— Sì — aveva detto Miri. — Ma la parte migliore…
— Pensate tutti in questo modo? Tutti i Super?
— Sì — aveva risposto tranquillamente lei. — Anche se Terry, Jon e Ludie pensano fondamentalmente tramite concetti matematici. Sono più giovani del resto di noi, rappresentano il successivo ciclo di riprogrammazione del QI.
Non avrei mai saputo effettivamente che cosa significassero le mie parole per lei in tutti i loro livelli. Nemmeno una delle mie parole. Mai.
— Ti spaventa, Drew?
Mi aveva guardato dritto negli occhi. Potevo avvertire tutta la sua paura, e la sua determinazione. Il momento era importante. Continuava a crescere nella mia mente una incombente parete bianca cui nulla poteva aderire, finché non trovai la risposta giusta.
— Io penso in forme per ogni frase.
Il sorriso le aveva completamente mutato i lineamenti del volto, aprendoli e illuminandoli. Avevo detto la cosa giusta. Fissai la scintillante complessità verde dell’olo-palco mentre un globo tridimensionale che ruotava lentamente lo stipava di piccole immagini, equazioni e, soprattutto, parole. Così tante parole complicate.
— Allora siamo uguali — aveva detto Miri felice. Io non l’avevo corretta.
— La parte migliore — aveva sparato velocemente Miri, ormai completamente a proprio agio — avviene dopo che la stringa di pensiero estrapolata si è formata e, se necessario, è stata rimaneggiata: il programma principale la traduce negli schemi di pensiero di tutti gli altri ed essa riappare in quel modo sui loro olo-palchi. Simultaneamente su tutti e ventisette i terminali. In questo modo siamo in grado di bypassare le parole e avere l’idea completa di quello che stiamo pensando, trasmettendo più efficientemente l’uno con l’altro. Be’, non l’idea completa. C’è sempre qualcosa che si perde nella traduzione, specialmente in quella rivolta a Terry, Jon e Ludie. Ma è di gran lunga migliore rispetto al linguaggio. Proprio come i tuoi concerti sono migliori rispetto al sognare a occhi aperti privo di assistenza.
Sognare a occhi aperti. L’unico modo di sognare che i Super Insonni conoscevano. Fino a quando non ero arrivato io.
Quando un Insonne cadeva nella trance del Sogno Lucido, il risultato era differente rispetto a quando lo faceva un Vivo. E anche un Mulo. I Vivi e i Muli possono sognare di notte. Hanno quel genere di connessione con il loro inconscio e io la dirigo e la intensifico in un modo per loro gradevole: sia tranquillizzante, sia stimolante. Mentre sognano lucidamente, essi si sentono — in alcuni casi per la prima volta nella loro vita — completi. Io li porto più avanti lungo la strada verso i loro veri se stessi, più profondamente al di sotto del velo della veglia. Io dirigo i sogni verso le più dolci tra le cose che li aspettano lì.
Gli Insonni invece non sognano di notte. La loro strada verso l’inconscio è stata interrotta geneticamente. Quando gli Insonni cadono nella trance da Sogno Lucido, mi aveva detto Miri, hanno "intuizioni" che non avevano mai avuto in precedenza. Riescono a risalire al di sopra della loro infinita giungla di parole, uscendo dallo stato di trance con soluzioni intuitive rispetto a problemi intellettuali. I geni spesso hanno agito così durante il sonno, dice Miri. Mi ha fornito l’esempio di grandi scienziati. Ne ho dimenticati i nomi.
Guardando il complesso disegno verbale sul suo olo-palco, ho potuto vederlo nella mente. Creava una forma simile a un sasso pallido e privo di caratterizzazioni, freddo di rammarico. Miri non avrebbe mai visto quella forma nella mia mente. Peggio ancora, non avrebbe mai saputo di non vederla. Pensava che, vedendo noi due in modo differente rispetto ai Muli, fossimo simili.
Io avevo voluto essere parte di ciò che stava accadendo a Huevos Verdes. Già allora mi ero reso conto che il progetto avrebbe cambiato il mondo. Chiunque non fosse stato attore nel progetto ne sarebbe stato il burattino.
— Già, Miri — le avevo detto sorridendo — siamo uguali.
Su un tavolo da lavoro in un altro laboratorio, Miri stese le statistiche di prestazione della mia tournée di concerti. La copia cartacea era per me: i Super analizzavano sempre tutto direttamente sui monitor o sugli ologrammi. Mi chiesi quanto fosse stato lasciato da parte o semplificato a mio beneficio. Terry Mwakambe, un ometto basso, scuro, dai lunghi capelli incolti, stava appollaiato immobile sul davanzale della finestra aperta. Alle sue spalle l’oceano scintillava di un profondo azzurro nella luce che si stava affievolendo.
— Guarda qui — disse Miri — a metà della tua rappresentazione di
Non lo dissi a voce alta.
Terry Mwakambe balzò giù dal davanzale. Non aveva detto una sola parola per tutto il tempo in cui ero stato nella stanza. Le sue stringhe di pensiero, diceva Miri, consistevano quasi interamente di equazioni. A quel punto però disse: — Pranzo?
Mi misi a ridere. Non ne potei fare a meno. Pranzo! L’unico legame fra Terry Mwakambe e Drew Arlen!
4
Diana Covington — Kansas
Una notte, in un’altra vita, Eugene che era venuto prima di Rex e dopo Claude, mi chiese a che cosa mi facevano pensare gli Stati Uniti. Era il genere di domanda che Gene preferiva: invitante alla grandiosità metaforica che, a sua volta, invitava al suo disprezzo. Gli risposi che gli Stati Uniti mi erano sempre apparsi come un potente bestione innocente, sontuosamente bello e con la capacità cranica di un piccolo cerbiatto. Guardate come distende gli agili muscoli alla luce del sole. Guardate come salta in alto. Guardate come corre con estrema grazia dritto filato sul percorso del treno in arrivo. Questa risposta aveva avuto la virtù di essere così pomposamente grandiosa che obbiettarvi sullo stesso piano sarebbe stato superfluo. Non era importante che la risposta fosse stata anche vera.
Certo che dalla "mia" ferrovia a gravità riuscivo a vedere abbastanza della carcassa sontuosa e mutilata. Eravamo giunti alle Montagne Rocciose a un quarto di velocità, così che i passeggeri Vivi potessero goderne la spettacolare vista. Maestose montagne di porpora e tutto il resto. Nessun altro guardò fuori dal finestrino. Io ci rimasi incollata, gustando tutta l’asinina superiorità della genuina meraviglia.
A Garden City, nel Kansas, cambiai per salire su un locale, sfrecciando attraverso la rigogliosa campagna a 350 chilometri orari, strisciando attraverso schifosissimi paesi di Vivi a zero all’ora. — Perché non "volare" semplicemente a Washington? — mi aveva chiesto Colin Kowalski, incredulo. — Dopo tutto non sei tenuta a far finta di essere una Viva. — Gli avevo risposto di voler vedere i paesi dei Vivi di cui stavo difendendo l’integrità contro la potenziale corruzione della genetica artificiale. Non aveva gradito la mia risposta più di quanto non avesse fatto Gene.
Be’, adesso li stavo vedendo. La carcassa mutilata.
Ogni paese appariva uguale. Le strade si aprivano a ventaglio dalla stazione della ferrovia a gravità. Case e condomini, alcuni di pura pietra spugnosa e alcuni con la pietra spugnosa aggiunta su edifici più antichi fatti di mattoni cotti o perfino di legno. I colori della pietra spugnosa erano appariscenti: rosa, arancione, cobalto e un popolarissimo verde. L’ozio aristocratico dei Vivi non era accompagnato da un gusto altrettanto aristocratico.
Ogni paese vantava un caffè comunale della dimensione dell’hangar di un aereo, un deposito per i beni di consumo, svariati edifici di logge, un bagno pubblico, un albergo, campi sportivi, una scuola dall’aspetto deserto. Ogni cosa era ricoperta da olo-insegne. Un po’ fuori del paese, appena visibile dalla ferrovia a gravità, c’erano l’impianto a energia-Y e le robo-industrie protette, che facevano funzionare il tutto. E, ovviamente, la pista degli scooter, inevitabile come la morte.
In un qualche punto del Kansas era salita sul treno una famiglia e si era catapultata sui sedili davanti a me. Papà, mamma, tre piccoli Vivi, due dal naso moccioso, tutti con un gran bisogno di dieta e di ginnastica. Rotoli di grasso ballonzolavano sotto la sgargiante tuta gialla di mamma Viva. Il suo sguardo mi sfiorò, proseguì e di colpo mi puntò come quello di un radar.
— Salve — dissi io.
Lei corrugò la fronte e dette una gomitatina al marito. Egli mi guardò, ma non corrugò la fronte. I cuccioli mi fissarono in silenzio, il maschietto, aveva circa dodici anni, con la stessa espressione di suo padre.
Colin mi aveva ammonito di non cercare nemmeno di passare per una Viva: aveva detto che non c’era alcuna possibilità che io potessi ingannare gli Insonni. Io gli avevo risposto che non volevo ingannare gli Insonni: mi volevo solamente mischiare alla fauna locale. Mi aveva detto che non ci sarei riuscita. Apparentemente aveva avuto ragione. Mamma Viva lanciò un’occhiata alle mie gambe lunghe modificate geneticamente, al mio volto studiato, al collo da Anna Bolena che era costato a mio padre un piccolo fondo fiduciario, e seppe. La mia tuta verde veleno, i gioielli di lattine da bibita (molto popolari, li si faceva da soli) e le lenti a contatto color cacca non fecero per lei la benché minima differenza. Papà Figlio non ne erano così sicuri ma, in fondo, non gliene importava molto.
— Mi chiamo Darla Jones — dissi allegramente. Avevo una tasca di sicurezza piena di vari tesserini con vari nomi, alcuni forniti dall’ECGS, altri di cui loro non sapevano nulla. È un errore lasciare che l’Ente ti fornisca completamente la copertura. Potrebbe arrivare il momento in cui ti vuoi nascondere da loro. Tutte le mie identità erano registrate nei data-base federali e sembravano avere un lungo passato, grazie a un amico di talento del quale l’ECGS non conosceva l’esistenza. — Me ne vado a Washington, io.
— Arnie Shaw — disse eccitato l’uomo. — Il treno si è già rotto?
— Nooo — risposi. — Però è probabile che lo farà.
— Che ci si può fare?
— Niente.
— Mantiene vivo l’interesse.
— Arnie — disse in modo tagliente mamma Viva interrompendo questo inconsistente
Un minuto dopo mamma Viva si profilò all’orizzonte. — Tieniti il tuo braccialetto, tu. Desdemona, lei, ha i suoi gioielli!
Desdemona. Ma dove sentivano quei nomi? Shakespeare non viene recitato sulle piste degli scooter.
La donna mi guardò con un’espressione durissima. — Ascoltami bene, tu te ne devi stare con quelli del tuo genere e noi con quelli del nostro. Meglio così. Hai capito, tu?
— Sì, signora — le dissi e mi tolsi le lenti. I miei occhi sono di un intenso viola modificato geneticamente. La fissai con calma, le mani ripiegate in grembo.
Lei se ne andò camminando come una papera, bofonchiando. Colsi le sue parole: — Quella gente…
— Se scoprirò di non poter passare per una Viva — avevo detto a Colin — passerò per un Mulo semi-impazzito che cerca di passare per Vivo. Non sarei certo il primo Mulo che vuole tornare alla natura. Hai presente il tipo della classe lavoratrice che cerca pateticamente di passare per un aristocratico. Nascondersi in bella vista.