La rivincita dei mendicanti - Кресс Нэнси (Ненси) 8 стр.


— È tutto a posto, Annie — disse Vicki. — Dottore, questa è la madre di Lizzie.

La madre di Lizzie non lo degnò nemmeno di uno sguardo. Afferrò la prima parte di Lizzie che ebbe a portata di mano, la ragazza era ancora in braccio al giovanotto corpulento, e la strinse forte. — Portala qui dentro, Shockey. Attento, tu! Non è mica un sacco di tela, lei! — Jackson notò Vicki sorridere, un sorriso per niente divertito, a bocca storta. Dovevano esserci delle storie fra le due donne. Tre donne. Shockey si concentrò per portare il suo gonfio, inerme e sorridente fardello all’interno di uno dei loculi-dormitorio.

Annie bloccò lo stretto passaggio col suo ampio corpo. — Grazie, dottore, ma adesso può anche andare via, lei. Non abbiamo nessun bisogno di aiuto, noi, per la nostra gente. Addio.

— Sì che avete bisogno, signora. Ne avete bisogno. Sarà un parto podalico. Devo ruotare il feto nel momento giusto per…

— Non è un feto, è un bambino!

Vicki intervenne. — Per l’amor di Dio, Annie, levati di torno. È un medico.

— È un Mulo, lui.

— Se non si sposti, ti sposterò io.

Nonostante tutto, anche se il ragazzetto dallo sguardo truce si era avvicinato, Jackson provò un impeto di impazienza. Era possibile che i Vivi minacciassero "sempre" di ricorrere alla violenza fisica? Era seccante. Intervenne con fermezza: — Signora, "io" sposterò lei se non lascerà che mi occupi della paziente.

— Caspita, Jackson — commentò Vicki — non me lo sarei mai aspettato da te. — Il suo tono, così simile a quello di Cazie, lo fece infuriare. Scansò la madre di Lizzie e si inginocchiò accanto alla ragazza che giaceva sorridendo sul letto. Un sottile materasso di plastica non consumabile, coperto di tute in plastica riciclata. L’unico arredamento era costituito da un cassettone ammaccato e da una sedia in plastica fusa che sembrava essere stata utilizzata, un tempo, per esercitazioni di tiro al bersaglio. Le pareti erano ricoperte dal genere di quadri di metallo su legno finto a colori sgargianti che i Vivi amavano tanto e che riproducevano una gara di scooter su nuvole di bambagia. Sulla scrivania c’era un terminal Jansen-Sagura e una biblioteca di cristallo del tipo utilizzato dagli scienziati che ottenevano i fondi maggiori. Jackson li guardò sbigottito.

Gli occhi scuri di Lizzie erano allegri e cercavano di nascondere il dolore. — Non mi fa per niente male, a me. Quando Sharon ha avuto "il suo" bambino, lei strillava, lei…

— Sharon non aveva assistenza medica — disse Vicki. — Nessun profitto per i Muli.

Jackson commentò: — Non avreste dovuto distruggere i depositi.

— Perché no? Voi avevate smesso di rifornirli.

Non era andato fin lì per discutere di scelte politiche con un Mulo rinnegato. Jackson infilò una mano nella borsa. — Cos’è quello? — chiese Annie. Si profilò sopra il letto come un angelo vendicatore. Emanava un forte odore femminile, muscoso e stranamente erotico. Jackson si chiese come avrebbe fatto in condizioni simili a garantire dell’asetticità. Prima del Depuratore Cellulare.

— È un cerotto per anestesia locale. Per estendere l’apertura vaginale il più possibile e prevenire lacerazioni prima che io esegua l’episiotomia.

— Niente tagli — disse Annie. — Lizzie starà benissimo, lei! Vada fuori!

Jackson la ignorò. Una mano lo prese per le spalle e lo strattonò indietro proprio mentre applicava il cerotto a Lizzie. A quel punto Vicki afferrò Annie, e le due donne si misero a bisticciare finché Jackson non udì una voce alle spalle che diceva: — Annie, adesso smettila, tesoro.

Lizzie continuava a sorridere a Jackson, rasserenata dalla droga, mentre il suo pancione si tirava e allentava, tremando per le possenti contrazioni. Gli strinse la mano. Jackson si voltò e vide un bell’uomo di almeno ottant’anni, forte e sano come erano diventati gli ottantenni in quel periodo, che faceva allontanare Annie dal loculo. Alle spalle di Annie che si ritirava, c’era un’intera folla di Vivi, silenziosa e ostile.

Jackson si voltò di nuovo verso Lizzie.

— Che posso fare? — chiese Vicki in tono deciso.

— Niente. Resta lontano. Lizzie, voltati sul fianco sinistro… bene.

Passò un’altra ora prima che lui dovesse eseguire l’episiotomia. Mentre lui produceva velocemente il lungo taglio, non sarebbe uscita alcuna testa di bambino prima di aprire il passaggio, Lizzie sorrise e mormorò qualcosa. Il vecchio, Billy, era miracolosamente riuscito a tenere zitta Annie. Presente, ma zitta.

— D’accordo, Lizzie, spingi. — Quello era l’inconveniente dei sedativi che aveva in circolo: erano stati scelti per evitare la barriera della placenta, ma riducevano molto il bisogno o il desiderio di Lizzie di concentrarsi su una cosa come spingere. — Forza, spingi. Fa’ finta di dover cagare una zucca!

Lizzie ridacchiò. Attraverso il sangue materno si presentò il piccolo sedere del bambino. Jackson aspettò che l’ombelico del piccolo avesse superato il perineo, quindi lo afferrò per le anche e tirò verso il basso finché non apparvero le scapole. Con grande attenzione, ruotò il bambino finché le spalle furono in posizione antero-posteriore. Quando furono uscite anche le spalle, girò indietro il corpicino, per un parto a testa in giù, quello che probabilmente avrebbe provocato i minori traumi.

— Spingi di nuovo, Lizzie, più forte… "più forte"…

Lei lo fece. Finalmente uscì la testa del piccolo. Nessun trauma cerebrale visibile, buon tono muscolare, edemi ed ecchimosi minimi. Cullando le soffici e umide natiche del bambino nelle mani, Jackson si sentì serrare improvvisamente la gola. Controllò il neonato con il monitor e quindi lo appoggiò, sporco di sangue e fluidi, sul petto della madre. Il loculo era nuovamente pieno di gente: la riservatezza, evidentemente, non era un valore per i Vivi. Estrasse la placenta, tagliò il cordone ombelicale e prese dalla borsa una siringa del Cambiamento.

L’intera folla trasse un sospiro collettivo.

— Aaahhhhh! — Jackson sollevò lo sguardo, sorpreso.

In tono completamente diverso da quello che le aveva sentito usare fino a quel momento, Vicky intervenne: — Ne "hai" una!

— Una siringa del Cambiamento? Ovvio. — Quindi comprese. — Voi non ne avete, fuori dalle enclavi.

— Il nostro tasso di natalità è più alto del vostro — commentò lei con una smorfia. — E le nostre scorte minori. Quando le siringhe hanno smesso di apparire, qualche anno fa, voi Muli le avete ritirate e immagazzinate tutte.

— Quindi i vostri bambini…

— Si ammalano. Alcuni, quanto meno. Potrebbero morire. Non sai che sono state combattute battaglie armate per il possesso delle siringhe restanti?

Lo sapeva, ovviamente. Ma vedere la cosa nei notiziari era diverso dal vedere gli occhi di quella folla che fissavano in modo vorace la siringa, dall’avvertire la loro tensione, dal sentire l’odore della loro disperata avidità. Chiese in fretta: — Quanti bambini non-Cambiati ci sono nella vostra… nella vostra tribù?

— Ancora nessuno. Ma ci era rimasta una sola siringa, per Lizzie. La prossima gravidanza… Quante siringhe hai, Jackson?

— Altre tre… — rischiò di aggiungere "con me", ma si accorse in tempo dell’errore che avrebbe commesso. — Potete tenerle.

Iniettò il neonato che, prevedibilmente, cominciò a piangere. Da qualche parte, fuori dal loculo, la voce di un uomo gridò bruscamente: — Poliziotti Muli, sono qui, loro!

Vicki gli sorrise. Il sorriso lo sorprese: franco, stanco, eppure, in qualche modo, cameratesco, come se aiutare Lizzie a partorire il bambino e aver consegnato le altre siringhe avesse cambiato i rapporti fra Jackson e la tribù di Vivi. Gli occorse qualche istante per accorgersi che il sorriso era finto. Vicki, tuttavia, gli disse dolcemente: — Hai intenzione di permettere che quella strega arresti la tua paziente, Jackson?

Lizzie era stesa e rideva come una pazza stringendo il suo bambino: o la ditta farmaceutica aveva esagerato con la dose di stimolatori del piacere nel cerotto, oppure Lizzie aveva un’indole materna. Il piccolo piangeva forte. La gente gridava e discuteva nello spazio angusto: alcuni si congratulavano con Lizzie, altri minacciavano i poliziotti (un’assurdità, dovevano essere armati e protetti come fortezze), alcuni pretendevano di sapere come mai non ci fossero nuovi coni-Y. L’odore di umanità ammassata era sopraffacente. Jackson fissò il sorriso di Vicki. Pensò alla rabbia di Cazie, a come lo avrebbe schernito.

Vicki riprese, in mezzo al frastuono: — Hai detto a Cazie che tu avevi due terzi delle azioni della TenTech, le tue e quelle di tua sorella. Potresti far cadere le accuse.

— Perché mai dovrei farlo?

Lei si limitò a indicargli tutto quello che aveva attorno: il bambino, la stanza fredda, i Vivi laceri, le discussioni, i poliziotti che lui intuiva dietro la parete di persone biologicamente inattaccabili da malattie e fame ma non dal freddo, dalla violenza o dall’avidità di altra gente. All’improvviso Jackson pensò a Ellie Lester che riteneva i nativi, elementi di seconda classe, schiavi "Vivi" molto divertenti e la mancanza di potere una cosa buffa, a differenza di Cazie invece, che la considerava soltanto noiosa.

— Sì — disse. — Farò cadere le accuse.

— Sì — fece eco Vicki e smise di sorridere, socchiudendo gli occhi e osservandolo accuratamente, come se si stesse chiedendo quale uso avrebbe potuto fare di lui.

4

"Oggi" pensò Theresa. "Oggi è il gran giorno."

Stesa nel letto la mattina presto, avvertì la familiare nuvola nera calarle sulla mente. Pesante, nauseante, senza speranza. "Il cane nero che non molla mai" lo aveva chiamato qualcuno nei tempi antichi. "Gli oscuri boschi di cui la morte è appena più amara". Quello era "Dante": ricordava quel nome. "La bestia che consuma il cervello". Quello invece non lo ricordava. Thomas, il suo sistema personale, le aveva trovato le citazioni in qualche database, e Theresa non riusciva più a dimenticarle. Cani, bestie, boschi, nuvole: aveva vissuto così a lungo con l’oscurità che non aveva più bisogno di darle un nome, anche se ne aveva a disposizione a volontà. Come la stessa paura.

Quel giorno, però, la paura nauseante non l’avrebbe fermata. Lei non le avrebbe "permesso" di fermarla. Quello era il gran giorno.

— Prendi un neurofarmaco — la incalzava sempre Jackson. — Posso prescriverti… Tessie, è uno squilibrio nella chimica cerebrale. Non è diverso dal diabete o dall’anemia. Si regola la chimica. Si "aggiusta". — E Theresa non trovava mai le parole per farlo capire.

Perché le parole non erano importanti, lo era l’azione. Lei lo aveva compreso solo da poco. Quando se n’era resa conto, si era sentita assalire da una profonda vergogna. Come aveva fatto a essere così indulgente con se stessa, così piagnucolante verso la sua stessa debolezza d’anima? Era passato oltre un anno dall’ultima volta che aveva lasciato l’appartamento, e non era mai uscita dall’Enclave di Manhattan Est. Mai, in tutta la sua vita. Non c’era da meravigliarsi che fosse ciò che Jackson definiva "clinicamente depressa".

"Oggi."

Jackson era andato con Cazie, molto presto, per controllare uno stabilimento da qualche parte. Theresa lo aveva sentito uscire. Si sentiva a disagio tutte le volte che lui lasciava l’appartamento, ma cercava strenuamente di non farglielo capire. Non sarebbe stato corretto. Jackson restava già anche troppo in casa per lei. Vegliava su di lei, si preoccupava per lei. "Posso prescriverti"… Si preoccupava per lei ma non capiva. Lui non capiva che cosa fosse realmente ciò che chiamava "squilibrio della chimica cerebrale". Soltanto Theresa sapeva cosa fosse davvero.

Era un dono. Il modo della sua anima di dirle che avrebbe fatto meglio a cambiare abitudini e a fare attenzione a quello che era realmente importante.

Theresa tirò giù i piedi dal bordo del letto e aspettò che l’ansia quotidiana recedesse. Se se lo concedeva, poteva restare a letto tutto il giorno. Era così sicuro lì. Invece si incamminò verso la doccia sonar, si lavò per trenta secondi e ne uscì. Nella camera da letto colse un’occhiata di sé, nuda, nel lungo specchio sulla parete a ovest e si fermò.

Non "assomigliava" nemmeno a tutti gli altri. Il suo corpo era bello, immaginava. Tutti erano belli. Ma in qualche modo lei pareva… non essere lì. Capelli e occhi pallidi, volto pallido e piccolo, pelle pallida. Ma che cosa avevano avuto in mente i suoi genitori? Una fatina. Un fantasma. Un ologramma privo di sostanza, sfuocato ai margini. Non c’era da meravigliarsi se lei non si sentiva mai di appartenere a nessun posto, se non conosceva nessuna persona che potesse comprendere la sua lotta per quello che essa era. Nemmeno Jackson, per quanto fosse un fratello amorevole.

Perfino Jackson pensava che Theresa fosse nata male, che fosse stata danneggiata, non si sa come, durante la modificazione genetica in vitro. Perfino Jackson non riusciva a comprendere la natura del dono che era stato conferito a Theresa: perché era un dono, indipendentemente da quello che dicevano tutti. Il dolore lo era sempre.

Il dolore significava che bisognava cambiare qualcosa, che bisognava imparare a pensare al mondo in modo differente. I semi provavano un dolore tremendo quando, immaginava Theresa, facevano scoppiare il rivestimento nella terra fredda e scura e cominciavano a spingersi alla cieca verso una luce che non avevano mai visto. Il dolore era ciò che faceva crescere. Nessuno sembrava capirlo. Tutti quelli che conosceva, non appena provavano dolore, facevano il possibile per mandarlo via. Medicine. Droghe ricreative. Sesso. Feste frenetiche. Alla fine, si trattava sempre della stessa cosa: distrazioni dal dolore. Come era possibile che nessun altro in quel secolo la pensasse così? Soltanto lei.

— Ogni ambiente premia profili di personalità diversi — le aveva detto una volta Jackson nel modo pacato e attento di parlare con lei. — Il nostro premia la vivacità, l’aggressività accoppiata con l’indifferenza apparente, una certa crudeltà distratta. Tu non sei così, Tess. Sei un tipo di persona differente. Non peggiore, soltanto differente. Va bene essere differenti.

Già, era vero, ma solo perché lei era giunta a credere che la sua differenza aveva un "senso". La nuvola nera nel cervello, la paura di ogni novità, gli attacchi di ansia così forti che a volte non la facevano respirare: il loro senso era di far rompere a Theresa il suo guscio di pigrizia e di spingerla alla cieca verso la luce. Ci credeva, anche se non l’aveva mai vista e non sapeva esattamente verso cosa si stesse spingendo, anche se a volte disperava dell’esistenza della luce. Pure quello era parte del dono: le faceva esaminare attentamente tutto quello che le accadeva attorno, nel caso in cui le sfuggisse una chiave essenziale per quello che avrebbe fatto in seguito.

Non aveva confidato a Jackson quel pensiero: si preoccupava già troppo per lei e non avrebbe capito comunque. Era davvero buffo: Jackson era quello intelligente, Theresa quella la cui modificazione del QI non era riuscita del tutto. Jackson però non capiva, anche se aveva ragione sul discorso delle diverse personalità premiate in culture differenti, che non era andato fino in fondo nell’analisi di quell’idea.

Theresa sì: aveva passato migliaia di ore al terminale, inviando lentamente e faticosamente Thomas alla ricerca attraverso i database storici. Alla fine aveva trovato il luogo che avrebbe premiato ciò che lei era: l’Età della Fede.

Sarebbe dovuta nascere cattolica: nel tardo Medio Evo, quando uomini e donne erano stati onorati per avere dedicato le loro vite al dolore e al servizio della crescita spirituale. Lì sarebbe stata adeguata: entrando in un’abbazia, trovando una ragione di esistere nella vita di clausura, unita con altri in costante preghiera. Invece era nata in un’epoca in cui nessuno di quelli che conosceva credeva in Dio. Lei inclusa.

Theresa sentì gli occhi riempirsi di lacrime. Le ricacciò indietro con impazienza e si allontanò dalla vista del suo corpo nudo nello specchio. Era stupido piangere. Lei era nata in quell’epoca, non nel passato e anche quello faceva parte del dono. Era destinata a trovare un’altra via, una spinta differente verso la luce che così spesso disperava di trovare. Dopo interi mesi, anni, di meditazione e false partenze, era arrivata a capire cosa fosse.

Назад Дальше