore fosse al castello.

Stava ancora riflettendo su questo, quando sua madre entrò a grandi falcate nella stanza. Fu proprio il suo passo lungo ad attirare la sua attenzione per primo; da così tanti giorni, la Regina Aethe aveva camminato come una sagoma gobba e rotta. Ora, nonostante indossasse ancora il nero da lutto, camminava verso il centro della sala con l’autorità di un generale.

“Chi è al comando qui dentro?” chiese e tutti gli occhi guardarono Lenore.

“Penso… penso di esservi io, Madre,” rispose Lenore.

Sua madre le mise una mano sulla spalla. “Allora non dovresti farlo da sola. Tu,” si rivolse a un nobile e lo indicò. “Perché te ne stai lì impalato? Trova qualcosa di utile da fare, anche se si tratta solo di tagliare quegli striscioni per fare delle bende.”

Ovviamente aveva compreso ciò che Lenore aveva in mente per loro, anche se non era stata presente a quella discussione.

“Ma gli striscioni,” disse l’uomo. “Portano lo stemma reale.”

“Credi che a mio marito interessassero di più gli striscioni o le persone?” scattò in risposta Aethe. “Sono la moglie di un re e la matrigna di un altro. Se un uomo muore dissanguato perché non abbiamo abbastanza bende, ti riterrò responsabile.”

Il nobile si affrettò a svolgere il suo compito, mentre Lenore non riusciva a distogliere lo sguardo da sua madre.

“Sono ore che cerco di convincerli a farlo,” disse Lenore.

“Sì, beh, loro sono più abituati a vedere me che faccio la dura,” replicò la regina Aethe e guardò sua figlia negli occhi. “Come sono stata dura con te riguardo a Finnal. Una madre dovrebbe essere presente per sua figlia e non solo quando fa quello che reputa giusto.”

Dopo il modo in cui le aveva parlato l’ultima volta, quando non l’aveva ascoltata e le aveva schiaffato in faccia il suo lutto, come se le difficoltà di Lenore non avessero importanza alcuna di fronte a esso, questa era l’ultima cosa che la principessa si aspettava di sentirle dire.

“Grazie,” affermò, coprendo la mano della madre con la sua.

“Non devi ringraziarmi per essermi comportata come dovrebbe fare una madre,” disse. “Avevi ragione quando mi hai detto che c’era dell’altro al mondo oltre al mio dolore.”

“Mi dispiace,” replicò Lenore. “Sono stata dura a dirlo. Anche a me manca molto, Papà.”

“Lo so,” ribatté la Regina Aethe. “Ma avevi ragione. Ci sono cose più grandi. Il suo regno, il nostro regno, è in pericolo ed io non resterò a guardare. Farò tutto il necessario per proteggerlo, e uguale farai tu. Qualsiasi cosa sia necessaria.”

CAPITOLO TERZO

Erin era inginocchiata in cima a un muro pronta a scattare, mentre guardava con repulsione tre soldati di Re Ravin passare lì sotto. Nell’oscurità del primo mattino, non potevano vederla e, probabilmente, era meglio così. Erin non si era mai preoccupata molto del suo aspetto; portava da sempre i capelli scuri tagliati corti, per evitare che le oscurassero la vista, e quando possibile indossava tuniche e brache invece che abiti femminili. Adesso, però, sembrava un mostro.

Non era solo per il sangue che copriva la sua armatura o per le ammaccature dove i nemici avevano affondato i colpi. Si era anche ricoperta l’armatura e il volto di polvere, per confondersi meglio nel buio. Oltre a ciò, però, si trattava anche di tutto quello che provava. Odd poteva passare tutto il suo tempo a cercare di insegnarle a combattere con serenità, ma in quel momento tutto ciò che Erin poteva sentire era rabbia verso gli uomini che avevano invaso la sua casa.

Saltò giù dal muro, gridando quell’ira mentre guidava la sua lancia, facendola precipitare nel primo soldato di quel trio. Altro sangue si unì alla patina che già le tingeva l’armatura, schizzando mentre impalava il suo nemico. Colpì forte il terreno e rotolò a tornare in piedi, abbandonando per il momento la lancia a favore di un lungo coltello che afferrò stretto con una mano.

I due soldati rimasti si stavano già girando verso di lei ma, presi dallo shock dell’attacco, erano lenti; Erin era già vicina al secondo e cominciò a pugnalarlo con entrambe le lame corte, troppo vicina perché lui potesse brandire la spada.

Tenne l’uomo morente tra lei e il terzo, usandolo come scudo per bloccare il colpo di un’ascia. Lasciò cadere il suo nemico già morto, trascinandogli dietro l’ascia del suo compagno, e notò che quest’ultimo uomo aveva avvolto l’arma intorno al polso con un pezzo di corda per non farla cadere nel mezzo della battaglia. Significava che era piegato ed esposto mentre Erin scattava all’attacco, affondandogli il suo coltello nella parte laterale del collo.

Quanti erano ora? Al calare della sera, Erin aveva cercato di tenere il conto del numero e aveva persino provato a fare un gioco con gli uomini che la seguivano. Adesso, però, aveva perso il conto; erano semplicemente troppi perché potesse tenerlo.

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