Camden replicò: — Si tratta di mia
non
— È in salotto. — Camden la condusse in una grande sala con un caminetto in pietra. Mobilio stile casa di campagna inglese e stampe di cani o navi tutte appese quaranta centimetri troppo in alto: l’arredamento doveva essere stato appannaggio di Elizabeth Camden. La donna non si alzò dalla poltrona quando Susan entrò.
— Permettetemi di essere concisa e veloce — disse Susan. — Non voglio prolungare la cosa per voi più di quanto non sia necessario. Abbiamo tutti i risultati dei test di amniocentesi, ultrasuoni e Langston. Il feto sta bene e mostra uno sviluppo normale, per essere di due settimane; nessun problema con l’impianto sulla parete uterina. Ma è venuta fuori una complicazione.
— Cosa? — disse Camden. Prese una sigaretta, guardò sua moglie e la ripose senza averla accesa.
Susan continuò serenamente: — Signora Camden, per puro caso il mese scorso entrambe le sue ovaie hanno rilasciato un ovulo. Ne abbiamo rimosso uno per l’operazione genetica. Per un ulteriore puro caso, anche il secondo è rimasto fertilizzato e impiantato. Lei ha due feti.
Elizabeth Camden si raggelò. — Gemelli?
— No — fece Susan. Si rese conto quindi di ciò che aveva detto. — Voglio dire, sì. Sono gemelli ma non identici. Solamente uno è stato alterato geneticamente. L’altro non risulterà più somigliante al primo di un qualsiasi fratello. È un cosiddetto bambino normale. E so che voi non volevate un cosiddetto bambino normale.
— No, non lo volevo — confermò Camden.
Elizabeth Camden ribatté: — Io lo volevo.
Camden le lanciò un’occhiata feroce che Susan non fu in grado di interpretare. Lui tirò fuori nuovamente la sigaretta e l’accese. Mostrava a Susan solamente il profilo e stava riflettendo intensamente; Susan dubitò che si rendesse conto della sigaretta o che l’avesse accesa. — Il bambino è danneggiato in qualche modo dalla presenza dell’altro?
— No — rispose Susan. — No, ovviamente no. Stanno semplicemente… coesistendo.
— È possibile abortirlo?
— Oh, sì dottoressa. È fatto così.
Susan non commentò.
— Completamente con il pieno controllo della situazione. Ma non questa volta. — Rise sottovoce, tutta eccitata. — Due. Lei… sa quale sia il sesso dell’altro.
— Tutti e due i feti sono femminili.
— Io volevo una bambina, sa? E adesso l’avrò.
— Allora porterà avanti la gravidanza?
— Oh, sì. Grazie per essere venuta, dottoressa.
Susan venne congedata. Nessuno l’accompagnò alla porta ma, quando stava per salire in automobile, Camden sfrecciò fuori dalla casa, senza cappotto. — Susan! Volevo ringraziarti. Per avere fatto tutta questa strada fin qui per comunicarci personalmente la notizia.
— Mi hai già ringraziato.
— Già. Be’. Sei sicura che il secondo feto non rappresenti una minaccia per mia figlia?
Susan disse deliberatamente: — Così come il feto alterato geneticamente non rappresenta una minaccia per quello concepito naturalmente.
Lui sorrise. Parlò con voce bassa e malinconica. — E pensi che questo dovrebbe importarmi altrettanto. Ma non è così. Perché mai dovrei fingere quel sentimento? Specialmente con te?
Susan aprì la portiera dell’auto. Non era ancora pronta, oppure aveva cambiato idea o qualcos’altro. A quel punto, però, Camden si chinò in avanti per chiudere la portiera e nei suoi modi non si notò nulla di incline al sentimento, nessun accenno di untuoso tentativo di ingraziarsela. — Farò meglio a ordinare un secondo recinto per giocare.
— Sì.
— E un secondo seggiolino per l’auto.
— Sì.
— Ma non una seconda balia per il turno di notte.
— Questo lo devi decidere tu.
— E tu. — Improvvisamente lui si chinò in avanti e la baciò in modo così cortese e rispettoso che Susan ne rimase sbalordita. Non l’avrebbero scioccata né lussuria né atteggiamento di conquista: questo invece sì. Camden non le diede l’opportunità di reagire: chiuse la portiera dell’auto e si incamminò nuovamente verso casa. Susan si diresse al cancello, con le mani che le tremavano sul volante, finché il divertimento non sostituì lo stupore: era stato un bacio deliberatamente distaccato, rispettoso, un enigma ben congegnato. E niente altro avrebbe potuto garantire altrettanto bene che ce ne sarebbe stato un altro.
Si chiese che nomi avrebbero dato i Camden alle figlie.
Il dottor Ong misurava a grandi passi il corridoio dell’ospedale in cui l’illuminazione era stata dimezzata di intensità. Dal reparto delle infermiere della Maternità un’infermiera avanzò di un passo come per fermarlo… era notte fonda, ben oltre il periodo delle visite… gli dette una bella occhiata in volto e svanì poi nuovamente all’interno della guardiola. Dietro l’angolo si trovava la vetrata che dava sulla nursery. Con suo grande dispetto, Susan Melling teneva il volto premuto contro il vetro. Con suo ulteriore dispetto, stava piangendo.
Ong si rese conto che non gli era mai piaciuta quella donna. Forse nessuna donna. Perfino quelle dotate di menti superiori non sembravano in grado di evitare di farsi fregare dalle loro emozioni.
— Guardi — disse Susan sorridendo un po’, asciugandosi il volto. — Dottore…
Ong si allontanò da lei. Al di là del vetro, Roger Camden depose la neonata in una piccola culla a rotelle. Il cartellino di riconoscimento su di essa diceva: NEONATA CAMDEN N° 1. 2.9 K.G. Un’infermiera del turno di notte guardò la scena con indulgenza.