— Permesso di attraccare — disse con espressione seria il ragazzino lentigginoso. Mimò un mezzo saluto militare e sorrise. Per lui si trattava ancora di un’avventura.
— Salve, Jason — disse Christy Demetrios. — Salve, Drew. Venite dentro.
Jason Reynolds. Ecco il nome del ragazzo. Adesso lo ricordavo. Il figlio di Alexandra, la nipote di Kevin. Qualcosa di lui mi colpì la memoria, una nervosa forma vivace, come una fila di perline. Non riuscivo a ricordare.
Jason attraccò. Una trentina di metri di vegetazione modificata geneticamente, fiori, cespugli e alberi, tutto facente parte del progetto. Le piante crescevano fino al margine dell’acqua. Quando il mare si faceva minaccioso, si accendeva uno scudo a energia-Y in grado di proteggere da un uragano perfino la più delicata rosa modificata geneticamente. Al di là del giardino, si stagliavano repentinamente le mura della tenuta, sottili come carta, più resistenti del diamante. Miri mi aveva detto che erano spesse soltanto una dozzina di molecole, costruite da nano-macchinari di seconda generazione a loro volta fatti da nano-macchinari. Nella mente vidi la bianchezza glassata delle mura, cui non poteva aderire alcuno sporco, come un movimento rosso scuro, denso e inarrestabile quanto la lava.
Lì nulla era arrestabile.
— Drew! — Miri mi corse incontro, indossando pantaloncini bianchi e una camiciona, la massa dei suoi capelli scuri legata con un nastro rosso. Aveva messo un rossetto rosso. Sembrava ancora più una sedicenne che non una ventinovenne. Mi abbracciò forte sulla carrozzella e io sentii il veloce battito del suo cuore contro la guancia. Il Super-metabolismo è molto più accelerato rispetto al nostro. La baciai.
Mi mormorò nei capelli: — Questa volta è passato troppo tempo. Quattro mesi!
— È stata una bella tournée, Miri.
— Lo so. Ho visto sedici rappresentazioni in olo-visione e le statistiche dei concerti sembrano buone.
Mi si accovacciò in grembo. Jason e Christy erano discretamente svaniti. Ci trovavamo soli nello sfolgorante giardino appena creato. Accarezzai i capelli di Miri non volendo ascoltare ancora le statistiche riguardanti le rappresentazioni.
Miri disse: — Ti amo.
— Anch’io ti amo.
La baciai nuovamente, questa volta per evitare di guardarla in viso. Sarebbe stato accecante, incandescente per l’amore. Lo era sempre quando mi vedeva. Sempre. Da tredici anni. "Era capace di una ossessività completa" aveva detto Leisha di suo padre. "Logorava le persone."
— Mi manchi così tanto quando sei via, Drew.
— Anche tu mi manchi. — Questo era vero.
— Vorrei che tu potessi restare per più di una settimana.
— Anche io. — Questo non era vero. Ma non esistevano parole.
A quel punto mi guardò a lungo. Qualcosa si mosse dietro ai suoi occhi. Con grande attenzione, per non far male alle mie gambe menomate, scese dalle mie ginocchia, allungò le mani e sorrise. — Vieni a vedere il lavoro al laboratorio.
Capii subito di cosa si trattava: Miri mi stava offrendo il meglio che aveva. Il regalo più prezioso del mondo. La cosa di cui io volevo disperatamente essere parte, anche se non avrei mai potuto capirla, perché non esserne parte significava essere insignificanti. Poco importanti. Mi stava offrendo ciò di cui avevo maggiormente bisogno.
Io non potevo fare di meno.
La feci sedere sulle mie ginocchia, mi costrinsi a muovere le mani sul suo seno. — Dopo. Prima non possiamo starcene un po’ soli…
Il volto di lei aveva la forma curva della gioia, troppo sfolgorante per poter essere di qualsiasi colore.
La camera da letto di Miri, come tutte le altre camere da letto a La Isla, era spartana. Letto, toeletta, terminale, un tappeto verde ovale di un materiale soffice inventato da Sara Cerelli. Sulla toeletta un vaso verde di fiori fragranti modificati geneticamente che non riconobbi. Quelle persone, che potevano ottenere qualsiasi lusso, vi indulgevano raramente. L’unico gioiello che Miri aveva mai portato era l’anello che le avevo dato io, una sottile vera incastonata di rubini. Non avevo mai visto gli altri Insonni portare alcun tipo di gioiello. Tutte le loro stravaganze, mi aveva detto una volta Miri, erano di tipo mentale. Perfino la luce era comune: piatta, senza ombre.
Pensai alla biblioteca di Leisha nella casa del Nuovo Messico.
Miri si sbottonò la camicia. Il suo seno aveva lo stesso aspetto di quando lei era sedicenne: pieno, latteo, coronato da pallide areole scure. Si sfilò i pantaloncini. Aveva i fianchi larghi, la vita tozza. Il pelo pubico era cespuglioso, irto e dello stesso nero dei capelli, sempre legati dal nastro rosso. Allungai la mano e sciolsi il fiocco.
— Oh, Drew, mi sei mancato tanto…
Mi sollevai dalla carrozzella fino al suo letto stretto e poi la tirai sopra di me. Il suo seno si schiacciò sul mio petto, soffice sul duro. In tournée o no, allenavo la parte superiore del corpo in modo fanatico, per compensare le gambe menomate. A Miri piaceva. Le piaceva sentire le mie braccia che la serravano contro di me. Le piaceva che le mie spinte fossero dure, decise, perfino violente. Cercai di darle tutto questo, ma questa volta rimasi molle.
Mi guardò con espressione interrogativa, scostandosi i neri capelli cespugliosi dalla faccia. Non incrociai il suo sguardo. Allungò una mano e cominciò a massaggiarmi dolcemente.
Era successo soltanto poche volte, tutte recentemente. Miri prese a massaggiare con maggior vigore.
— Drew…
— Dammi qualche minuto, amore.
Lei sorrise con aria incerta. Cercai di concentrarmi e poi di non concentrarmi.
— Drew…
— Ssssst… soltanto un minuto.
Le grigie forme del fallimento mi ghermirono la mente.
Chiusi gli occhi, strinsi più forte Miri e pensai a Leisha. Leisha nel crepuscolo del Nuovo Messico, una indefinita forma dorata contro il tramonto. Leisha che cantava per farmi addormentare quando avevo dieci anni. Leisha che correva nel deserto, agile e snella, inciampando nella tana di un topo-canguro e storcendosi una caviglia. L’avevo riportata in braccio fino alla tenuta, col suo corpo leggero e dolce fra le mie braccia di diciottenne. Leisha al funerale di sua sorella, con le lacrime che le facevano riflettere tutta la luce, nuda nel dolore. Leisha nuda come non l’avevo mai vista…
— Ohhhh — cantilenò Miri trionfante.
Rotolai in modo da trovarmi sopra. Miri preferiva così. Spinsi forte, poi più forte. Le piaceva davvero duro. Alla fine la sentii rabbrividire sotto di me e mi lasciai andare.
In seguito rimasi immobile con gli occhi chiusi, Miri accovacciata accanto a me con la testa sulla mia spalla. Per un breve trafiggente momento ricordai come era stato l’amore fra noi un decennio prima, all’inizio, quando il solo tocco della sua mano poteva farmi rabbrividire e ribollire. Cercai di non pensare, di non avvertire alcuna forma.
Era tuttavia impossibile creare il vuoto nella mente. Ricordai improvvisamente la cosa che mi era passata per la testa riguardo a Jason Reynolds, il bis-nipote di Kevin Baker. L’anno precedente, il ragazzo aveva rischiato di affogare. Era uscito con una motolancia sul Golfo tuffandosi direttamente nell’uragano Julio. Huevos Verdes lo aveva trovato soltanto perché Terry Mwakambe aveva sviluppato un misterioso dispositivo per rintracciarlo e Jason era stato strappato alla morte.
Quando si era ripreso, Jason aveva ammesso di sapere che l’uragano era in arrivo. Non stava cercando di suicidarsi, aveva detto con espressione seria. Tutti gli avevano creduto: gli Insonni non si suicidano. Sono troppo innamorati delle loro menti per porre loro fine. Mentre tutti incombevano sul suo letto, i genitori, Kevin, Leisha, Miri, Christy e Terry, Jason aveva detto con un filo di voce che non sapeva che il mare si sarebbe agitato tanto e tanto in fretta. Aveva solamente voluto sentire la barca ballare un bel po’. Aveva soltanto voluto guardare l’immenso e infuriato cielo e sentire la pioggia che lo sferzava. Lui, un Insonne, aveva soltanto voluto sentirsi vulnerabile.
Miranda sussurrò: — Nessuno riesce mai a farmi sentire come sai fare tu, Drew. Nessuno.
Tenni gli occhi chiusi, facendo finta di dormire.
Nel tardo pomeriggio andammo nei laboratori. Sara Cerelli e Jonathan Markowitz erano già lì: indossavano pantaloncini corti ed erano a piedi nudi. Uno dei requisiti del progetto prevedeva che, in tutti gli stadi, nulla dovesse essere sterile.
— Salve, Drew — disse Jon. Sara fece un cenno col capo. La loro concentrazione sul lavoro creava forme chiuse e indistinte nella mia mente.
Un goccia di tessuto era appoggiata su un basso vassoio aperto posto su un banco del laboratorio, collegata a macchinari tramite sottili tubi e anche più sottili cavi. Dozzine di monitor circondavano le stanze. Nulla di ciò che vi veniva mostrato mi risultava comprensibile. Il tessuto sul vassoio aveva il colore della carne, un bruno grigiastro, ed era privo di una forma particolare. Sembrava potesse cambiare sagoma, filtrando in qualcosa d’altro. Durante la mia ultima visita, Miri mi aveva detto che non poteva farlo. Nessun Insonne è schizzinoso. Non lo sono neanche io, ma le forme che strisciavano dentro e fuori dalla mia mente mentre osservavo quella cosa erano pallide, chiazzate e puzzavano di umido, anche se risultavano nette come diamanti nei contorni. Come le mura di Huevos Verdes costruite tramite nanotecnologia.
Dissi stupidamente: — È vivo.
Jon sorrise. — Oh, certo. Ma non senziente. Quanto meno non… — La sua voce si affievolì e io mi resi conto che non riusciva a trovare le parole giuste perché tutti i termini che sceglieva sarebbero stati troppo semplici, troppo incompleti per le sue idee… e tuttavia ancora troppo difficili perché io potessi seguirlo. Miri mi aveva detto che Jon, ben più degli altri, eccetto Terry Mwakambe, pensava secondo concetti matematici. La stessa cosa valeva comunque per tutti loro, anche per Miri: la sua parlata era rallentata di un quarto di battuta. Mi ero trovato a parlare anch’io così soltanto un mese prima. Lo stavo facendo con il bis-nipote di Kevin Baker che aveva quattro anni.
Miri tentò di spiegare: — Il tessuto è un computer organico di macro-livello, Drew, con una limitata programmazione di simulazione di organi, inclusi i sistemi nervoso, cardiovascolare e gastrointestinale. Abbiamo aggiunto i loop di feedback auto-monitorizzanti di Strethers e assemblatori sub-molecolari auto-riproducentesi a braccio singolo. Può avvertire i processi biologici programmati e relazionare dettagliatamente su di essi. Ma non possiede né sensibilità né volontà.
— Oh — commentai io.
La cosa si mosse leggermente sul vassoio. Io distolsi lo sguardo. Miri, ovviamente, se ne accorse. Si accorge sempre di tutto.
Disse con espressione tranquilla: — Ci stiamo avvicinando. Ecco cosa significa. Da quando abbiamo fatto la scoperta della batteriorodopsina, ci stiamo avvicinando moltissimo.
Mi costrinsi a guardare nuovamente la cosa. Sottilissimi capillari pulsavano sotto la superficie. Le forme umide e pallide nella mia mente continuavano a strisciare come larve sulla roccia.
Miri disse: — Se versiamo una soluzione nutriente sul vassoio, Drew, può selezionare e assorbire ciò di cui ha bisogno e scinderlo per trarne energia.
— Che genere di soluzione nutriente? — Avevo imparato abbastanza durante la mia ultima visita da essere in grado di porre quella domanda.
Miri fece una smorfia. — Proteine e glucosio, nella maggior parte. C’è ancora parecchia strada da fare.
— Hai risolto il problema di trarre l’azoto direttamente dall’aria? — Avevo memorizzato questa domanda. Essa mi creò una forma cava e metallica nella mente. Miri però sorrise in modo raggiante.
— Sì e no. Abbiamo progettato il micro-organismo, ma la ricettività del tessuto sta ancora fallendo sul fattore Tollers-Hilbert, specialmente per quanto riguarda le fibrille epidermiche. Per quanto invece attiene al problema dell’endocitosi dell’azoto tramite ricettore… nessun progresso.
— Oh — dissi io.
— Lo risolveremo — disse Miri un quarto di battuta troppo lentamente. — È solo questione di progettare i giusti enzimi.
Sara disse: — Noi chiamiamo questa cosa Galwat. — Lei e Jon si misero a ridere.
Miri spiegò velocemente: — Da Galatea, sai. E da Erin Galway. Oltre a John Galt, il personaggio immaginario che voleva fermare il motore del mondo. Ovviamente, poi, dalle equazioni di trasferimento di Worthington…
— Ovviamente — commentai io. Non avevo mai sentito parlare né di Galatea, né di Erin Galway, né di John Galt, né di Worthington.
— Galatea viene da un mito greco. Uno scultore…
— Adesso andiamo a vedere le statistiche sulla mia rappresentazione — dissi. Sara e Jon si lanciarono un’occhiata. Io sorrisi e tesi una mano verso Miri. Lei l’afferrò con forza, e io la sentii tremare.
(Veloci forme frementi mi riempirono la mente, sottili come carta. Spesse soltanto una dozzina di molecole. Si appoggiarono su una roccia, ruvida, dura e vecchia quanto la Terra. Il fremito si fece sempre più veloce, la sottile carta chiara divenne rosso incandescente e la roccia si frantumò. Nel suo cuore c’era un biancore lattiginoso, che pulsava di vene indistinte.)
Miri chiese: — Non vuoi vedere l’ultimo lavoro di Nikos e Alien sul Depuratore Cellulare? Sta procedendo molto più velocemente di questo! Inoltre Christy e Toshio hanno fatto un passo avanti rivoluzionario sulla programmazione per il controllo degli errori nell’assemblatore di proteine…
— Adesso vediamo le statistiche sulla rappresentazione.
Lei annuì una, due, quattro volte. — Le statistiche sono buone, Drew. C’è però uno strano picco nei dati nel secondo movimento del tuo concerto. Terry dice che lì dovresti cambiare direzione. È piuttosto complicato.
— Allora me lo spiegherai — dissi io con espressione piatta.
Il suo sorriso era abbacinante. Ancora una volta Sara e Jon si lanciarono un’occhiata a vicenda e non dissero nulla.
La prima volta che Miri mi aveva mostrato come comunicavano i Super fra loro, non ero riuscito a crederci. Era accaduto tredici anni prima, subito dopo che erano scesi dal Rifugio. Lei mi aveva condotto in una stanza con ventisette olo-palchi posti su ventisette scrivanie da terminale. Ognuno di essi era stato programmato per "parlare" un linguaggio diverso, basato sull’inglese, ma modificato rispetto alle stringhe di pensiero del proprietario. Miri, sedici anni, mi aveva spiegato una delle sue stringhe di pensiero.
— Supponiamo che tu mi dica una frase. Una sìngola frase.
— Hai un bel seno.
Lei era arrossita, una chiazza marrone sulla pelle scura. Aveva effettivamente un bel seno e dei bei capelli. Essi compensavano un po’ la grossa testa, il mento bitorzoluto e il portamento goffo. Non era graziosa ed era troppo intelligente per non saperlo. Volevo farla sentire graziosa.
Aveva detto: — Scegli un’altra frase.
— No. Usa quella.
Lo aveva fatto. Aveva parlato al computer e l’olo-palco aveva cominciato a formare una forma tridimensionale di parole, immagini e simboli collegati insieme da scintillanti linee verdi.
— Vedi, mette in evidenza le associazioni che crea la mia mente, basandosi sull’archivio di stringhe di pensiero passate e su algoritmi che rappresentano il mio modo di pensare. Da sole poche parole, estrapola, prevede e rispecchia. Il programma è chiamato in effetti "specchio mentale". Cattura circa il novantasette per cento dei miei pensieri, circa il novantadue per cento delle volte e poi io posso aggiungere il resto. La parte migliore è…
— Tu pensi in questo modo per ogni frase? Ogni "singola frase"? — Alcune delle associazioni erano ovvie: "seno" collegato con nutrire un bambino, per esempio. Ma perché mai il bambino era poi collegato con qualcosa che si chiamava "Costante di Hubble" e perché nella stringa era compresa anche la Cappella Sistina? Oltre a un nome che non conoscevo: Chidiock Tichbourne?