– Metti fuori i denari o sei morto – disse l’assassino più alto di statura.
– Morto! – ripetè l’altro.
– E dopo ammazzato te, ammazzeremo anche tuo padre!
– Anche tuo padre!
– No, no, no, il mio povero babbo no! – gridò Pinocchio con accento disperato: ma nel gridare così, gli zecchini gli sonarono in bocca.
– Ah furfante! dunque i danari te li sei nascosti sotto la lingua? Sputali subito!
E Pinocchio, duro!
– Ah! tu fai il sordo? Aspetta un po’, ché penseremo noi a farteli sputare!
Difatti uno di loro afferrò il burattino per la punta del naso e quell’altro lo prese per la bazza, e lì cominciarono a tirare uno per in qua e l’altro per in là, tanto da costringerlo a spalancare la bocca: ma non ci fu verso. La bocca del burattino pareva ribadita.
Allora l’assassino più piccolo di statura, cavato fuori un coltellaccio, provò a conficcarglielo a guisa di leva e di scalpello fra le labbra: ma Pinocchio, lesto come un lampo, gli azzannò la mano coi denti, e dopo avergliela con un morso staccata di netto[70], la sputò; e figuratevi la sua meraviglia quando, invece di una mano, si accorse di avere sputato in terra uno zampetto di gatto.
Incoraggiato da questa prima vittoria, si liberò degli assassini, e cominciò a fuggire per la campagna. E gli assassini a correre dietro a lui, come due cani dietro una lepre: e quello che aveva perduto uno zampetto correva con una gamba sola.
Dopo una corsa di quindici chilometri, Pinocchio non ne poteva più. Allora si arrampicò su per il fusto di un altissimo pino e si pose a sedere in vetta ai rami. Gli assassini tentarono di arrampicarsi anche loro, ma giunti a metà del fusto sdrucciolarono e, ricascando a terra, si spellarono le mani e i piedi.
Non per questo si dettero per vinti[71]: anzi, raccolto un fastello di legna secche a piè del pino, vi appiccarono il fuoco. Il pino cominciò a bruciare. Pinocchio, vedendo che le fiamme salivano sempre più e non volendo far la fine del piccione arrosto, spiccò un bel salto di vetta all’albero, e via a correre daccapo attraverso ai campi e ai vigneti. E gli assassini dietro, sempre dietro.
Intanto cominciava a baluginare il giorno e si rincorrevano sempre; quand’ecco che Pinocchio si trovò sbarrato il passo[72] da un fosso largo e profondissimo, tutto pieno di acqua sudicia, color del caffè e latte. Che fare? “Una, due, tre!” gridò il burattino, e saltò dall’altra parte. E gli assassini saltarono anche loro, ma non avendo preso bene la misura, patatunfete!.. cascarono giù nel bel mezzo del fosso. Pinocchio che sentì il tonfo e gli schizzi dell’acqua, urlò ridendo e seguitando a correre:
– Buon bagno, signori assassini!
E già si figurava che fossero affogati, quando invece, voltandosi a guardare, si accorse che gli correvano dietro tutti e due, sempre imbacuccati nei loro sacchi, e grondanti acqua.
15. Gli assassini inseguono Pinocchio; e dopo averlo raggiunto, lo impiccano a un ramo della Quercia grande
Allora il burattino fu proprio sul punto di gettarsi in terra, quando vide fra mezzo al verde cupo degli alberi biancheggiare in lontananza una casina candida come la neve.
– Se io avessi tanto fiato da arrivare fino a quella casa, forse sarei salvo! – disse dentro di sé.
E senza indugiare un minuto, riprese a correre per il bosco a carriera distesa. E gli assassini sempre dietro.
Dopo una corsa disperata di quasi due ore, finalmente, tutto trafelato, arrivò alla porta di quella casina e bussò.
Nessuno rispose.
Tornò a bussare con maggior violenza, perché sentiva avvicinarsi il rumore dei passi e il respiro affannoso de’ suoi persecutori. Lo stesso silenzio.
Avvedutosi che il bussare non giovava a nulla, cominciò per disperazione a dare calci nella porta. Allora si affacciò alla finestra una bella Bambina, coi capelli turchini, gli occhi chiusi, la quale, senza muover punto le labbra, disse con una vocina che pareva venisse dall’altro mondo:
– In questa casa non c’è nessuno. Sono tutti morti.
– Aprimi almeno tu! – gridò Pinocchio piangendo.
– Sono morta anch’io.
– Morta? e allora che cosa fai alla finestra?
– Aspetto la bara che venga a portarmi via.
Appena detto così, la Bambina disparve, e la finestra si richiuse senza far rumore.
– O bella Bambina dai capelli turchini, – gridava Pinocchio – aprimi per carità. Abbi compassione di un povero ragazzo inseguito dagli assass…
Ma non potè finir la parola, perché sentì afferrarsi per il collo, e le solite due vociacce che gli brontolarono:
– Ora non ci scappi più!
Il burattino fu preso da un tremito così forte, che nel tremare, gli sonavano le giunture delle sue gambe di legno e i quattro zecchini che teneva nascosti sotto la lingua.
– Dunque? – gli domandarono gli assassini – vuoi aprirla la bocca, sì o no? Ah! non rispondi?… Lascia fare[73]: ché questa volta te la faremo aprir noi!..
E cavati fuori due coltellacci lunghi lunghi e affilati come rasoi, zaff e zaff…, gli affibbiarono due colpi nel mezzo alle reni.
Ma il burattino per sua fortuna era fatto d’un legno durissimo, motivo per cui le lame, spezzandosi, andarono in mille schegge e gli assassini rimasero col manico dei coltelli in mano.
– Ho capito – disse allora un di loro – bisogna impiccarlo!
– Impicchiamolo! – ripetè l’altro.
Detto fatto, gli legarono le mani dietro le spalle, e, passatogli un nodo scorsoio intorno alla gola, lo attaccarono penzoloni al ramo di una grossa pianta detta la Quercia grande.
Poi si posero là, seduti sull’erba, aspettando che il burattino facesse l’ultimo sgambetto: ma il burattino, dopo tre ore, aveva sempre gli occhi aperti e la bocca chiusa.
Annoiati finalmente di aspettare, si voltarono a Pinocchio e gli dissero:
– Addio a domani. Quando domani torneremo qui, si spera che ci farai la garbatezza di farti trovare morto e con la bocca spalancata.
E se ne andarono.
Intanto s’era levato un vento impetuoso di tramontana, che soffiando e mugghiando con rabbia, sbatacchiava in qua e in là il povero impiccato, facendolo dondolare violentemente. E quel dondolio gli cagionava spasimi, e il nodo scorsoio, stringendosi sempre più alla gola, gli toglieva il respiro.
A poco a poco gli occhi gli si appannarono; e sebbene sentisse avvicinarsi la morte, pure sperava sempre che da un momento all’altro sarebbe capitata qualche anima pietosa a dargli aiuto. Ma quando vide che non compariva nessuno, proprio nessuno, allora gli tornò in mente il suo povero babbo… e balbettò quasi moribondo:
– Oh babbo mio! se tu fossi qui!..
E non ebbe fiato per dir altro. Chiuse gli occhi, aprì la bocca, stirò le gambe e, dato un grande scrollone, rimase lì come intirizzito.
16. La bella Bambina dai capelli turchini fa raccogliere il burattino: lo mette a letto, e chiama tre medici per sapere se sia vivo o morto
In quel mentre[74] che il povero Pinocchio impiccato dagli assassini a un ramo della Quercia grande, pareva oramai più morto che vivo, la bella Bambina dai capelli turchini si affacciò daccapo alla finestra, e impietositasi alla vista di quell’infelice che, sospeso per il collo, ballava il trescone alle ventate di tramontana, battè per tre volte le mani insieme, e fece tre piccoli colpi.
A questo segnale si sentì un gran rumore di ale che volavano con foga precipitosa, e un grosso Falco venne a posarsi sul davanzale della finestra.
– Che cosa comandate, mia Fata? – disse il Falco abbassando il becco in atto di riverenza.
– Vedi tu quel burattino attaccato penzoloni a un ramo della Quercia grande?
– Lo vedo.
– Orbene: vola subito laggiù; rompi col tuo fortissimo becco il nodo che lo tiene sospeso in aria, e posalo delicatamente sdraiato sull’erba, a piè della Quercia.
Il Falco volò via e dopo due minuti tornò, dicendo:
– Quel che mi avete comandato, è fatto.
– E come l’hai trovato? Vivo o morto?
– A vederlo pareva morto, ma non dev’essere ancora morto, perché appena gli ho sciolto il nodo scorsoio che lo stringeva intorno alla gola, ha lasciato andare un sospiro, balbettando a mezza voce: “Ora mi sento meglio!..”
Allora la Fata, battendo le mani insieme, fece due piccoli colpi, e apparve un magnifico Cane-barbone, che camminava ritto sulle gambe di dietro.
Il Cane-barbone era vestito da cocchiere in livrea di gala. Aveva parrucca bianca coi riccioli che gli scendevano giù per il collo, una giubba color di cioccolata coi bottoni di brillanti e con due grandi tasche per tenervi gli ossi, che gli regalava a pranzo la padrona, un paio di calzoni corti di velluto cremisi, le calze di seta, gli scarpini scollati.
– Senti, Medoro! – disse la Fata al Cane-barbone. – Fa’ subito attaccare la più bella carrozza della mia scuderia e prendi la via del bosco. Sotto la Quercia grande, troverai disteso sull’erba un povero burattino mezzo morto. Raccoglilo con garbo, posalo pari pari[75] su i cuscini della carrozza e portamelo qui. Hai capito?
Il Cane-barbone, per fare intendere che aveva capito, dimenò tre o quattro volte la fodera di raso turchino, che aveva dietro, e partì come un barbero.
Di lì a poco[76], si vide uscire dalla scuderia una bella carrozzina color dell’aria. La carrozzina era tirata da cento pariglie di topini bianchi, e il Cane-barbone, seduto a cassetta, schioccava la frusta a destra e a sinistra, come un vetturino quand’ha paura di aver fatto tardi.
Non era ancora passato un quarto d’ora, che la carrozzina tornò e la Fata, che stava aspettando sull’uscio di casa, prese in collo[77] il povero burattino, e portatolo in una cameretta che aveva le pareti di madreperla, mandò subito a chiamare i medici più famosi del vicinato.
E i medici arrivarono subito uno dopo l’altro: arrivò, cioè, un Corvo, una Civetta e un Grillo-parlante.
– Vorrei sapere da lor signori – disse la Fata, rivolgendosi ai tre medici riuniti intorno al letto di Pinocchio – vorrei sapere da lor signori se questo disgraziato burattino sia vivo o morto!..
A quest’invito, il Corvo tastò il polso a Pinocchio, poi gli tastò il naso, poi il dito mignolo dei piedi: e quand’ebbe tastato ben bene, pronunziò queste parole:
– A mio credere[78] il burattino è morto: ma se per disgrazia non fosse morto, allora sarebbe indizio sicuro che è sempre vivo!
– Mi dispiace – disse la Civetta – di dover contraddire il Corvo, mio amico e collega: per me, invece, il burattino è sempre vivo; ma se per disgrazia non fosse vivo, allora sarebbe segno che è morto davvero.
– E lei non dice nulla? – domandò la Fata al Grillo-parlante.
– Io dico che il medico prudente, quando non sa quello che dice, la miglior cosa che possa fare, è quella di stare zitto. Del resto quel burattino, non m’è fisonomia nuova: io lo conosco da un pezzo[79]!
Pinocchio, che fin allora era stato immobile come un vero pezzo di legno, ebbe una specie di fremito convulso, che fece scuotere tutto il letto.
– Quel burattino – seguitò a dire il Grillo-parlante – è una birba…
Pinocchio aprì gli occhi e li richiuse subito.
– È un vagabondo…
Pinocchio si nascose la faccia sotto i lenzuoli.
– Quel burattino è un figliolo disubbidiente, che farà morire di crepacuore il suo povero babbo!..
A questo punto si sentì nella camera un suono soffocato di pianti. Figuratevi come rimasero tutti, allorché, sollevati un poco i lenzuoli, si accorsero che quello che piangeva era Pinocchio.
– Quando il morto piange, è segno che è in via di guarigione – disse il Corvo.
17. Pinocchio mangia lo zucchero, ma non vuol purgarsi: però quando vede i becchini che vengono a portarlo via, allora si purga. Poi dice una bugia e per castigo gli cresce il naso
Appena i tre medici furono usciti di camera, la Fata si accostò a Pinocchio, e, dopo averlo toccato sulla fronte, si accorse che era travagliato da un febbrone.
Allora sciolse una certa polverina bianca in un mezzo bicchier d’acqua e gli disse amorosamente:
– Bevila, e in pochi giorni sarai guarito.
Pinocchio guardò il bicchiere, storse un po’ la bocca, e poi domandò con voce di piagnisteo:
– È dolce o amara?
– È amara, ma ti farà bene.
– Se è amara non la voglio.
– Da’ retta a me[80]: bevila.
– A me l’amaro non mi piace.
– Bevila: e quando l’avrai bevuta, ti darò una pallina di zucchero.
– Dov’è la pallina di zucchero?
– Eccola qui – disse la Fata, tirandola fuori da una zuccheriera d’oro.
– Prima voglio la pallina di zucchero, e poi beverò quell’acqua amara…
– Me lo prometti?
– Sì…
La Fata gli dette la pallina, e Pinocchio, dopo averla sgranocchiata e ingoiata in un attimo, disse leccandosi i labbri:
– Bella cosa se anche lo zucchero fosse una medicina!.. Mi purgherei tutti i giorni.
– Ora mantieni la promessa e bevi queste poche gocciole d’acqua, che ti renderanno la salute.
Pinocchio prese di mala voglia[81] il bicchiere in mano e vi ficcò dentro la punta del naso: poi se l’accostò alla bocca: poi tornò a ficcarci la punta del naso: finalmente disse:
– È troppo amara! troppo amara! Io non la posso bere.
– Come fai a dirlo se non l’hai nemmeno assaggiata?
– L’ho sentita all’odore. Voglio prima un’altra pallina di zucchero… e poi la beverò!
Allora la Fata, con tutta la pazienza di una buona mamma, gli pose in bocca un altro po’ di zucchero; e dopo gli presentò daccapo il bicchiere.
– Così non la posso bere! – disse il burattino, facendo mille smorfie.
– Perché?
– Perché mi dà noia[82] quel guanciale che ho laggiù su i piedi.
La Fata gli levò il guanciale.
– È inutile! Non la posso bere.
– Che cos’altro ti dà noia?
– Mi dà noia l’uscio di camera, che è mezzo aperto.
La Fata andò, e chiuse l’uscio di camera.
– Insomma – gridò Pinocchio, dando in uno scoppio di pianto[83] – quest’acqua amara, non la voglio bere, no, no, no!..
– Ragazzo mio, te ne pentirai…
– Non me n’importa…
– La tua malattia è grave…
– Non me n’importa…
– La febbre ti porterà in poche ore all’altro mondo…
– Non me n’importa…
– Non hai paura della morte?
– Nessuna paura!.. Piuttosto morire, che bevere quella medicina cattiva.
A questo punto, la porta della camera si spalancò, ed entrarono dentro quattro conigli neri, che portavano sulle spalle una piccola bara da morto.
– Che cosa volete da me? – gridò Pinocchio.
– Che cosa volete da me? – gridò Pinocchio.
– Siamo venuti a prenderti – rispose il coniglio più grosso.
– A prendermi?… Ma io non sono ancora morto!..
– Ancora no: ma ti restano pochi minuti di vita, avendo tu ricusato di bevere la medicina, che ti avrebbe guarito della febbre!..
– O Fata mia! – cominciò allora a strillare il burattino – datemi subito quel bicchiere… Spicciatevi, per carità, perché non voglio morire, no… non voglio morire.
E preso il bicchiere con tutte e due le mani, lo vuotò in un fiato.
– Pazienza! – dissero i conigli. – Per questa volta abbiamo fatto il viaggio a ufo.
E tiratisi di nuovo la piccola bara sulle spalle, uscirono di camera bofonchiando e mormorando fra i denti.
Fatto sta che di lì a pochi minuti[84], Pinocchio saltò giù dal letto, guarito; perché bisogna sapere che i burattini di legno hanno il privilegio di ammalarsi di rado e di guarire prestissimo.
E la Fata, vedendolo correre e ruzzare per la camera, vispo e allegro, gli disse:
– Dunque la mia medicina t’ha fatto bene davvero?
– Altro che bene! Mi ha rimesso al mondo!..
– E allora come mai ti sei fatto tanto pregare a beverla?
– Noi ragazzi siamo tutti così! Abbiamo più paura delle medicine che del male.
– Vergogna! I ragazzi dovrebbero sapere che un buon medicamento preso a tempo, può salvarli da una grave malattia e fors’anche dalla morte…
– Oh! ma un’altra volta non mi farò tanto pregare! Mi rammenterò di quei conigli neri, con la bara sulle spalle… e allora piglierò subito il bicchiere in mano, e giù!..
– Ora vieni un po’ qui da me, e raccontami come andò che ti trovasti fra le mani degli assassini.
– Gli andò[85], che il burattinaio Mangiafoco mi dette cinque monete d’oro, e mi disse: “To’, portale al tuo babbo!”, e io, invece, per la strada trovai una Volpe e un Gatto, due persone molto per bene, che mi dissero: “Vuoi che codeste monete diventino mille e duemila? Vieni con noi, e ti condurremo al Campo dei miracoli.” E io dissi: “Andiamo;” e loro dissero: “Fermiamoci qui all’osteria del Gambero rosso, e dopo la mezzanotte ripartiremo.” E io, quando mi svegliai, loro non c’erano più, perché erano partiti. Allora io cominciai a camminare di notte, che era un buio che pareva impossibile, per cui trovai per la strada due assassini dentro due sacchi da carbone, che mi dissero: “Metti fuori i quattrini;” e io dissi: “non ce n’ho;” perché le monete d’oro me l’ero nascoste in bocca, e uno degli assassini si provò a mettermi le mani in bocca, e io con un morso gli staccai la mano e poi la sputai, ma invece di una mano sputai uno zampetto di gatto. E gli assassini a corrermi dietro, e io corri, finché mi raggiunsero, e mi legarono per il collo a un albero di questo bosco col dire: “Domani torneremo qui, e allora sarai morto e colla bocca aperta, e così ti porteremo via le monete d’oro che hai nascoste sotto la lingua”.
– E ora le quattro monete dove le hai messe? – gli domandò la Fata.
– Le ho perdute! – rispose Pinocchio; ma disse una bugia, perché invece le aveva in tasca.
Appena detta la bugia il suo naso, che era già lungo, gli crebbe subito due dita di più.
– E dove le hai perdute?
– Nel bosco qui vicino.
A questa seconda bugia, il naso seguitò a crescere.
– Se le hai perdute nel bosco vicino – disse la Fata – le cercheremo e le ritroveremo: perché tutto quello che si perde nel vicino bosco, si ritrova sempre.
– Ah! ora che mi rammento bene – replicò il burattino imbrogliandosi – le quattro monete non le ho perdute, ma le ho inghiottite mentre bevevo la vostra medicina.
A questa terza bugia, il naso gli si allungò in un modo così straordinario, che il povero Pinocchio non poteva più girarsi da nessuna parte. Se si voltava di qui, batteva il naso nel letto o nei vetri della finestra, se si voltava di là, lo batteva nelle pareti o nella porta di camera, se alzava un po’ più il capo, correva il rischio di ficcarlo in un occhio alla Fata.
E la Fata lo guardava e rideva.
– Perché ridete? – gli domandò il burattino, tutto confuso e impensierito di quel suo naso che cresceva.
– Rido della bugia che hai detto.
– Come mai sapete che ho detto una bugia?
– Le bugie, ragazzo mio, si riconoscono subito, perché ve ne sono di due specie: vi sono le bugie che hanno le gambe corte, e le bugie che hanno il naso lungo: la tua per l’appunto è di quelle che hanno il naso lungo.
Pinocchio, non sapendo più dove nascondersi per la vergogna, si provò a fuggire di camera; ma non gli riuscì. Il suo naso era cresciuto tanto, che non passava più dalla porta.
18. Pinocchio ritrova la Volpe e il Gatto, e va con loro a seminare le quattro monete nel Campo dei miracoli
Come potete immaginarvelo, la Fata lasciò che il burattino piangesse e urlasse una buona mezz’ora, a motivo di quel suo naso che non passava più dalla porta di camera; e lo fece per dargli una severa lezione e perché si correggesse dal brutto vizio di dire le bugie, il più brutto vizio che possa avere un ragazzo. Ma quando lo vide trasfigurato e cogli occhi fuori della testa dalla gran disperazione, allora, mossa a pietà, battè le mani insieme, e a quel segnale entrarono in camera dalla finestra un migliaio di grossi uccelli chiamati Picchi, i quali, posatisi tutti sul naso di Pinocchio, cominciarono a beccarglielo, e in pochi minuti quel naso enorme si trovò ridotto alla sua grandezza naturale.
– Quanto siete buona, Fata mia, – disse il burattino – e quanto bene vi voglio[86]!
– Ti voglio bene anch’io – rispose la Fata – e se tu vuoi rimanere con me, tu sarai il mio fratellino e io la tua buona sorellina…
– Io resterei volentieri… ma il mio povero babbo?
– Ho pensato a tutto. Il tuo babbo è stato avvertito: e prima che faccia notte, sarà qui.
– Davvero? – gridò Pinocchio, saltando dall’allegrezza. – Allora, Fatina mia, se vi contentate, vorrei andargli incontro! Non vedo l’ora di[87] poter dare un bacio a quel povero vecchio, che ha sofferto tanto per me!
– Va’ pure, ma bada di non ti sperdere. Prendi la via del bosco, e sono sicura che lo incontrerai.
Pinocchio partì: e appena entrato nel bosco, cominciò a correre. Ma quando fu arrivato a un certo punto[88], quasi in faccia alla Quercia grande, si fermò, perché gli parve di aver sentito gente fra mezzo alle frasche. Difatti vide apparire sulla strada, indovinate chi?… la Volpe e il Gatto.
– Ecco il nostro caro Pinocchio! – gridò la Volpe, abbracciandolo e baciandolo. – Come mai sei qui?
– Come mai sei qui? – ripetè il Gatto.
– È una storia lunga – disse il burattino – e ve la racconterò. Sappiate però che l’altra notte, quando mi avete lasciato solo sull’osteria, ho trovato gli assassini per la strada…
– Gli assassini?… Oh povero amico! E che cosa volevano?
– Mi volevano rubare le monete d’oro.
– Infami!.. – disse la Volpe.
– Infamissimi! – ripetè il Gatto.
– Ma io cominciai a scappare – continuò a dire il burattino – e loro sempre dietro: finché mi raggiunsero e m’impiccarono a un ramo di quella quercia…
E Pinocchio accennò la Quercia grande, che era lì a due passi.
– Si può sentir di peggio? – disse la Volpe. – In che mondo siamo condannati a vivere! Dove troveremo un rifugio sicuro?
Nel tempo che parlavano così, Pinocchio si accorse che il Gatto era zoppo dalla gamba destra davanti, perché gli mancava in fondo tutto lo zampetto: per cui gli domandò:
– Che cosa hai fatto del tuo zampetto?
Il Gatto voleva rispondere qualche cosa, ma s’imbrogliò. Allora la Volpe disse subito:
– Il mio amico è troppo modesto, e per questo non risponde. Risponderò io per lui. Sappi dunque che un’ora fa abbiamo incontrato sulla strada un vecchio lupo, quasi svenuto dalla fame, che ci ha chiesto un po’ d’elemosina. Non avendo noi da dargli nemmeno una lisca di pesce, che cosa ha fatto l’amico mio? Si è staccato coi denti uno zampetto delle sue gambe davanti e l’ha gettato a quella povera bestia.
E la Volpe, nel dir così, si asciugò una lacrima.
Pinocchio si avvicinò al Gatto, sussurrandogli negli orecchi:
– Se tutti i gatti ti somigliassero, fortunati i topi!..
– E ora che cosa fai in questi luoghi? – domandò la Volpe al burattino.
– Aspetto il mio babbo, che deve arrivare qui di momento in momento[89].
– E le tue monete d’oro?
– Le ho sempre in tasca.
– E pensare che, invece di quattro monete, potrebbero diventare domani mille e duemila! Perché non dai retta al mio consiglio? Perché non vai a seminarle nel Campo dei miracoli?
– Oggi è impossibile: vi anderò un altro giorno.
– Un altro giorno sarà tardi!.. – disse la Volpe.
– Perché?
– Perché quel campo è stato comprato da un gran signore, e da domani in là non sarà più permesso a nessuno di seminarvi i denari.
– Quant’è distante di qui il Campo dei miracoli?
– Due chilometri appena. Vuoi venire con noi? Fra mezz’ora sei là: semini subito le quattro monete: dopo pochi minuti ne raccogli duemila, e stasera ritorni qui colle tasche piene. Vuoi venire con noi?
Pinocchio esitò un poco a rispondere, perché gli tornò in mente la buona Fata, il vecchio Geppetto e gli avvertimenti del Grillo-parlante; ma poi finì col dare una scrollatina di capo[90], e disse alla Volpe e al Gatto:
– Andiamo pure: io vengo con voi.
E partirono.
Dopo aver camminato una mezza giornata arrivarono a una città. Appena entrato in città, Pinocchio vide tutte le strade popolate di cani spelacchiati, di pecore tosate, che tremavano dal freddo, di galline rimaste senza cresta, che chiedevano l’elemosina d’un chicco di granturco, di grosse farfalle, che non potevano più volare, perché avevano venduto le loro bellissime ali colorite, e di pavoni tutti scodati.
In mezzo a questa folla di accattoni e di poveri vergognosi, passavano alcune carrozze signorili con dentro o qualche Volpe, o qualche Gazza ladra.
– E il Campo dei miracoli dov’è? – domandò Pinocchio.
– È qui a due passi.
Detto fatto traversarono la città e, usciti fuori dalle mura, si fermarono in un campo solitario che somigliava a tutti gli altri campi.
– Eccoci giunti – disse la Volpe al burattino. – Ora chinati giù a terra, scava con le mani una piccola buca nel campo, e mettici dentro le monete d’oro.
Pinocchio obbedì. Scavò la buca, ci pose le quattro monete d’oro che gli erano rimaste: e dopo ricoprì la buca con un po’ di terra.
– Ora – disse la Volpe – va’ alla gora qui vicina, prendi una secchia d’acqua e annaffia il terreno dove hai seminato.
Pinocchio andò alla gora, e perché non aveva una secchia, si levò di piedi una ciabatta e, riempitala d’acqua, annaffiò la terra che copriva la buca. Poi domandò:
– C’è altro da fare?
– Nient’altro – rispose la Volpe. – Ora possiamo andar via. Tu poi ritorna qui fra una ventina di minuti, e troverai l’arboscello coi rami tutti carichi di monete.
Il povero burattino ringraziò mille volte la Volpe e il Gatto, e promise loro un bellissimo regalo.
– Noi non vogliamo regali – risposero questi due malanni. – A noi ci basta di averti insegnato il modo di arricchire, e siamo contenti.
Ciò detto salutarono Pinocchio e se ne andarono per i fatti loro.
19. Pinocchio è derubato delle sue monete d’oro, e per castigo, si busca quattro mesi di prigione
Il burattino, ritornato in città, cominciò a contare i minuti; e, quando gli parve che fosse l’ora, riprese subito la strada che menava al Campo dei miracoli.
E mentre camminava, il cuore gli batteva forte. E intanto pensava dentro di sé: “E se invece di mille monete, ne trovassi su i rami dell’albero duemila?… E se invece di duemila, ne trovassi cinquemila? e se invece di cinquemila, ne trovassi centomila? Oh che bel signore diventerei!.. Vorrei avere un bel palazzo, mille cavallini di legno e mille scuderie, una cantina di rosoli, e una libreria tutta piena di canditi, di torte e di mandorlati”.
Così fantasticando, giunse in vicinanza del campo, e lì si fermò a guardare se per caso avesse potuto scorgere qualche albero coi rami carichi di monete: ma non vide nulla. Andò proprio su quella piccola buca, dove aveva sotterrato i suoi zecchini, e nulla. Allora diventò pensieroso e tirò fuori una mano di tasca e si dette una lunghissima grattata di capo.
In quel mentre sentì una gran risata: voltatosi in su, vide sopra un albero un grosso Pappagallo.
– Perché ridi? – gli domandò Pinocchio.
– Rido, perché nello spollaiarmi mi sono fatto il solletico sotto le ali.
Il burattino non rispose. Andò alla gora e riempita d’acqua la solita ciabatta, si pose novamente ad annaffiare la terra, che ricopriva le monete d’oro.
Quand’ecco un’altra risata.
– Insomma – gridò Pinocchio, arrabbiandosi – si può sapere di che cosa ridi?
– Rido di quei barbagianni, che credono a tutte le scioccherie e che si lasciano trappolare da chi è più furbo di loro.
– Parli forse di me?
– Sì, parlo di te; di te che sei così dolce di sale[91] da credere che i denari si possano seminare e raccogliere nei campi, come si seminano le zucche. Anch’io l’ho creduto una volta. Oggi mi son dovuto persuadere che per mettere insieme[92] onestamente pochi soldi bisogna saperseli guadagnare o col lavoro delle proprie mani o coll’ingegno della propria testa.
– Non ti capisco – disse il burattino.
– Pazienza! Mi spiegherò meglio – soggiunse il Pappagallo. – Sappi dunque che la Volpe e il Gatto sono tornati in questo campo: hanno preso le monete d’oro sotterrate, e poi sono fuggiti come il vento.
Pinocchio restò a bocca aperta, e non volendo credere alle parole del Pappagallo, cominciò colle mani e colle unghie a scavare il terreno che aveva annaffiato. E scava, scava, fece una buca profonda, ma le monete non c’erano più.
Preso allora dalla disperazione[93], tornò di corsa in città e andò difilato in tribunale, per denunziare al giudice i due malandrini, che lo avevano derubato.
Il giudice era una scimmia della razza dei Gorilla: una vecchia scimmia rispettabile per la sua grave età, per la sua barba bianca e per i suoi occhiali d’oro, senza vetri, che era costretto a portare continuamente, a motivo d’una flussione d’occhi.
Pinocchio raccontò per filo e per segno[94] l’iniqua frode, di cui era stato vittima; dette il nome, il cognome dei malandrini, e finì chiedendo giustizia.
Il giudice lo ascoltò con molta benignità; prese vivissima parte al racconto: s’intenerì: e quando il burattino non ebbe più nulla da dire, allungò la mano e suonò il campanello.