Ong non aspettò per vedere Camden emergere dalla nursery o per sentire Susan Melling dire ciò che gli avrebbe detto. Ong andò a farsi chiamare l’ostetrico. Il rapporto della Melling, date le circostanze, non era completamente attendibile. Si trattava di un’occasione perfetta e senza precedenti per analizzare ogni dettaglio sull’alterazione genetica con un campione di confronto non alterato, e la Melling mostrava più interesse per le sue sdolcinate emozioni. Ong, ovviamente, avrebbe dovuto occuparsi personalmente del rapporto, dopo avere parlato con l’ostetrico. Era bramoso di ottenere ogni dettaglio e non solo sulla neonata dalle guance rosate che si trovava fra le braccia di Camden. Voleva sapere tutto sulla nascita della bambina nella culla a fianco: NEONATA CAMDEN N° 2. 2.5 KG. La bambina dai capelli scuri con il viso a chiazze rosse rannicchiata nella coperta rosa, addormentata.
2
Il primo ricordo di Leisha fu di linee fluttuanti che non erano li. Sapeva che non c’erano perché, quando lo allungò per afferrarle, il suo pugnetto restò vuoto. Si rese conto, successivamente, che le linee fluttuanti erano luce: raggi di sole che si inclinavano in strisce tra le tendine della sua stanza, tra gli scuri in legno della sala da pranzo, fra le grate incrociate della serra. Il giorno in cui comprese che il flusso dorato era luce rise forte per la pura gioia della scoperta, e Papà si voltò, smettendo di invasare fiori, e le sorrise.
L’intera casa era piena di luce. La luce riverberava dal lago, scorreva sugli alti soffitti bianchi, formava chiazze sui lucidi pavimenti in legno. Lei e Alice si muovevano in continuazione attraverso la luce, e a volte Leisha si fermava e tirava indietro la testa perché quella luce le inondasse il volto. Riusciva a sentirla, quasi fosse acqua.
La luce migliore, ovviamente, era quella della serra. Era lì che a Papà piaceva stare quando era a casa e non stava a far soldi. Papà invasava le piante e annaffiava gli alberi, fischiettando mentre Leisha e Alice correvano fra le tavole di legno cariche di fiori che emanavano meravigliosi profumi di terra; correvano dalla parte in ombra della serra dove crescevano i grandi fiori color porpora fino al lato a sole con i suoi spruzzi di fiori gialli, scorrazzando avanti e indietro, dentro e fuori dalla luce. — Sviluppo i fiori che mantengono la loro promessa — le diceva Papà. — Alice, sta’ attenta! Hai quasi fatto ribaltare quell’orchidea! — Alice, obbediente, smetteva di correre per un po’. Papà non diceva mai a Leisha di smettere di correre.
Dopo qualche tempo la luce se ne andava. Alice e Leisha facevano il bagno, e poi Alice si mostrava più tranquilla o capricciosa, Non voleva giocare con Leisha, nemmeno se Leisha le lasciava scegliere il gioco o prendere le bambole migliori. A quel punto, la Tata portava a letto Alice e Leisha parlava con Papà ancora un po’, finché lui non le diceva che doveva andare a lavorare nel proprio studio con tutte le carte che gli facevano fare soldi. Leisha provava sempre un istante di rammarico perché lui doveva andarsene per quel motivo, ma il momento non durava mai a lungo perché arrivava Mamselle e iniziava le lezioni di Leisha, che a lei piacevano molto. Era così interessante imparare le cose! Sapeva già cantare venti canzoni, scrivere tutte le lettere dell’alfabeto e contare fino a cinquanta. Nel momento in cui le lezioni erano terminate, la luce era tornata ed era tempo di colazione.
Quello della colazione era l’unico momento che a Leisha non piaceva. Papà era già andato in ufficio, e Leisha e Alice consumavano la colazione con la Mamma nella grande sala da pranzo. La Mamma era seduta, indossava una vestaglia rossa che a Leisha piaceva e non aveva lo strano odore o lo strano modo di parlare che la caratterizzavano più avanti, nella giornata; tuttavia la colazione non era divertente. La Mamma iniziava sempre con La Domanda.
— Alice, tesoro, come hai dormito?
— Bene, Mamma.
— Hai fatto dei bei sogni?
Per un lungo periodo la risposta di Alice fu no. Quindi un giorno disse: — Ho sognato un cavallo. Lo stavo cavalcando. — La Mamma batté le mani, baciò Alice e le dette un’ulteriore ciambellina. Da quel momento in poi, Alice ebbe sempre un sogno da raccontare alla Mamma.
Una volta Leisha disse: — Anch’io ho fatto un sogno. Ho sognato che la luce arrivava dalla finestra e mi avvolgeva come una coperta e poi mi baciava sugli occhi.
La Mamma appoggiò la tazza di caffè sulla tavola così bruscamente che il caffè si riversò fuori. — Non dirmi bugie, Leisha. Non hai fatto alcun sogno.
— Sì, invece — insistette Leisha.
— Solo i bambini che dormono possono sognare. Non dirmi bugie. Tu non hai sognato.
— Sì invece! Sì! — gridò Leisha. Riusciva quasi a vederlo: la luce che scorreva attraverso la finestra e le si avvolgeva attorno come una coperta dorata.
— Non tollererò una bambina bugiarda! Mi hai capito, Leisha… non lo tollererò!
— Sei tu la bugiarda! — gridò Leisha, sapendo che le parole non erano vere, odiandosi perché non erano vere ma odiando la Mamma ancor di più, e anche questo era sbagliato e c’era lì Alice seduta, paralizzata, con gli occhi sbarrati; Alice era terrorizzata ed era colpa di Leisha.
La Mamma chiamò con voce tagliente: — Tata! Tata! Porti immediatamente Leisha nella sua camera. Non può restare seduta in mezzo a persone civili se non riesce a trattenersi dal dire bugie!
Leisha cominciò a piangere. La Tata la portò fuori dalla sala. Leisha non aveva fatto nemmeno colazione. Tuttavia non era quello che le importava: ciò che riusciva a vedere mentre piangeva erano gli occhi di Alice, terrorizzati in quel modo, che riflettevano spezzoni di luce.
Leisha non pianse a lungo. La Tata le raccontò una storia e giocò con lei a "salta i dati", quindi arrivò anche Alice e la Tata le portò tutt’e due allo zoo di Chicago dove c’erano bellissimi animali da vedere, animali che Leisha non poteva aver sognato… e
— Non si preoccupi — rispose Papà. — La porterò con me.
— No! — gridò Leisha, perché Papà aveva addosso solo le mutande, e il suo collo era sembrato così strano e la stanza puzzava a causa della Mamma. Tuttavia Papà la portò nella serra, la appoggiò su una panca, si avvolse attorno un pezzo di telo in plastica verde che serviva per coprire le piante e si sedette accanto a lei.
— Adesso dimmi: che cos’è successo, Leisha? Che cosa stavi facendo?
Leisha non rispose.
— Stavi guardando la gente che dorme, vero? — disse Papà e, poiché la sua voce era molto dolce, Leisha bofonchiò. — Sì. — Si sentì immediatamente meglio: era bello non mentire.
— Stavi guardando la gente che dorme perché tu non dormi ed eri curiosa, vero? Come George il Curioso del tuo libro?
— Sì — rispose Leisha. — Avevo capito che tu stavi a fare soldi nel tuo studio tutta la notte!
Papà sorrise. — Non tutta la notte. In parte. Poi però dormo, anche se non molto — Si mise Leisha sulle ginocchia. — Non ho bisogno di molto sonno, e quindi riesco a fare molte più cose di notte rispetto alla maggior parte della gente. Persone diverse hanno bisogno di una diversa quantità di sonno. E poche, pochissime, sono come te. Tu non ne hai bisogno affatto.
— Perché no?
— Perché tu sei speciale. Migliore delle altre persone. Prima che tu nascessi ho chiesto ad alcuni dottori che ti facessero così.
— Perché?
— Perché tu potessi fare tutto quello che vuoi e manifestare la tua individualità.
Leisha si mosse fra le sue braccia per poterlo fissare: quelle parole non significavano nulla per lei. Papà allungò una mano e toccò un fiore singolo che stava crescendo su un alto albero in vaso. Il fiore mostrava spessi petali bianchi come la panna che lui versava nel caffè e, nel centro, era leggermente rosato.
— Vedi, Leisha… questo albero ha prodotto questo fiore. Perché
il fiore
— Sì — disse Papà allegramente.
— Allora nessun altro può fare soldi? Come solo quell’albero può fare quel fiore?
— Nessun altro può farlo proprio nel modo in cui lo faccio io.
— Che cosa fai con i soldi?
— Compero delle cose per te. Questa casa, i tuoi vestiti, pago Mamselle per insegnarti, l’automobile in cui viaggiare.
— Che cosa fa l’albero con il fiore?
— Si gloria di esso — rispose Papà, il che non aveva alcun senso. — È la superiorità quello che conta, Leisha. L’eccellenza sostenuta dallo sforzo individuale. E questo è
Ogni settimana la dottoressa Melling andava a trovare Leisha e Alice, a volte da sola, a volte con altre persone. Sia a Leisha sia ad Alice la dottoressa Melling piaceva molto perché rideva un sacco e aveva occhi brillanti e affettuosi. Spesso c’era anche Papà. La dottoressa Melling giocava con loro, prima con Alice e Leisha separatamente e poi insieme, Scattava loro fotografie e le pesava. Le faceva stendere su una tavola e appiccicava loro piccole cose metalliche sulle tempie, il che sembrava un po’ spaventoso ma non lo era, in realtà, perché c’erano sempre tanti macchinari da guardare e producevano tutti rumori interessanti mentre loro restavano stese lì. La dottoressa Melling era brava quanto Papà a rispondere alle domande. Una volta Leìsha aveva chiesto: — La dottoressa Melling è una persona speciale? Come Kenzo Yagai? — Papà aveva riso, lanciando un’occhiata alla dottoressa Melling, e aveva risposto: — Oh, decisamente sì.
Quando Leisha compì cinque anni, lei e Alice iniziarono a frequentare la scuola. L’autista di Papà le portava ogni giorno a Chicago. Erano in classi differenti e questo seccava moltissimo a Leisha. I bambini nella classe di Leisha erano tutti più grandi tuttavia, dal primo giorno, lei adorò la scuola, col suo affascinante equipaggiamento scientifico, i cassetti elettronici pieni di misteri matematici e gli altri bambini con cui cercare le nazioni sulle carte geografiche. Dopo metà anno era stata spostata in un’altra classe, in cui i bambini erano ancora più grandi, ma anche quelli si erano dimostrati carini con lei. Leisha cominciò a imparare il giapponese. Le piaceva dipingere i magnifici caratteri sulla spessa carta bianca. — La Sauley School è stata un’ottima scelta — disse Papà.
Ad Alice, invece, la Sauley School non piaceva affatto. Voleva andare a scuola con lo stesso pulmino giallo della figlia di Cook. Alla Sauley School piangeva e buttava tutti i disegni sul pavimento. Poi la Mamma era uscita dalla sua camera… Leisha non l’aveva vista per qualche settimana, anche se sapeva che invece Alice era stata con lei… e aveva gettato a terra alcuni candelieri che si trovavano sulla cappa del caminetto. I candelieri, che erano di porcellana, si erano rotti. Leisha era corsa a raccogliere i pezzi mentre la Mamma e Papà avevano continuato a gridarsi contro a vicenda, nell’atrio presso la grande scalinata.
— È anche mia figlia! E io dico che può andare!
— Non hai il diritto di dire proprio niente in proposito! Piagnucolosa ubriacona, il più marcio dei modelli possibili per entrambe. E io che pensavo di essermi preso un’elegante aristocratica inglese!
— Hai quello per cui hai pagato! Nulla! Non che tu abbia mai avuto bisogno di niente né da me né da nessun altro!
— Smettetela! — gridò Leisha. — Smettetela! — Ci fu silenzio nell’atrio. Leisha si tagliò le dita con i frammenti di porcellana: il sangue cominciò a colare sul tappeto. Papà le corse incontro e la prese in braccio. — Smettetela! — singhiozzò Leisha e non comprese quando suo padre le disse tranquillamente: —