La Vicina Perfetta - Блейк Пирс 7 стр.


Jessie si avvicinò a un giovane agente dal volto spaventato e mostrò il proprio cartellino, immaginando che fosse il modo più semplice per passare la barriera.

“Lavoro con il detective Hernandez,” disse in modo vago. “Puoi dirmi dove si trova?”

“È di sopra,” disse l’agente. Anche se non l’aveva mai incontrato, Jessie ebbe l’impressione che il giovane fosse piuttosto scosso. Guardò il suo cartellino identificativo.

“Tutto bene, agente… Timms?”

“Si, signora,” le assicurò lui, ricomponendosi. “È solo che avevo conosciuto la vittima. Mi piaceva. E poi sono stato io a trovarlo.”

“Capisco,” disse Jessie, dandogli una pacca amichevole sulla spalla. “Non è mai facile quando c’è un collegamento personale.”

“No, signora,” disse lui, sollevando il nastro di delimitazione per farla passare sotto.

“Come ti è capitato di trovare la vittima così a notte fonda?”

Si rese conto che la domanda suonava accusatoria, anche se non aveva voluto porla con quell’intenzione.

“Avrebbe dovuto restituire le chiavi dopo qualche ora. Non vedendolo tornare, sono venuto a dare un’occhiata e…” Cedette, sopraffatto dall’emozione.

Jessie avrebbe voluto chiedere perché qualcuno avrebbe dovuto restituire una chiave alla polizia così a notte fonda, ma capiva che il ragazzo non era nella condizione di risponderle, quindi lasciò perdere.

“Grazie per il tuo aiuto, agente,” gli disse. Incapace di pensare a nient’altro da dire per confortarlo, si girò e si diresse verso la casa.

Mostrò il proprio cartellino anche all’agente che stava di guardia alla porta. Lui si fece da parte per farla entrare. Jessie guardò il pavimento del foyer e vide il contorno tracciato con il gesso dove si era trovata presumibilmente la prima vittima. Sollevò poi lo sguardo verso la sommità delle scale, da dove sentiva provenire diverse voci. Una di esse sembrava quella di Ryan.

Iniziò a salire le scale, quando un altro agente che si trovava alla base delle stesse e che sembrava essere un sergente alzò una mano. Diversamente dall’agente Timms, questo sembrava più anziano ed esperto.

“Posso aiutarla, signora?” chiese con gentilezza ma allo stesso tempo con tono duro.

“Lavoro con il detective Hernandez,” disse Jessie, mostrando per la terza volta le proprie credenziali.

“Gli faccio sapere che è qui,” disse il sergente, il cui cartellino diceva ‘Breem’, senza però spostarsi.

“Sento la sua voce,” disse Jessie con tono più irritato di quanto avrebbe voluto. “Posso farglielo sapere io quando arrivo di sopra.”

“Mi spiace, signora. Il detective Hernandez è stato chiaro quando ha ordinato che nessuno deve salire senza la sua esplicita autorizzazione. Vuole che le cose siano fatte in modo estremamente meticoloso in questo caso.”

“Fa così con tutti i casi,” rispose Jessie con vigore.” Cos’è che rende diverso questo?”

L’agente la guardò perplesso. Aprì la bocca per risponderle, ma prima che potesse parlare, una voce familiare la chiamò dal piano superiore.

“Jessie?” disse Ryan guardando dal pianerottolo. “Cosa ci fai qui?”

Lei alzò lo sguardo e capì immediatamente che era turbato da qualcosa che non era per niente connesso alla sua presenza lì. Mentre lo fissava, un senso di timore iniziò a pervaderla. Scattò su per le scale prima che il sergente Breem potesse fermarla. L’uomo fece per seguirla, ma vide Hernandez scuotere la testa.

“Va tutto bene, sergente,” gli disse.

“Cosa sta succedendo, Ryan?” chiese Jessie sottovoce, quando lo ebbe raggiunto in cima alle scale.

“Devo parlarti privatamente fuori di qui,” sussurrò lui.

“No. Cosa sta succedendo? Dov’è Garland?” chiese, passando oltre e guardando dentro alla camera da letto.

Sbatté le palpebre lentamente, sperando che ciò che stava vedendo sul pavimento della stanza fosse un’illusione. Ma quando riaprì gli occhi, era ancora lì. Tra il medico legale e un tecnico addetto alla scena del crimine, era steso Garland Moses. Morto.

CAPITOLO NOVE

Jessie si sentì stringere il petto e scoprì di non riuscire a respirare.

Cercò di parlare, ma dalla sua bocca uscì solo un roco sbuffo. Deglutì a fatica, cercando di lubrificare la gola improvvisamente asciutta. Allungò la mano per appoggiarsi al parapetto mentre strizzava gli occhi guardando Ryan, chiedendosi se questo potesse in qualche modo cambiare le cose.

“Mi spiace,” le disse, allungando le braccia verso di lei.

Jessie scosse la testa violentemente e lui si fermò.

“Cosa?” gli chiese con tono assente, anche se l’aveva sentito benissimo.

“Vieni con me,” le disse lui, prendendola per un braccio e guidandola fino a un balcone alla fine del corridoio.

Si voltò a guardarla e aprì la bocca, ma non successe niente. Richiuse la bocca, apparentemente in difficoltà su come cominciare. Poi riprovò.

“Pare che ieri sera sia tornato qui per controllare una pista. Da quello che abbiamo trovato fino ad ora, sembra che sia stato aggredito nella camera matrimoniale. C’è stata chiaramente una colluttazione. È stato ucciso, strangolato a morte.”

Jessie sentiva che la sua mente vorticava, fuori controllo, e tentò di imbrigliarla. Parte del suo cervello stava già facendo domande sulla scena del crimine. Ma, furiosa con se stessa, lo zittì di forza, strizzando gli occhi come se fossero collegati a una sorta di interruttore interno.

Garland era morto. Il profiler criminale così leggendario che lei stessa era stata inizialmente timorosa di avvicinare. L’uomo che alla fine era diventato per lei un mentore, e poi un amico a cui affidava i suoi segreti più oscuri, non l’avrebbe più presa in giro, né messa alla prova, né sostenuta. Se n’era andato.

Jessie sentì un’ondata di dolore pervaderla mentre in lontananza udiva il rumore delle onde vere e proprie. Era come se l’oceano conoscesse il suo dolore e avesse deciso di offrirle una colonna sonora. Si chinò all’altezza della vita e ordinò a se stessa di fare diversi respiri profondi prima di tentare di nuovo di parlare.

Quando le parve di aver riconquistato una certa misura di controllo sul proprio corpo, si rialzò. Ryan la stava studiando con espressione preoccupata.

“Sto bene,” gli disse, anche se non era certa che fosse vero. “Portami sulla scena.”

Ryan la fissò come se fosse pazza.

“Non posso farlo,” le disse incredulo. “Non sei nella condizione per analizzare una scena del crimine in questo momento.”

“Tu invece sì?” gli chiese, sentendo un improvviso e inappropriato livello di rabbia salirle dalle viscere. “Lo conoscevi anche tu.”

“Sì,” le concesse Ryan. “Lo conoscevo e mi piaceva. Ma non gli ero per niente vicino e affezionato quanto te. E comunque è stato brutale per me. A dire il vero ho chiamato Trembley perché mi desse una mano, perché io stavo facendo fatica.”

“È là dentro adesso?” chiese Jessie. Alan Trembley era il detective junior della squadra HSS alla Stazione Centrale. Nonostante la giovane età, aveva dimostrato di essere un agente energico e capace.

“Sì, e sta facendo un ottimo lavoro. Gli vado a dire di occuparsene in modo da poterti portare a casa.”

“No,” ribatté Jessie. “Non voglio che ti sfugga qualcosa di importante perché non eri qui.”

“Jessie. È tutto sotto stretto controllo là dentro. Non stiamo usando la Polizia di Manhattan Beach per questa indagine. Gli agenti là dentro con Trembley sono dei nostri. Il medico legale e i tecnici della scena del crimine sono i nostri. Il capitano ha insistito che usassimo tutte le nostre risorse, e da Manhattan Beach non è arrivata nessuna obiezione. Stanno facendo foto, girando video. Tutto quello che si può fare, lo stanno facendo. Lascia che ti porti a casa. Chiederò a qualcuno di occuparsi della tua auto. Fidati di me. Non ci vuoi andare, là dentro.”

Jessie guardò oltre la spalla di Ryan, in direzione della spiaggia in lontananza. La nebbia stava iniziando ad alzarsi. Ancora non si vedeva l’acqua, ma si scorgevano le sagome di diverse persone che camminavano sulla spiaggia.

Chi mai va a farsi una passeggiata sulla spiaggia a quest’ora?

Scosse la testa, frustrata con se stessa.

Che differenza fa adesso? Concentrati!

“Ok,” rispose alla fine. “Ma prima andiamo là sotto.”

Ryan guardò nella direzione che stava indicando e annuì.

“Aspetta solo un minuto,” le disse. “Voglio prima far sapere a Trembley quello che sta succedendo.”

“Vai,” disse Jessie distrattamente. “Ci vediamo sulla sabbia.”

Ryan la accompagnò giù dalle scale e poi tornò di sopra. Jessie uscì dalla porta e trovò una serie di gradini che conducevano dalla Strand alla pista ciclabile e poi, più sotto, alla spiaggia. Si levò le scarpe e le tenne con le punte delle dita infilate nei talloni mentre camminava verso l’acqua.

Anche se era appena iniziata l’estate, a quest’ora la sabbia era ancora fresca mentre si spostava sotto ai suoi piedi e le si infilava tra le dita. Jessie camminò lentamente in modo da mantenere l’equilibrio, seguendo il suono delle onde più di qualsiasi traccia visiva. Quando fu più vicina alla battigia, le apparve davanti agli occhi una delle vecchie stazioni in legno blu della guardia costiera.

Passò oltre e notò che la sabbia qui era più dura e impaccata. Ancora qualche passo e sentì il bagnato sotto ai piedi, dove la marea era recentemente arrivata. Ora l’acqua si vedeva. Jessie guardò le onde che ricadevano una sull’altra, creando delle increspature che formavano una schiuma bianca che le lambiva le punte dei piedi. Si sedette dove non poteva essere raggiunta dall’acqua e osservò.

Dopo un po’ – non era sicura di quanto tempo fosse passato – Ryan arrivò e le si sedette accanto. Non disse niente e anche lei non parlò. Gli tese una mano e lui la strinse. Si piegò verso di lui e si appoggiò alla sua spalla. Pensò che forse il rumore delle onde stava coprendo quello dei suoi singhiozzi. Ma non ne era certa, e poi non le interessava.

*

Guardò fino al sorgere del sole.

All’inizio gli fu difficile, data la nebbia e il fatto che era distante di diversi isolati. Ma dopo aver trovato un binocolo nella camera matrimoniale, riuscì ad andare sul tetto e tenere d’occhio tutto il viavai a sei isolati di distanza lungo la Strand, dove tutto era successo.

Si sentiva stranamente eccitato dall’accaduto. C’era una certa soddisfazione nel sapere che lui era il motivo per cui il fronte della spiaggia era stato nelle ultime due notti una sinfonia di sirene. Non lo capiva pienamente. La prima notte aveva senso. Ma la reazione della polizia nel mezzo della notte scorsa sembrava ancora più intensa del giorno precedente. Forse gli era sfuggito qualcosa.

Alla fine, mentre il sole sorgeva oltre le colline a est, si ritirò nella casa che si era preso per questo periodo. Voleva dormire, ma era difficile con tutta quell’eccitazione. La sua mente continuava a tornare a quello che aveva fatto, a quello che aveva portato via.

Non aveva mai voluto uccidere quella donna. Dopotutto lui si stava facendo gli affari suoi nella casa dei Bloom, quella che loro avevano sempre lasciato vuota per settimane durante l’estate. Non stava dando fastidio a nessuno.

Ma poi quell’impicciona della porta accanto, con il suo corpo di plastica e il sorriso ancora più finto, si era presentata lì. Aveva pensato che dopo un po’ se ne sarebbe andata, e invece era entrata in casa, commettendo il suo stesso crimine. Aveva sperato che se ne andasse lasciandolo alla sua vita. Ma niente. Doveva fare la curiosa e farsi un tour della villa. Se solo avesse tenuto fuori il naso, probabilmente ora sarebbe stata ancora viva.

Ma quando l’aveva visto, lui non aveva avuto altra scelta. Avrebbe probabilmente dato alla polizia un suo identikit e poi lui si sarebbe davvero trovato in una situazione disperata. Quindi aveva dovuto fermarla, aveva dovuto metterla a tacere. Non poteva permetterle di portargli via lo stile di vita che si stava concedendo, anche se era solo temporaneo.

L’aveva strangolata. Inizialmente era stata l’adrenalina a guidarlo, quando l’aveva sbattuta contro la porta e poi le aveva avvolto la calza attorno al collo. C’era stato un momento, quando lei stava davvero lottando dimenandosi, che lui ci aveva brevemente ripensato. Magari poteva farle semplicemente perdere conoscenza e poi scappare, rifugiarsi in un posto completamente diverso.

Ma poi la vecchia furia si era impossessata della sua testa. Perché doveva andarsene lui

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