Russian Spy
Operazione Bruxelles
Roberto Borzellino
© Roberto Borzellino, 2022
ISBN 978-5-0055-9368-9
Created with Ridero smart publishing system
CAPITOLO PRIMO
San Pietroburgo
1
«Shaibu, shaibu», gridò Aleksej, mentre uno stridere di pattini sul ghiaccio faceva da sottofondo. Un colpo di mazza violento e il disco nero colpì rapido il suo bersaglio.
«Bravi!! Continuate così ancora più veloci pattinare e colpire forte».
«Aleksey possiamo fermarci un attimo siamo esausti» replicò Nikita completamente sudato sotto limbracatura da portiere di hockey. A guardarlo da lontano sembrava un marziano, con la maschera che gli copriva il viso ed i guantini troppo grandi per reggere il bastone. Doveva difendere la porta dagli attacchi ripetuti dei compagni di squadra, ma la sua mente era altrove, distratto comera dal gruppetto di splendide ragazze che osservavano da bordo pista.
«Ragazzi venite qui al centro della pista devo parlarvi» ordinò urlando Aleksej, intenzionato a farsi sentire da tutti i componenti della squadra, anche da quelli che erano più lontani. Tutti, allunisono, si misero a pattinare velocemente e formarono un cerchio intorno al loro capitano.
«Che sia chiaro per tutti ci restano solo poche settimane per il torneo di hockey interforze e da quello che vedo non siamo ancora pronti. Se i miei metodi di allenamento non vi vanno bene allora lamentatevi con il Generale Govorov. Ma sapete già come andrà a finire quindi niente storie e riprendete a pattinare alla svelta. Tu Nikita un rapporto da me al termine dellallenamento».
«Sì signor Maggiore» mentre Nikita mettendosi sugli attenti faceva il saluto militare.
Anche con la maschera si poteva notare il suo sorriso e la leggera ironia con cui aveva pronunciato quella frase. Sapeva che poteva contare sulla grande amicizia che lo legava ad Aleksej e non lo preoccupava più di tanto doversi presentare un rapporto dal suo superiore. Nikita spesso aveva abusato di questa sua posizione privilegiata. Arrivava quasi sempre in ritardo agli aggiudicati ed era il primo a lamentarsi ea sotto la doccia.
Aleksej l'aveva preso a ben voler fin dal suo arrivo in Accademia e si era preso cura di lui. Era il più piccolo del gruppo ma aveva un carattere eccezionale, sempre di buon umore e con la battuta pronta in ogni circostanza. Tra l'altro era anche un ottimo portiere e Aleksej lo spronava sempre a migliorarsi. Credeva in lui. Raccontava a tutti che se si fosse impegnato sul serio aveva la stoffa per diventare il migliore portiere che l'Accademia avesse mai avuto negli ultimi dieci anni.
«Bene così tutti a fare la doccia» disse il Generale Govorov soddisfatto per limpegno mostrato in allenamento dai suoi ragazzi.
Li aveva osservati per tutto il tempo dagli spalti del Palazzo del Ghiaccio di San Pietroburgo.
«Avete solo trenta minuti» proseguì con tono perentorio il Generale il nostro bus ci aspetta nel parcheggio e non ammetto nessun ritardo».
Prima di dirigersi verso luscita della struttura prese Nikita per un braccio: «Per oggi basta con gli scherzi o neanche il tuo capitano potrà salvarti da una punizione esemplare!!». Subito dopo lanciò un sorriso di complicità verso il suo sottoposto: il Maggiore Aleksej Robertovic Marinetto.
Il cognome di Aleksej tradiva le sue evidenze origini italiane. Aveva già compiuto 25 anni e fin da bambino era stato scelto per frequentare l'Accademia Militare per cadetti di Orenburg, negli Urali meridionali, a circa 1.200 chilometri da Mosca. Era un'accademia molto prestigiosa alla quale venivano ammessi solo figli e nipoti della nomenclatura russa. Aleksej poteva vantare tale diritto in quanto suo nonno era un generale in pensione. Al tempo della vecchia Unione Sovietica era stato un esponente di rilievo del disciolto KGB, il servizio segreto russo.
Aleksej aveva fatto carriera con rapidità sorprendente fino a raggiungere il grado di Maggiore dellesercito carriera con orgoglio ad amici e parenti. Da qualche anno era in pianta stabile presso lAccademia Militare di San Pietroburgo, dove ricopriva il ruolo di capitano e assistente allenatore della squadra di hockey della scuola. Il suo capo e mentore, il Generale Aleksandr Nikolaevic Govorov, era stato membro della «squadra degli invincibili», la compagine che per anni aveva stravinto i giochi invernali di hockey per lURSS. Solo una macchia indelebile aveva condizionato la sua incredibile carriera di hockeista, dalla quale non seppe più riprendersi e che segnò il suo ritiro dalle gare. Lo feriva ancora il ricordo di quei XIII Giochi Olimpici Invernali di Lake Placid (USA) dove la sua squadra fu battuta in semifinale dagli USA, allepoca formata solo da studenti universitari e dilettanti. Fu uno scacco incredibile per la «squadra degli invincibili». Alla fine riuscirono comunque a vincere la medaglia dargento ma per anni si parlò solo del «miracolo sul ghiaccio» da parte degli americani, con tanto di film hollywoodiani sul tema.
2
Lautobus era pronto sul piazzale, con il motore acceso, in attesa dellarrivo dei cadetti. Tutti furono puntuali e salirono con ordine per sedersi nei posti loro assegnati, seguiti dagli sguardi severi del Maggiore Alexej e del Generale Govorov. Lultimo ad arrivare fu Nikita che, come al solito, si prese uno scappellotto dal suo comandante. Fuori laria era ancora umida per la pioggia caduta incessantemente e tutti si misero ad osservare dai finestrini limminente tramonto del sole. Era uno spettacolo incredibile. La sfera arancione stava per arrendersi alle prime luci della sera e improvvisamente sparì con il suo bagliore dietro enormi palazzoni grigi. Govorov prese posto accanto al suo vice allenatore e dopo alcune parole di circostanza, sul morale della squadra e la preparazione atletica, improvvisamente si fece serio e cambiò tono alla conversazione.
«Aleksej domani mattina alle 9.00 devi presentarti dal Comandante, Generale Sherbakov, per comunicazioni urgenti che ti riguardano. Mi è stato detto di riferirti questo messaggio di persona perché non volevano che passassi per la solita trafila burocratica».
Il Maggiore rimase per un attimo pensieroso e poi tentò di azzardare una richiesta: «Generale» disse timidamente «posso farle una domanda personale?».
«Certamente», rispose Govorov, «chiedi pure».
«Da bambino il nonno mi raccontava che quando si ricevono messaggi di questo tipo alquanto insoliti allora cè da temere per la propria carriera o peggio per la propria vita».
Il Generale scoppiò in una fragorosa risata che mise in imbarazzo Aleksej.
«Maggiore può dire a suo nonno che i sistemi del KGB sono finiti ormai da tempo. Stia pur tranquillo al massimo sarà trasferito ad altro incarico forse addirittura a Mosca», replicò con tono pacato e sorridente. Il Generale sapeva molto di più di quello che diceva ma Aleksej non volle insistere; con la sua curiosità aveva già osato abbastanza. In fondo doveva aspettare solo poche ore per conoscere i particolari di quella strana convocazione avvenuta fuori dai canoni ufficiali.
In ogni caso un senso di agitazione lo assalì durante tutto il tragitto fino allAccademia, anche se cercò di mascherare il disagio mantenendo il suo solito contegno. Desiderava non insospettire gli altri commilitoni e voleva evitare qualunque tipo di domanda. Inoltre non era il tipo di uomo che si lasciava andare a facili confidenze, nemmeno con i suoi amici più stretti e fidati. Cenarono alla mensa degli ufficiali e Nikita, come al solito, non fu parco di scherzi e battute.
Qualcuno aveva portato la chitarra e tutti insieme invitarono Aleksej a suonare un brano italiano, di quelli che la mamma gli aveva insegnato quandera piccolo. «Sono un italiano sono un italiano» gridavano a squarciagola e il Maggiore, pur di calmare quella massa indisciplinata, prese la chitarra tra le mani e cominciò a strimpellare il motivetto che tutti chiedevano a gran voce. Dopo aver ascoltato le parole del Generale Govorov non era dellumore adatto, ma volle che la serata finisse nel modo previsto e non si tirò indietro.
Si alzò al termine di quella improvvisata «perfomance» e dopo essersi congedato dal gruppo, con passi decisi, si diresse verso il suo alloggio di servizio. Mentre la mente vagava in cerca di una spiegazione logica gli tornarono alla mente le parole del nonno Andrej. «Non fidarti dei militari non fidarti mai dei tuoi colleghi diffida di tutto e di tutti lasciati sempre una via duscita per quanto questa possa essere difficile e pericolosa».
Con un colpo secco chiuse dietro di sé la porta della stanza e, senza togliere luniforme, si sedette al centro del letto. Si sentiva veramente stanco, come se avesse perso tutte le energie, fisiche e mentali.
Delicatamente tirò fuori dal portafoglio alcune vecchie foto sbiadite: la prima mostrava suo nonno che, impettito nella divisa da generale, faceva bella mostra di tutte le medaglie che aveva meritato in tanti anni di onorato servizio presso il KGB. Era in pensione da diverso tempo e viveva in una bella casa vicino al centro di Mosca. Purtroppo da qualche anno era rimasto da solo. Lamata moglie Olga era morta prematuramente, colpita da un male incurabile che se lera portata via allimprovviso. Per il Generale Andrej Vladimirovic Halikov quella era stata la missione più dolorosa e difficile della sua vita, dalla quale ne era uscito sconfitto.
Aveva dovuto arrendersi allinevitabilità di quella perdita e si rammaricava di non essere riuscito a tener fede alla sua «promessa». Aveva giurato ad Olga che, una volta in pensione, avrebbero viaggiato insieme e fatto il giro del mondo. Lavrebbe portata in posti lontani e bellissimi, avrebbero visitato Madrid, Londra, Roma. In compagnia della moglie desiderava godersi in santa pace mostre, musei, parchi. Magari lavrebbe portata al teatro della Scala di Milano o al Louvre di Parigi.
Erano i luoghi dove Andrej aveva portato a termine con successo le sue missioni più importanti. Era stata una brillante spia russa, probabilmente la più famosa allinterno del KGB. Molti lo ammiravano ancora, nonostante fosse da tempo in pensione. Anche nellSVR, il nuovo servizio segreto russo, da molti era considerato una leggenda vivente.
Durante il periodo della guerra fredda aveva superato mille pericoli e difficoltà. Una volta era stato anche ferito seriamente ma non fu mai catturato e seppe cavarsela sempre egregiamente. Quello era stato il periodo più eccitante ed avventuroso della sua vita ma limprovvisa morte della moglie gli aveva tolto ogni desiderio di vita. Era stato un colpo tremendo che lo aveva spezzato dentro e da allora non aveva avuto più la forza di reagire.
Aleksej, guardando quella foto, sentiva che anche suo nonno il militare tutto dun pezzo in fondo aveva unanima. Ebbe compassione per quel vecchio che non vedeva da così tanto tempo e fu tentato dal telefonare per chiedergli un consiglio. Ma abbandonò subito quellidea. Ancora gli risuonavano nella testa le parole di sua mamma che aveva vietato a tutti i familiari, lui compreso, di recarsi a Mosca per partecipare alle esequie di nonna Olga, lamata moglie del nonno.
Lui aveva obbedito, ma contro voglia.
Fu costretto a fare quella scelta ben sapendo che la mamma non gli avrebbe mai perdonato nessun atto di insubordinazione. Stranamente nessuno volle chiarire ad Aleksej i motivi di quella incomprensibile decisione e tutti in famiglia mantennero il segreto. Qualcosa di veramente terribile doveva essere successo tra padre e figlia, tanto grave da «costringere tutti» a restare a San Pietroburgo.
Spesso Aleksej aveva provato ad aprire largomento con la mamma ma aveva sempre ricevuto un brusco e netto rifiuto. Una volta aveva cercato di intenerirla dicendole: «Ma Olga è mia nonna tua madre sangue del tuo sangue come puoi fare un atto così deplorevole. Non è da te. Tu che sei una donna giusta sempre pronta ad aiutare tutti quelli che vengono a chiederti aiuto. Non capisco perché non mi dici la verità? Perché questo segreto?».
Maria era stata sempre irremovibile con il figlio e lultima volta che avevano affrontato largomento gli aveva detto, perentoria: «Aleksej possiamo parlare apertamente di tutto quello che desideri ma due argomenti sono tabù in questa casa tuo nonno Andrej e tuo padre Roberto. Con questo largomento è chiuso e non desidero mai più tornarci sopra».
3
Aleksej mise con cura nell'armadio la sua divisa di Maggiore, facendo attenzione a non sgualcirla perché doveva essere perfetta per il giorno dopo, in presenza del Comandante dell'Accademia. Quindi si mise il pigiama e si stese sul letto. Incrociò le mani dietro la testa e cominciò a fissare il soffitto cercando di tornare con la memoria a quand'era bambino. Come sempre desiderava ricordare il viso di suo padre o, quanto meno, di riascoltare la sua voce. Ma niente.
Nonostante tutti gli sforzi, il nero più assorto si era impossessato del tempo in cui i genitori non avevano ancora insieme. In tutti i suoi venticinque anni aveva sempre sentito la mancanza del padre. Desiderava conoscere quell'uomo con tutte le sue forze per parlargli almeno una volta. Voleva sapere perché lo aveva abbandonato e non si era fatto più vedere e sentire negli ultimi venti anni.
Con il tempo il mistero della fuga del padre si era trasformato in un pesante fardello che gli opprimeva l'anima ed il cuore. La mamma si era sempre prodigata per quell'unico figlio maschio a cui non aveva fatto mancare mai nulla, a cui aveva dato sostegno e amore. Ma nonostante tutti i suoi ad Aleksej era sforzimper mancata una figura paterna e di aver vissuto in una famiglia a metà.
Peraltro Maria, dopo l'abbandono del marito, non si era più risposata e solo recentemente Aleksej aveva scoperto che la mamma non aveva mai divorziato da suo padre. All'anagrafe di San Pietroburgo risultavano ancora ufficializzati sposati. Intuiva che qualcosa di terribile doveva essere capitato alla sua famiglia e percepiva, in ogni caso, che i conti certamente non quadravano.
Innanzitutto si chiedeva come mai la mamma avesse trascorso tutti quegli anni da sola, sempre fedele al marito, come se ne aspettasse il ritorno e come se questo potesse accadere da un momento all'altro.
Aveva provato ad indagare per scoprire la verità ma fino a quel momento aveva trovato ben poco, se non un muro di assoluta omertà. Un giorno era passato a far visita alla mamma ma aveva trovato la casa deserta. Aveva approfittato dell'assenza di Maria per poter frugare in ogni angolo: nei cassetti, negli armadi, in bagno. Fu tutto inutile, non saltò fuori nulla, nemmeno una lettera o una foto che potesse giustificare il tradimento del padre e la fine del loro amore. L'abbandono improvviso di quell'uomo e il suo precipitoso rientro in Italia restavano un fitto mistero ancora irrisolto.
Ma Aleksej continuò imperterrito a non darsi per vinto. Era sicuro che, un giorno o l'altro, trovato i fili giusti e districato quella complicata matassa che continuava ad avvolgere la sua vita e quella della sua famiglia.