«Così mi hanno detto sulla Terra» balbettò Gibson, colto alla sprovvista. Avrebbe scoperto presto che la sincerità era una delle principali virtù del Capo Supremo marziano, una qualità che non lo rendeva certo simpatico a molta gente. «Temevate che vi avrei dato fastidio?»
«Sì. Ma adesso che siete qui faremo quello che potremo per voi. E mi auguro che voi farete altrettanto per noi.»
«In che senso?» chiese Gibson mettendosi sulla difensiva.
Hadfield si protese in avanti intrecciando le mani in un gesto febbrile.
«Siamo in guerra, signor Gibson. Siamo in guerra con Marte e con tutte le sue forze ostili: il freddo, la mancanza d’acqua, la mancanza d’aria. E siamo in guerra con la Terra. Una guerra burocratica, si capisce, ma che ha ugualmente le sue vittorie e le sue sconfitte. Sto combattendo una campagna a un capo di una linea di rifornimento lunga, come sapete, cinquanta milioni di chilometri. I generi più urgenti impiegano almeno cinque mesi ad arrivare, e io li ricevo solo se sulla Terra hanno deciso che proprio non posso
«Apprezzo la vostra schiettezza. I fatti però non sono tutto. Mi auguro che vorrete spiegare alla Terra più quello che ci proponiamo di realizzare che i risultati già raggiunti. I progetti sono molto più importanti, ma potremo realizzarli soltanto se la Terra ci darà il suo appoggio. Purtroppo non tutti quelli che vi hanno preceduto se ne sono resi conto.»
Era verissimo, rifletté Gibson. Ricordava perfettamente tutta una serie di articoli comparsi sul
«È appunto questo il guaio. Non credono che sia possibile, oppure, anche ammessane l’eventualità, la ritengono un’esperienza inutile. Si leggono spesso articoli nei quali si dice che Marte sarà sempre una palla al piede, per via delle spaventose difficoltà naturali nelle quali si è costretti a operare.»
«Non vi sembra che ci sia qualche analogia tra Marte e le prime colonie americane?»
«Il paragone non è molto calzante. Dopo tutto, quando arrivarono in America i lontani pionieri vi trovarono aria che potevano respirare e cibo che potevano mangiare!»
«Questo è vero, ma anche se il problema della colonizzazione di Marte è infinitamente più complesso, non bisogna dimenticare che oggi abbiamo a nostra disposizione forze infinitamente maggiori di allora. Purché ci sia concesso tempo e materiali, possiamo fare di questo mondo un paese facile e comodo da abitare quanto la Terra. Già adesso non sono molti coloro che desiderano tornare indietro, perché capiscono l’importanza di quello che stanno creando. Forse la Terra oggi non ha ancora bisogno di Marte, ma un giorno ne avrà.»
«Vorrei potervi credere» disse Gibson senza molta convinzione. E indicò la lussureggiante distesa verde che lambiva come un oceano affamato la cupola pressoché invisibile della città, la sterminata pianura che fuggiva con tanta rapidità oltre il limite dell’orizzonte stranamente angusto, l’arco di alture vermiglie nelle cui braccia si adagiava la piccola colonia. «Marte è un mondo interessante, bello anche. Ma non potrà mai essere come la Terra.»
«E perché dovrebbe esserlo? E poi che cosa intendete per
Whittaker si morse le labbra.
«Credo che entusiasta non sia la parola esatta. Ritengo piuttosto che il Presidente consideri Marte come un nemico da sconfiggere. E così lo consideriamo tutti, naturalmente, ma lui ne ha più motivo di noi. Avete saputo di sua moglie, vero?»
«No.»
«È stata una delle prime persone a morire di febbre marziana, due anni dopo il suo arrivo qui.»
«Oh, capisco» disse Gibson, pensoso. «Ecco perché gli interessa tanto trovare un rimedio.»
«Infatti ci tiene moltissimo. D’altronde quella febbre è una grave minaccia per noi. Su Marte non possiamo permetterci il lusso di ammalarci.»
Quest’ultima osservazione, rifletté Gibson nell’attraversare Broadway (così chiamata perché era la strada principale della cittadina, con una larghezza di ben quindici metri), riassumeva perfettamente la situazione della colonia. Non si era ancora riavuto del tutto dalla delusione iniziale nel constatare quanto fosse piccolo Porto Lowell e sino a che punto mancasse delle comodità e dei lussi a cui era abituato sulla Terra. Con le sue file di piccole case di metallo tutte uguali e i pochi edifici più grandi, nonostante che gli abitanti avessero fatto del loro meglio per rallegrarlo con fiori terrestri, Porto Lowell sembrava più un accampamento militare che una città. E a proposito dei fiori, a causa della scarsa gravità, essi avevano raggiunto proporzioni smisurate, tanto che Oxford Circus era adesso tutto un’esplosione di girasoli alti tre volte un uomo; e benché cominciassero a essere ingombranti nessuno aveva il coraggio di proporne la rimozione. Ma se avessero continuato a crescere con quel ritmo, presto ci sarebbe voluto un taglialegna esperto per abbatterli senza mettere in pericolo l’ospedale cittadino.
Gibson percorse pensosamente la Broadway sino al Marble Arch, che rappresentava il punto d’incontro delle Cupole Uno e Due. Come si era accorto subito, quello era un punto d’incontro obbligato, perché lì sorgeva, in posizione strategica, in prossimità dei molti compartimenti stagni, il
A un tratto Gibson provò un vivo desiderio di abbandonare le strette strade soffocanti e di uscire sotto il cielo aperto. Forse per la prima volta sentì una vera e propria nostalgia della Terra e anelò al pianeta che, così aveva creduto sino a quel momento, aveva ormai tanto poco da offrirgli.
«George» disse all’improvviso, «da quando sono arrivato qui non sono ancora uscito. A quanto pare non sono autorizzato a muovermi senza la scorta di un competente. I vostri primi clienti arriveranno tra un paio d’ore, non prima. Fate il bravo e portatemi fuori attraverso il compartimento stagno, su andiamo, per dieci minuti soltanto!»
Certo, pensò subito Gibson, un poco pentito per essersi lasciato andare così, George doveva considerare la sua richiesta alquanto insensata. Ma si sbagliava: George aveva avuto tante volte quella richiesta da considerarla ormai naturalissima. Dopo tutto il suo mestiere consisteva nell’assecondare i desideri dei clienti, e tutti i nuovi arrivati, dopo qualche giorno passato sotto la cupola, provavano lo stesso desiderio. Il barista si strinse nelle spalle con filosofia, e disparve nel suo misterioso retro-bar per tornarne quasi subito con due maschere a ossigeno e relativi accessori.
«Con una bella giornata come questa non avremo bisogno di tutti gli altri aggeggi strani» disse, mentre Gibson si sistemava la maschera con gesti goffi. «Assicuratevi bene che il tubo di gomma giri esattamente intorno al collo. Benissimo, così. Andiamo. Ma per non più di dieci minuti, mi raccomando!»
Gibson lo seguì pronto come un cane pastore segue il padrone, fino all’uscita della cupola. In quel punto c’erano due compartimenti stagni, il primo, lungo e largo, portava alla Cupola Due, il secondo, più piccolo, sboccava all’aperto. Era un semplice condotto metallico, del diametro di tre metri circa, che conduceva all’esterno attraverso il muro di vetrocemento che ancorava al suolo il flessibile involucro di materiale plastico di cui era fatta la cupola.
Nel condotto c’erano tre porte sistemate a distanza regolare, nessuna delle quali poteva essere aperta se le altre due non erano ben chiuse. A Gibson parve che passassero ore prima che l’ultima porta si aprisse davanti a lui rivelandogli la scintillante pianura verde. La pelle esposta all’aria rarefatta bruciava per la pressione ridotta, però l’atmosfera era sufficientemente calda, e in breve lui si sentì del tutto a suo agio. Completamente dimentico di George si tuffò in quel basso, denso mare vegetale, chiedendosi mentre procedeva, per quale ragione si stringesse così fittamente intorno alla cupola. Forse la vegetazione era attratta dal calore, forse anche dalla debole fuoriuscita dell’ossigeno che inevitabilmente filtrava sia pure in piccolissime quantità dall’interno della cupola.
Dopo poche centinaia di metri si fermò sentendosi finalmente liberato dall’oppressione della cupola. La sua testa era anche adesso completamente chiusa in una specie di scatola, ma questo non aveva molta importanza. Si chinò a osservare le piante che gli arrivavano al ginocchio.
Aveva già visto numerose fotografie di piante marziane. In realtà non avevano niente di straordinario, e la sua cultura botanica era troppo limitata perché lui potesse apprezzarne le caratteristiche. A dire il vero, se si fosse imbattuto in piante come quelle in qualche angolo sperduto della Terra, forse non le avrebbe degnate neppure di un’occhiata. Nessuna gli arrivava oltre la cintola, e quelle che crescevano lì attorno sembravano fatte di lucidi fogli di pergamena verde, sottilissimi ed estremamente resistenti, ed erano foggiate in modo da captare quanta più luce solare possibile senza perdere il loro prezioso contenuto d’acqua. A Gibson sarebbe piaciuto qualche fiore che desse un tocco di colore contrastante a tutta quella massa uniforme di verde smeraldo, ma su Marte non esistevano fiori.