— Tranquilla, Tess — fece Cazie. — Adesso è tutto a posto. Non c’erano né gambe né braccia sul pavimento e le tue sono perfettamente in ordine. Si è trattato della biodifesa del sistema. Perché non hai indossato la maschera quando lo hai attivato?
— La stai agitando — disse Jackson. — Non lo sapeva. Tess, adesso è tutto a posto, siamo qui. Non hai più bisogno di pensarci.
— Ma… — cominciò Theresa. Le sue dita si stringevano e allentavano su quelle di Jackson, si stringevano e allentavano. — Ma dimmi… che cos’ho respirato? Ti prego, dimmelo, Jackson.
Jackson spiegò con riluttanza: — È un gas che agisce direttamente sulla corteccia parietale, provocando anosognosia. La corteccia parietale controlla il modo in cui la mente percepisce le sensazioni e i movimenti del corpo. In stato di anosognosia la mente è incapace di riconoscere i propri arti ed è anche incapace di capire se c’è qualcosa di sbagliato. La vittima inventa elaborati scenari per spiegare la paralisi degli arti che percepisce. È un ottimo sistema di sicurezza perché consente di scollegare il controllo corporeo senza aumentare la rabbia e il panico che potrebbero portare a reazioni sconsiderate. Inoltre non danneggia nessuno.
— Le braccia e le gambe sul pavimento erano tue — disse Cazie. — I Vivi non sono mai riusciti ad arrivare oltre l’ingresso.
Jackson riprese: — Hai respirato soltanto un neurofarmaco a effetto temporaneo. Anche senza l’intervento del Depuratore Cellulare, l’effetto non dura a lungo. Potresti sentire del formicolio negli arti per un po’, ma non fa male.
Un neurofarmaco. Aveva respirato un neurofarmaco ed era divenuta una persona diversa. Una persona senza braccia e gambe, una persona che pensava che le braccia e le gambe di altri fossero disseminate sul pavimento, una persona che non si era agitata all’idea ma aveva stilato tranquillamente una lista di cose da fare per gestire il problema. Non Theresa. Una persona completamente diversa.
Sollevò lo sguardo su Jackson e, per la prima volta in vita sua, Theresa si accorse di non volerlo vicino. — Tu… tu mi hai fatto diventare qualcun altro.
— No, non sono stato io, il sistema della casa…
— Ma tu vuoi sempre che io prenda neurofarmaci. Che io sia qualcuno diverso da me.
— Non puoi paragonare… — cominciò, ma lei lo interruppe.
— Quella non è la risposta. Non so quale sia, ma non è certo quella. — Lasciò la mano di Jackson e cercò di alzarsi.
Cazie intervenne: — Tess, tesoro, non sei onesta con Jack. Lui voleva soltanto…
— So quello che voleva soltanto — ribatté Theresa e, in qualche modo, li lasciò lì, Jackson colpito e Cazie mesta. Barcollò fino alla sua stanza, camminava in modo così incerto e le braccia e le gambe le formicolavano tanto che pensò che potessero cedere.
Quanto meno, però, erano sue.
L’edificio era posto sul fianco di una montagna, nella zona alta delle Adirondacks. Theresa atterrò con l’aeromobile, che volava ovviamente in automatico, su una striscia artificialmente piatta di terreno nanolastricato che immaginò fosse un parcheggio, anche se non c’erano altri veicoli. Restò a lungo al freddo, guardando semplicemente l’edificio delle Sorelle del Cielo Misericordioso.
Il convento, non di cemespugna ma costruito in pietra vera, si fondeva con la montagna. Roccia grigia, ricoperta qua e là di viticci avvizziti accompagnati alla vegetazione avvizzita d’inverno che cresceva angolata rispetto al terreno scosceso. Era il primo edificio di Muli che Theresa ricordava di avere mai visto, perfino nei notiziari, che non risultava avvolto nella bolla debolmente scintillante di uno scudo a energia-Y. C’era soltanto neve, ammassata dalla corrente. Un po’ di vento sollevò la leggera neve polverosa attorno alle gambe di Theresa, e lei rabbrividì. Si incamminò verso la porta.
Le venne aperta da una donna di mezza età, non da un sistema di sicurezza o da un robot. Una donna (una sorella?) con una tunica grigia e diritta che sembrava di cotone. "Cotone." Tessuto consumabile. Quella vista aiutò Theresa a superare la ritrosia che provava solitamente per gli estranei. Serrò strette le mani e si costrinse a non indietreggiare.
— Io sono… Theresa Aranow. Ho chiamato…
— Entri pure, signorina Aranow. Io sono Sorella Anne. — Le sorrise, ma Theresa non riuscì a ricambiare il sorriso. Sentiva il volto troppo teso. — Sono io quella con cui lei ha parlato in linea. Mi segua dove potremo chiacchierare un po’.
Condusse Theresa attraverso un oscuro atrio in pietra e aprì una pesante porta di legno. Si sentirono dei suoni.
— Oh! Che… che cos’è?
— Sono le sorelle che cantano i vespri.
Theresa si fermò, stupefatta. Non aveva mai sentito cantare in quel modo. Nemmeno da un sistema sonoro, mai. Un glorioso scroscio di suoni, privo di strumenti: soltanto voci umane, ognuna modificata geneticamente per aumentarne l’abilità musicale, che si alzavano in fervente ardore. Non riusciva a distinguere le parole, ma le parole non importavano, era la passione che contava. Una passione per qualcosa di invisibile ma… ma sentito. Una passione…
Sorella Anne le disse gentilmente: — Ha detto in linea che non è stata allevata come cattolica. Aveva mai sentito cantare i vespri?
— Mai!
— Be’, nemmeno la maggior parte dei Cattolici. O di quelli che adesso passano per Cattolici. Venga qui, dove possiamo parlare.
Theresa la seguì in una piccola stanza dalle pareti bianche, arredata soltanto con una scrivania, un terminale e tre sedie. Sedie di legno. Lei esclamò subito: — Ma voi non siete Cambiate. Nessuna di voi.
— No — rispose Sorella Anne sorridendo. — Dobbiamo mangiare, bere e dipendere dai nostri sforzi e dalla grazia di Lui per il nostro pane quotidiano.
— È… è… — Stava tremando. Tuttavia riuscì a fare uscire le parole perché per lei erano importanti. — È una disciplina spirituale?
— Lo è. Signorina Aranow, cominci a raccontarmi perché si trova qui.
— Perché mi trovo qui. — Theresa guardò la suora. Aveva fatto effettuare a Thomas una ricerca. Sorella Anne aveva cinquantuno anni ed era entrata in quell’ordine di semiclausura a diciassette: era una delle ultime ottocentoquarantanove Sorelle del Cielo Misericordioso rimaste al mondo. Nata col nome di Anne Granville Hart a Wichita nel Kansas, aveva ereditato tre milioni di dollari da sua madre, cofondatrice di un marchio di prodotti di panetteria, le Madeleine di Proust. Gli interi tre milioni erano stati donati all’ordine. Perché Anne Grenville Hart si trovava lì? Theresa non poteva chiedere una cosa simile. Obbedientemente, cercò di rispondere alla domanda della sorella, sapendo ancor prima di cominciare che la risposta sarebbe risultata inadeguata, che non avrebbe spiegato realmente tutto quello per cui Theresa non riusciva mai a trovare le parole, comunque.
— Sono qui perché io… io sono alla ricerca di qualcosa. — Aspettò che le venisse chiesto di che cosa: la domanda senza risposta avrebbe portato soltanto a balbettii, a parole confuse e a sguardi perplessi della sorella che si sarebbe spazientita sempre più, finché Theresa non fosse caduta in un silenzio privo di speranza.
Sorella Anne, però, disse: — E lei ha cercato in tutti gli altri posti che le sono venuti in mente, non è riuscita a trovarlo, e così ha tentato qui, presa dalla disperazione. Anche se non riesce nemmeno a definire quello che sta cercando e ha paura che non corrisponda affatto alla visione cattolica di Dio.
— Sì — ansimò Theresa. — Come… come faceva a saperlo?
— Non è la prima a venire da noi — rispose Sorella Anne, serenamente. — E non sarà l’ultima. Penso tuttavia che lei potrebbe essere diversa dalla maggior parte delle altre. Signorina Aranow, perché non è Cambiata?
— Non posso
— Non può? Vuole dire che esiste un qualche impedimento fisico?
— No, no. Voglio dire che io semplicemente… non posso.
— Ha paura di rendere la sua vita troppo automatica. Lei ritiene che nel bisogno fisico abbia inizio la ricerca spirituale, le sue radici e la sua fonte.
— Sì! — esclamò sbalordita Theresa. — Oh, sì! Soltanto…
— Soltanto che cosa, signorina Aranow? — Sorella Anne si sporse in avanti sulla sedia, una sedia di legno naturale ben stagionato che il suo corpo nonCambiato non avrebbe consumato una molecola dopo l’altra, finché la parte solida non si fosse trasformata nello scheletro vuoto di se stessa. La sedia di Sorella Anne sarebbe rimasta una sedia. L’espressione di Sorella Anne era calda come quella di Jackson e Cazie ma in qualche modo diversa, non… non che cosa? Non carica di attenzioni per Theresa, non impietosita, non accondiscendente. Sorella Anne non pensava che Theresa Aranow fosse una debole o una pazza.
Le parole presero a sgorgarle fuori. Guardando quel volto calmo e comprensivo, la paura degli estranei di Theresa scomparve, non si sa come, e le parole si riversarono all’esterno, come un’ondata di marea, irrefrenabili.
— Ho sempre voluto qualcosa, cercato qualcosa, per tutta la vita, soltanto che non ho la minima idea di cosa sia! E nessun altro ha dato l’impressione di avere un tale bisogno o anche solo di capire quello di cui parlavo, perfino persone buone che io so essere buone. Persone che amo. Mi guardano come se fossi pazza. A dire il vero, sono pazza. Sono depressa, soffro di agorafobia e sono fortemente inibita a livello neurologico. Non ho lasciato l’appartamento per oltre un anno, eccetto una volta, e anche in quell’occasione… Nessun altro prova quello che provo io. Voglio che ci sia qualcosa… di grande. Di più grande di me. Qualcosa nell’universo a cui aggrapparsi, che dia alla mia vita un qualche tipo di significato. Ho mentito, sa, confermando che sono nonCambiata perché non voglio che le cose siano troppo automatiche. Sono automatiche, per me. Sono ricca e ho un fratello che mi ama, che si pone fra me e il mondo e non ho mai bisogno di preoccuparmi o di lottare per nulla, certo non per avere il pane quotidiano, che mi viene inviato, cucinato e servito da robot che… mentre la maggior parte delle persone in questo paese è lì fuori senza sicurezza, coni a energia-Y o cure mediche per i bambini che sono nati senza siringhe del Cambiamento. Non che io pensi che il Cambiamento sia un bene, è che sono confusa sul Cambiamento. Lo so. Ma il motivo per cui sono sempre stata diversa è che voglio qualcosa che nessuno può avere. Jackson dice che non può averlo nessuno perché non esiste. Io voglio la verità! Una verità che sia reale e solida e che si possa usare per capire come vivere la propria vita e che cosa significa la vita. Oh, so che non esiste questo genere di verità assoluta e che è stupido e infantile andarla a cercare, ma io "l’ho fatto". Quanto meno ci ho provato. Mi sono fatta aiutare da Thomas per le ricerche sul cristianesimo, lo zen, lo yagaismo, l’induismo e il Testo del Cambiamento Scientifico. Non sono particolarmente intelligente, Sorella, forse è andato storto qualcosa durante la mia fertilizzazione in vitro, e forse non capisco molto di quello che Thomas mi ha riportato. Però ci ho provato. E mi sembra che tutti quei credo si contraddicano a vicenda, che dicano tutti cose diverse e, in questo caso, come possono essere tutti veri? Inoltre si contraddicono al loro interno, con parti dei loro dogmi che non trovano corrispondenza in altre o che non trovano corrispondenza in quello che io mi vedo attorno, nel mondo, e così come può essere vero "anche uno" di loro? Non lo sono! A questo punto però non mi resta altro che questo struggimento, e nessun altro che conosco sembra provarlo, così finisco col trovarmi tanto sola che penso di morire. Ho pensato seriamente al suicidio, ma che effetti avrebbe su Jackson che si sente già così responsabile per me? Non posso. Non sarebbe giusto. Soltanto… come faccio a sapere che cosa è "giusto" se non riesco a scoprire cosa è vero? Quindi vado avanti a vivere in questo "vuoto" e talvolta il vuoto è così grande e buio e denso che penso di soffocare o di perdermi finché non potrò più essere trovata. Non riesco a trovarmi, voglio dire, soltanto che non è me stessa quello che voglio! È troppo poco trovare solo se stessi!
Theresa si bloccò, ansante. Ma cosa aveva detto? Aveva buttato fuori tutta quella roba con un estraneo, quella donna composta che lei non conosceva nemmeno, come una specie di bambina piagnucolante.
— Hai ragione nella ricerca — disse Sorella Anne — ma hai torto nelle conclusioni.
Parlava con estrema convinzione, tuttavia Theresa si sentiva confusa: non riteneva di avere tratto alcuna conclusione, non era mai stata in grado di arrivarvi. Non era proprio quello il problema?
— Non capisco, Sorella.
— Quanti anni ha, signorina Aranow?
— Diciotto — e aspettò il sorriso. Non arrivò.
— Ha detto che i credo che ha esaminato, dallo yagaismo allo zen, si contraddicono tra loro, e che sono contraddittori al loro interno o confronto all’esperienza osservata e che quindi non possono essere veri. È quello il suo errore.
— Come? — interrogò Theresa. — Qual è il mio errore?
— Sono tutti veri. Tutti, fino all’ultimo dei credo che lei ha nominato. Oltre all’ateismo, il druidismo, il cannibalismo e la devozione al demonio.
Theresa la fissò sbalordita.
— Il fatto è, mia piccola bambina perduta, che la verità non è così semplice. È solida, ampia e tanto lucente da spazzare via le tenebre… ma non è semplice.
— Non capisco. — Theresa si sentì mancare. Ebbe un’improvvisa immagine di Cazie che osservava Sorella Anne da un angolo della stanzetta dalle pareti bianche: Cazie con la testa inclinata, gli occhi dorati accesi di disprezzo, che sorrideva alle spalle di loro due. Che sorrideva sempre. "Ironia, Tessie. Non perdere l’ironia."
— Tutto risulta vero, in diverse circostanze. Gli uomini sono buoni, gli uomini sono peccatori. Dio è onnipotente e Dio non può scegliere per ogni anima. L’amore è più grande della giustizia e la giustizia è più grande dell’amore. In quale altro modo la Chiesa poteva cambiare nel corso di oltre due millenni ed essere ancora la Chiesa? A volte le eresie devono essere sradicate e distrutte, e a volte gli eretici devono essere accolti, a volte ancora, gli eretici siamo noi stessi. Tutto questo è vero. Tuttavia l’umanità non può vedere tutta la verità nello stesso momento e così, in ogni epoca, vediamo quello che possiamo. Ci sono mode nella verità come in tutto il resto. E, sotto le mode, regna la grandezza.
— Ma Sorella, se tutto è vero…
— Allora il compito del singolo è di mettere da parte l’egotismo della percezione e di vedere tutto quello di Dio che ognuno può.
L’egotismo della percezione. Theresa lottò con quel concetto. — Vuole dire che non possiamo vedere tutto e che dobbiamo fidarci del fatto che il resto esista? Sulla fiducia?
— Questo è una parte. Ma c’è di più. Dobbiamo mettere da parte letteralmente la piccolezza delle nostre percezioni, i limiti delle nostre percezioni, e vedere ciò che prima ci era nascosto.
— Ma "come"? — E poi, più pacatamente: — Come?
Sorella Anne si alzò e si avvicinò alla porta. La aprì e il suono glorioso si riversò nuovamente nella stanza: trenta, cinquanta voci innalzate nel canto, ardenti e pure, un impeto inebriante e fragrante come il profumo delle notti estive. Theresa chiuse gli occhi e si chinò in avanti, come se il canto fosse un flusso fisico e lei vi stesse entrando.
— Così — fece Sorella Anne.
"L’ironia è sempre la migliore difesa contro l’autoillusione" diceva Cazie.
— È anche la miglior difesa contro qualsiasi sentimento genuino — rispose tranquillamente Sorella Anne, e Theresa sbarrò gli occhi e sentì il cuore accelerare, finché non si rese conto che doveva avere pronunciato le parole di Cazie a voce alta.
Anche Theresa si alzò, senza saperne il perché. I vespri si alzavano e abbassavano attorno a lei, un mare di suono dolcissimo, palpabile e possente come un’ondata di acqua fresca. Il cuore le accelerò nuovamente, ma senza il rischio che le venisse un attacco. Respirava lentamente e profondamente. "Sì", disse qualcosa in una parte profonda della sua mente. "Sì, sì, sì!"