Bradley non si perdette certo ad ammirare le stelle, non appena fu uscito dal portello esterno. Avanzò lentamente lungo la scintillante superficie dello scafo manovrando i suoi dispositivi a reazione finché non raggiunse il tratto di fasciame metallico già rimosso in precedenza. Sotto, una intricata rete di cavi e di fili era esposta all’accecante luce solare, e un cavo era già stato tagliato. Eseguì un rapido collegamento provvisorio, scuotendo tristemente la testa nell’osservare l’orribile pasticcio che certamente avrebbe riverberato metà dell’energia dritto filato nel trasmettitore. Quindi localizzò Arturo e orientò il faro in quella direzione. Poi accese la radio inserita nel casco.
«C’è qualche speranza?» chiese ansiosamente.
Dall’altoparlante gli rispose la voce malinconica di Mackay.
«Nemmeno un briciolo. Ti metto in contatto con l’ufficio comunicazioni.»
Norden confermò quanto aveva detto Mackay.
«Il segnale seguita a pervenire regolarmente, ma niente fa pensare che ci abbia avvistati.»
Bradley non sapeva più che cosa pensare. Fino a quel momento era stato sicurissimo di farcela. Come minimo, grazie al suo sistema, la potenza del faro puntato in quell’unica direzione doveva essere almeno decuplicata.
Richiamò un’altra volta Mackay.
«Senti, Mac» disse in fretta «ho bisogno che tu mi controlli di nuovo quelle coordinate. Poi vieni qui a dare una mano. Io mi occuperò del trasmettitore.»
Non appena Mackay gli ebbe dato il cambio, Bradley tornò di volata nella cabina comunicazioni. Trovò Gibson e gli altri affollati con aria immusonita intorno al monitore da cui giungeva con monotonia esasperante il sibilo ininterrotto del missile lontanissimo e che s’allontanava sempre più.
In Bradley non c’era più traccia di quei suoi movimenti solitamente così pigri, quasi felini, mentre lui esaminava diagrammi di circuito a decine e faceva man bassa nel raccoglitore delle comunicazioni. Gli bastarono pochi secondi per far scorrere un paio di fili nel cuore del trasmettitore del faro. Seguitando a lavorare, bersagliò Hilton con un vero fuoco di fila di domande.
«Tu te ne intendi di questi razzi radiocomandati. Per quanto tempo bisogna inviare i segnali prima che possa dirigersi su di noi con precisione?»
«Molto dipende dalla sua velocità relativa e da parecchi altri fattori. In questo caso, siccome si tratta di una questione di accelerazione ritardata, almeno dieci minuti, secondo me.»
«Dopodiché non avrà importanza se il nostro radiofaro non funzionerà più?»
«No. Appena il missile avrà puntato verso di noi potrai benissimo spegnere. Naturalmente bisognerà mandare un altro segnale, quando ti passerà proprio vicino, ma questo dovrebbe essere facile.»
«Quanto credi che ci metterà ad arrivare, se riesco a captarlo?»
«Forse un paio di giorni, forse meno. Che cosa stai cercando di combinare, adesso?»
«Gli amplificatori di potenza di questo trasmettitore funzionano a settecentocinquanta volt. Sto grattando un migliaio di volt in più da un’altra parte, ecco tutto. Sarà una vita felice ma di breve durata, però racldoppieremo e magari triplicheremo la nostra forza, finché le valvole resisteranno.»
Girò il commutatore delle intercomunicazioni, e chiamò Mackay il quale, non sapendo che il trasmettitore era già stato chiuso da un bel pezzo, seguitava a tenere l’equipaggiamento accuratamente puntato su Arturo. Pareva un Guglielmo Tell in armatura che stesse prendendo la mira con la balestra.
«Ehi, Mac, sei ancora lì?»
«Come un sol uomo» rispose Mackay con dignità. «Per quanto tempo ancora…»
«Cominciamo proprio adesso. Ecco che parte.»
Bradley girò il commutatore. Gibson, il quale si era aspettato di vedere volare scintille, rimase deluso. Tutto sembrava esattamente come prima, ma Bradley, che la sapeva più lunga, guardò i suoi contatori mordendosi furiosamente le labbra.
Alle radioonde sarebbe bastato mezzo secondo per varcare l’abisso che li separava dal minuscolo lontanissimo razzo e dai suoi meravigliosi congegni automatici che sarebbero rimasti privi di vita per l’eternità a meno che la segnalazione di Bradley non li raggiungesse. Il mezzo secondo trascorse, ne trascorse un altro. Il piccolo proiettile aveva avuto tutto il tempo per rispondere, ma dall’altoparlante continuava a uscire ininterrotto, esasperante, l’inesorabile fischio di eterodina. Improvvisamente, un silenzio. Parve durare secoli. A centocinquantamila chilometri di distanza l’automa stava avvertendo il fenomeno nuovo. Gli ci vollero forse cinque secondi per decidersi… poi l’onda portante riprese la sua oscillazione, ma modulata questa volta in una serie interminabile di
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«Un’ora fa avevamo un solo passeggero» disse il dottor Scott mentre passava attraverso il compartimento stagno, stringendosi amorosamente al petto la lunga cassetta metallica. «E adesso ne abbiamo diversi miliardi.»
«Chissà come avranno sopportato il viaggio» disse Gibson.
«A quanto pare i termostati erano in perfetta efficienza, quindi dovrebbero stare benone. Li porto subito nelle culture che ho già preparato, dove spero che vivranno tranquilli e felici finché non saremo su Marte, perché li rimpinzerò da scoppiare.»
«Cosa succederà adesso a quel poveretto?» chiese Gibson al capitano Norden, indicando il missile.
«Ne ricupereremo il meccanismo di controllo e di guida e ne molleremo la carcassa nello spazio. Sarebbe un peccato consumare propellente per portare fin su Marte quel guscio inutile. Perciò, finché non riprenderemo l’accelerazione, avremo una nostra piccola luna personale.»
«Proprio come il cane nel racconto di Giulio Verne.»
«Quale? Quello intitolato