Beh, lo stavo per scoprire.
Sette
Peacock Flower Resort, St. Marcos, Isole Vergini americane
18 agosto 2012
“Non riesco a credere che tu stia mollando tutto per aiutarmi,” dissi.
Ava aveva ingabbiato le sue curve in un bikini e una minigonna di jeans azzurra, entrambi miei, e si era messa una delle mie camicette facendo un nodo sopra l’ombelico. Rimase scalza.
“La migliore offerta del giorno,” disse. “Sono appena tornata sull’isola, sei mesi fa. Faccio la ballerina/cantante/attrice/morta di fame a New York, ma i miei genitori stanno invecchiando e, beh, non posso allontanarmi da St. Marcos per sempre. Ce l’ho nel sangue.” Prese in mano il telefono, si mise a cercare qualcosa fino a trovarla, poi me lo passò. Aveva aperto una sua fotografia, dove si trovava tra un uomo bianco molto più vecchio di lei e una donna dalla pelle scura, con un’età compresa fra quella di Ava e del marito. “I miei genitori,” spiegò. “Quindi capisco perché sei qui. Se qualcosa succedesse a mamma o papà, farei lo stesso.”
Evidentemente, le avevo detto tutto la sera prima.
“Siete molto belli,” dissi. “Sei l’esatta combinazione fra i due.” E le restituii il telefono.
Lo era. Ava trasudava sensualità, con la sua pelle cappuccino e i suoi ricci scuri poteva passare per ogni etnia. Italiana, egiziana, messicana, o tutte insieme. Una bella combinazione.
Tirò fuori un rossetto dalla sua minuscola borsetta e si diresse al bagno, continuando a parlare. “Yah, sono fantastici. Comunque, sono a casa, ma non c’è molto lavoro sull’isola per una laureata all’Università di New York con una specializzazione in musical di Broadway e nessun’altro tipo di competenze professionali.”
Alzai la voce per farmi sentire dall’altra stanza. “Ti capisco. Ho seguito un corso di musica all’università, prima di rinsavire. Tre anni spesi a farmi dire quanti pochi soldi avrei guadagnato come cantante.”
“Sai cantare? Amica, perché non me l’hai detto ieri sera? Avrei potuto farti salire sul palco.”
“Assolutamente no,” dissi, ridendo. “È passata una vita.”
“Non vuol dire nulla. Beh, comunque, sono contenta che tu sia qui. Questo è molto meglio che guardare Oprah con mia mamma.” Ava tornò in camera da letto e si mise a studiarmi, con un dito sulle labbra. “Il fatto è, penso tu sia una tipa a posto.”
Mi piaceva, anche se eravamo agli antipodi. E adoravo ascoltarla parlare, e stavo anche iniziando a capire meglio il suo dialetto. Yah era “sì” e Yah mon poteva essere “sì” o “nessun problema”, ad esempio. Non era poi così difficile.
Le dissi, “Beh, di nuovo, grazie dell’aiuto.”
Ava mise il piede vicino al mio e alzò la testa. “Mi serve un paio di scarpe. Le uniche che ho sono quei tacchi da rimorchio che avevo messo ieri sera. Ho i piedi abbastanza grandi, che ne pensi se proviamo il paio più piccolo che hai?”
Fui un attimo turbata da questa dichiarazione, data l’educazione impartitami dalla mia maestra d’asilo/madre, ma il commento sui miei piedi non mi offese. Ero dieci centimetri più alta di lei. “Cosa ne dici di queste?” chiesi, lanciandole dei sandali infradito della Reef che erano mezza taglia più piccoli di quanto avrei dovuto comprarli.
Vi infilò il piede dentro e si mise in posa come in un negozio di scarpe. “Cosa ne pensi?”
“Penso che la tua roba stia meglio a te che a me, e che dobbiamo sbrigarci, altrimenti inizierò a odiarti per questo.”
Rise e mi posò un braccio sulle spalle. “Yah, o io ti odierò per fare sembrare il mio bana ancor più grande di quanto già non sia,” disse, sculacciandosi il sedere con l’altra mano. “Dai, andiamo.”
Ava tolse il braccio dalla mia spalla. Si mise i miei occhiali da sole, prese la mia borsa dalla scrivania e mi infilò i piedi dentro ai sandali di Betsey Johnson che per fortuna erano troppo grandi per la mia nuova amica. Ava uscì dopo di me. Camminavo a passo sostenuto per i marciapiedi, alimentata dalla splendida mattina, per raggiungere l’auto a noleggio che il portiere aveva fatto recapitare qui per me.
“Rallenta e rilassati un po’, Katie. Stai andando troppo veloce per i ritmi dell’isola,” disse Ava dietro di me.
Aprii la portiera dell’adorabile Chevrolet Malibu verde. “Rilassarmi, ci posso riuscire. Fatto.”
Lungo il tragitto, Ava mi istruì sui convenevoli dell’isola, sottolineando quanto fosse importante integrarmi per la riuscita della mia missione.
“Non dire ciao. Dì buongiorno, buon pomeriggio, e buona sera. Lo dici quando entri in una stanza piena di gente, non alle singole persone. Non c’è bisogno di stabilire un contatto visivo. Dopo averlo detto, fai una lunga pausa, per dare la possibilità all’altra persona di rispondere e chiederti come state tu e la tua famiglia. Dopo, e solo dopo, puoi parlare di affari. Se non segui questo rituale, non otterrai mai nulla.”
“Sì, signora,” dissi, portando la mano alla fronte.
“Sono seria. Se fai le cose di fretta, parli velocemente e non dici le cose giuste, faranno finta di ascoltarti e anche se crederai che stia andando tutto bene, non sarà così.”
Tenni a freno la mia allegria. “Lo so che sei seria, e apprezzo il tuo aiuto.”
“Comunque, lascia che parli io.”
Non ero molto brava a lasciare che qualcuno parlasse per me, ma ci avrei provato.
Eravamo ormai nel centro della città e dovetti improvvisamente sterzare per evitare una limousine che stava uscendo da un parcheggio proprio davanti a noi. Mentre mi rimettevo a sinistra, sentii uno scricchiolio sotto una delle ruote. Suonai il clacson. Già era difficile guidare a sinistra, e adesso questo. Diedi uno sguardo allo specchietto retrovisore per leggere la targa. Una targa personalizzata. Ovviamente. Diceva, “BondsEnt”.
“Quello è il mio futuro marito,” disse Ava, indicando la limousine.
“Sul serio?”
“Nah, è solo abbastanza ricco da mantenermi.”
Un isolato più avanti, sentii un tum, tum, tum. Gomma a terra.
“Merda,” dissi, accostando.
“Domenica mattina,” disse Ava, come se in qualche modo spiegasse l’accaduto. Devo averla guardata con fare interrogativo, poiché aggiunse, “Vetri rotti delle feste in città.”
“Ah,” dissi. Una donna di molte parole.
“Non è un problema,” disse Ava, balzando fuori.
La seguii sul marciapiede. Scossando appena i capelli, una folla di uomini caraibici si fiondarono lì per darle una mano.
“Ah, mehson, i tuoi muscoli stanno facendo un ottimo lavoro.” Lusingò i suoi aiutanti, chinandosi in avanti in modo da mostrare la scollatura.
“Posso mostrarti altri modi di usarli, se vuoi,” rispose.
“Lah, sei troppo per una ragazza come me. Le altre donne devono litigare per te giorno e notte.”
“Sei l’unica ragazza per me, Ava. Sai che se mi vuoi, io sono qua.”
Una volta finito di cambiare la ruota, Ava si liberò della folla senza troppi sforzi. Rientrammo in auto.
“Sei stata incredibile,” dissi.
Ava si limitò a sorridere.
Continuammo a guidare per il centro e i suoi edifici in stile danese. Predominavano pareti in stucco e archi di diversi colori e dimensioni. Praticamente tutte le altre costruzioni erano ridotte allo sfacelo. Ad alcune mancava il tetto. Colpa degli uragani, forse? Altre avevano appena una pila di macerie al posto dei muri. La gente del posto si ritrovava a piccoli gruppi agli angoli delle strade. Più spesso di quanto mi aspettassi, sorpassammo dei senzatetto sgangherati che spingevano carrelli pieni di oggetti di fortuna. I turisti, in maglietta e pantaloncini, si facevano strada tra i locali con le loro straripanti buste della spesa e coni gelato tra le mani.
Presto, però, superammo il centro. Ai margini della città, arrivammo ad un edificio in stile danese a due piani, color carta da zucchero. Quartier generale della Polizia. Entrammo nel parcheggio e uscimmo dall’auto.
Era ora di fare la cosa giusta, per mamma e papà.
Otto
Taino, St. Marcos, Isole Vergini americane
18 agosto 2012
Ava si era accordata per vedersi con il suo amico alle 11:30 in punto. Entrammo nel vecchio edificio che fungeva da Stazione di Polizia con quindici minuti di ritardo, che Ava commentò essere “quasi in anticipo”. Ava, con il suo fare semplice e sexy, ed io, che cercavo di trattenermi dall’essere sempre di corsa, sfoggiando un ridicolo stile virgineo in confronto a lei, con il mio prendisole bianco. Tolsi gli occhiali da sole e li ficcai nella custodia, in borsa.
“Buongiorno,” annunciai, entrando nella stazione. Un coro di “buongiorno” si propagò per la stanza in risposta. Quasi mi misi a ridere. Ava si girò per guardare se la stessi prendendo in giro, poi si complimentò con me con un cenno del capo.
“Buongiorno. Siamo qui per incontrare Jacoby,” disse all’impiegata seduta alla scrivania dietro al front desk, interrompendo il suo dolce far niente.
Ava fu immediatamente circondata da agenti che offrivano il proprio aiuto, da chi diceva di conoscere Jacoby, di essere Jacoby, di essere più uomo di quanto Jacoby sarebbe mai stato. Affollarono la reception al primo piano, una stanzetta che probabilmente, cent’anni prima, era stata il salotto di qualcuno. Adesso era arredata con sedie pieghevoli e un tavolino da caffè in laminato, ricoperto da riviste e giornali piuttosto consumati. Ne presi uno, mentre Ava teneva a bada gli ammiratori, e lessi oziosamente dell’acquisizione di una compagnia telefonica locale da parte di un magnate dell’isola. Il suo nome era Bonds. Gregory Bonds. Risi tra me e me della mia stupida battuta. Ah, sì, doveva trattarsi del futuro marito di Ava, il ragazzo con un pessimo autista. Lo rimisi a posto, non sopportando più il servilismo del giornalista.
Quando il vero Jacoby si fece avanti, rimasi scioccata. Era una specie di Shrek nero, non il dio color ebano dell’isola che mi ero immaginata al fianco della bellezza sensuale di Ava. Ava si lasciò scappare un urletto adolescenziale — un’altra grande sorpresa — e si lanciò su di lui a braccia aperte, con conseguenti mormorii e grugniti delusi, insieme ad alcuni suoni che sembravano come se qualcuno stesse succhiando la saliva attraverso i denti, da parte del pubblico maschile. Bleah. Gli altri agenti di polizia si dispersero, chi tornando in ufficio o ai piani superiori, la cui scala d’accesso si intravedeva oltre la reception.
“Katie, questo è Jacoby. Siamo inseparabili sin dai tempi dell’asilo. Jacoby, Katie.”
Mi porse la mano. “Darren Jacoby.”
Gliela strinsi. “Un piacere conoscerla, Agente Jacoby. Sono Katie Connell.”
Jacoby indicò una delle porte della stanza e ci spostammo. Aprendo la porta in legno massiccio, ci ritrovammo in una sala conferenze vuota, con spesse pareti in cemento. Costruita per resistere a Madre Natura. C’era un tavolo in metallo ripiegabile, e lo stesso tipo di sedie dell’ingresso. Di nuovo, immaginai come potesse essere stata questa stanza una volta. Una camera da letto, decisi. Ci sedemmo intorno al tavolo.
“Quindi, Ava, immagino di non aver sognato la tua chiamata sexy di ieri notte,” disse.
Se cercate un esempio perfetto di come la speranza sia l’ultima a morire, eccolo.
“Hai sognato che fosse sexy, ma sì, ti ho chiamato,” rispose. “Katie ha bisogno di aiuto. I suoi genitori sono morti a St. Marcos l’anno scorso, erano qui in vacanza.”
Distolse lo sguardo da Ava. “Mi dispiace, Signora Connell,” disse.
“Mi chiami Katie, per favore. Grazie.”
Mi fece segno di continuare a parlare.
Ava non mi aveva chiesto di lasciarla parlare? Decisi che non l’aveva detto seriamente e presi il controllo. “La Polizia ha detto a me e a mio fratello che i nostri genitori sono morti in un incidente stradale. Senza offesa per la Polizia di St. Marcos, ma, date le circostanze per come ce le hanno spiegate, sentivo che c’era qualcosa che non tornava. Non era da loro. Speravo di poter parlare con l’agente che si è occupato del caso e se possibile leggere il loro fascicolo. Appianare i miei dubbi, fare i conti con la situazione,” spiegai.
Strinse gli occhi. “Conosce il nome dell’agente di polizia?” chiese.
“No,” dissi. “Mi dispiace.” Collin l’avrebbe saputo. Avrei dovuto chiederglielo.
“Ha detto che il cognome è Connell?” chiese.
“Sì. Frank e Heather Connell.”
Senza dire altro, spinse indietro la sedia. Una delle gambe aveva perso il cuscinetto ed emise un rumore stridulo che mi ricordò di Shreveport, e di Nick. Jacoby lasciò la stanza.
“Che brusco,” dissi ad Ava.
“Tendono a serrare i ranghi, specialmente se non sei baan ya,” disse Ava. “Ecco perché ti ho detto ieri sera che sarei dovuta venire con te, e che avremmo dovuto lavorare con Jacoby, almeno il più possibile.”
Mi sorse un dubbio. “Spero non fosse lui l’agente che se ne occupò. In quel caso, l’ho appena accusato di aver fatto un casino.”
Ava rimase seduta con un sorriso da Gioconda sulle labbra. I secondi ticchettavano sull’orologio da muro dietro di lei. Passò un minuto, poi un altro, e poi un altro. Ava tirò fuori il telefono e iniziò a smaneggiare. Tolsi la mano dalla bocca, rendendomi conto troppo tardi che avevo strappato la cuticola dall’indice. Stava sanguinando.
Poi Jacoby fece ritorno, riempiendo la stanza con la sua barba ispida. Teneva un fascicolo sotto il braccio e un piccolo pezzo di carta in mano.
“Ho parlato con il mio capo, il vicecomandante Tutein. Ha detto di darle questo.” Si era americanizzato adesso, a scapito della parlata locale. Mi allungò il pezzo di carta, che aveva i buchi da un lato, rivelando di essere stato strappato da un quaderno.
Lessi le parole scritte a matita: Walker, King’s Cross n°32. “È il nome dell’agente?” chiesi.
“No, l’agente che si occupò del caso è annegato undici mesi fa,” disse Darren, con voce piatta. Non aggiunse altri dettagli, e io non feci domande.
“Mi dispiace. Cosa sa dirmi del fascicolo? Posso vederlo?”
Mi fissò. “È stato un semplice incidente stradale.” Si passò la mano sulla nuca. “Abbiamo un rapporto dell’accaduto. Le ho fatto una copia. Forse la scientifica sa qualcosa di più.”
Tirò fuori la cartella e la aprì. Una pagina. La presi in mano cautamente, il mio sguardo cadde sui nomi Frank Connell e Heather Connell. Lessi il resto velocemente, fino a quando non trovai il nome dell’agente che rispose alla chiamata. Scritto con chiarezza, leggeva Michael Jacoby. Firmato in piccolo e storto, diceva George Tutein. Jacoby. Ma non questo Jacoby, perché questo Jacoby — Darren — era più che vivo.
“Walker è un investigatore privato, l’unico di St. Marcos. Tutein dice che Walker ha dei buoni contatti sull’isola e che lavora per un paio delle aziende locali più importanti. Forse può aiutarla.” Jacoby iniziò a farsi da parte. “Ma i suoi genitori sono morti in un incidente stradale. Non sembra esserci molto altro che possa scoprire.”
“Quindi non c’è nessun altro qui con cui possa parlare?” Un fuoco di rabbia si accese dentro di me e iniziò a diffondersi.
“Solo Michael. Ed è morto.” Si girò verso Ava. “È stato bello rivederti.” Girò i tacchi e se ne andò.
Le mie guance e orecchie stavano andando a fuoco. Tutto questo scatenava un campanello d’allarme per me. Feci per parlare ma Ava si portò un dito alle labbra. Chiusi la bocca strinsi i denti. Indicò l’uscita con un cenno della testa e si alzò per andarsene, gridando a tutti i presenti, “Un buon pomeriggio a tutti voi.”
Un muro di afa mi aspettava alla porta, ma mi ci lanciai all’interno, alimentata dalla frustrazione. Due agenti di polizia ci passarono vicino ed entrarono nell’edificio, e adesso eravamo da sole. Strizzai gli occhi, scavando nella borsa in cerca degli occhiali da sole.
Consapevole della loro amicizia, smorzai un po’ la mia collera. “Ava, so che è tuo amico, ma non ti sembra che volesse mettermi a tacere? So che non sono di qui, ma qualcosa non torna.”