CONVALESCENZA
Sembrava morto, ma non lo era. Dove era stato? Che cosa aveva passato? Quella sera, alla luce del fuoco, Tenar gli tolse i vestiti sporchi, lisi e intrisi di sudore. Lo lavò e lo adagiò, senza niente addosso, sulle lenzuola di lino e gli stese sopra una coperta di lana di capra, morbida e calda. Anche se Sparviero era un uomo minuto e di bassa statura, un tempo era stato robusto e muscoloso; ora, invece, sembrava che qualcosa l’avesse consumato fino all’osso, rendendolo smunto ed emaciato. Anche le cicatrici sulla spalla e sulla parte sinistra del viso, dalla tempia alla mascella, erano ormai pallide, quasi argentee. E i capelli ora erano grigi.
Sono stanca di lutti, pensò Tenar. Stanca di pianti, stanca di dolore. Non voglio piangere per lui! Non è arrivato da me a cavallo di un drago?
Una volta avrei voluto ucciderlo, ricordò poi. Adesso invece cercherò di farlo sopravvivere, se potrò. Fissò l’uomo con aria di sfida, senza pietà.
«Chi di noi ha salvato l’altro dal Labirinto, Ged?»
Ma l’uomo non poteva ascoltarla e, immobile, continuò a dormire. Anche Tenar era molto stanca. Fece il bagno nell’acqua che aveva riscaldato per lavarlo, e scivolò nel letto accanto a quel piccolo, caldo silenzio di seta che era il sonno di Therru. Dormì, e il sonno le spalancò un ampio spazio ventoso, venato di rosa e d’oro. Volava e chiamava: «Kalessin!» E una voce, dagli abissi di luce, le rispondeva.
Quando Tenar si svegliò, gli uccelli cinguettavano nei campi e sul tetto. Nel rizzarsi a sedere, la donna vide la luce del mattino attraverso il vetro irregolare della finestra che dava a ponente. C’era qualcosa in lei, un seme o un barlume, troppo piccolo per essere visto o per poterlo immaginare, ma nuovo. Therru era ancora addormentata. Tenar rimase seduta accanto a lei, con lo sguardo fisso alla finestra, alle nubi e alla luce del sole, e pensò a sua figlia Melina, cercando di ricordarsela quando era appena nata. Solo una rapida immagine, che svanì quando cercò di definirne i contorni: il corpicino grassoccio che tremolava per una risata, i capelli sottili e impalpabili… E il secondo figlio, che era stato chiamato Scintilla per gioco, perché era nato da Selce. Tenar non conosceva il suo nome vero. Al contrario di Melina — che era sempre stata sanissima — Scintilla era un bambino debole e malaticcio. Nato in anticipo, e molto piccolo alla nascita, era quasi morto di difterite all’età di due mesi e in seguito, per due anni, allevarlo era stato come prendersi cura di un passerotto implume: non si sapeva mai se l’indomani mattina sarebbe stato ancora vivo. Ma aveva tenuto duro, la piccola scintilla non si era lasciata spegnere. E, crescendo, era diventato un giovane magro ma robusto, attivissimo e irruento; assolutamente inutile nella fattoria — poiché non aveva pazienza con gli animali, con le piante e con le persone -, abituato a usare le parole solo per le proprie esigenze, mai per il piacere di parlare o per il desiderio di scambiarsi amore e conoscenze.
Ogion era passato dalla fattoria, durante uno dei suoi vagabondaggi, quando Melina aveva tredici anni e Scintilla undici. In quell’occasione, il mago aveva dato il vero nome a Melina e l’aveva fatto alle fonti del Kaheda in cima alla valle; la giovinetta bellissima si era immersa nell’acqua dai riflessi verdi, e il mago le aveva dato il suo vero nome, Hayohe. Poi Ogion era rimasto alla Fattoria delle Querce per un giorno o due e aveva chiesto al ragazzo se volesse accompagnarlo a fare un giro nei boschi. Scintilla si era limitato a scuotere la testa. «Che cosa faresti, se potessi?» aveva chiesto allora il mago, e il ragazzo gli aveva detto quel che non aveva mai rivelato ai genitori: «Andrei per mare». Così, dopo che Faggio gli aveva dato il suo vero nome, tre anni più tardi, Scintilla si era imbarcato come marinaio su un mercantile che faceva rotta da Valmouth a Oranéa e a Nord Havnor. Di tanto in tanto tornava alla fattoria, ma non molto spesso, e non ci rimaneva a lungo, anche se alla morte del padre la proprietà sarebbe passata a lui. Aveva la pelle chiara come quella di Tenar, ma era diventato alto come Selce, con un viso affilato. Non aveva mai detto ai genitori il suo nome vero e, forse, non lo aveva mai rivelato a nessuno. Tenar non lo vedeva da tre anni. Era possibile che non gli fosse mai giunta notizia della morte del padre. Magari aveva fatto naufragio ed era morto, ma Tenar pensava di no. Qualsiasi cosa gli fosse accaduta, avrebbe saputo condurre la sua scintilla di vita al di sopra delle acque e attraverso la tempesta.
Ed era ciò che Tenar provava in quel momento: la sensazione di una scintilla di vita, un fremito simile a quello che il corpo prova quando sente di avere in sé il nucleo di una nuova esistenza; un cambiamento, qualcosa di nuovo. Ma lei non intendeva chiedersi che cos’era. Erano cose che non si chiedevano, cosi come non si chiedeva il nome vero. O ti veniva dato, o continuavi a ignorarlo.
Tenar si alzò e si vestì. Anche se era ancora presto, faceva già caldo, quindi decise di non accendere il fuoco. Si sedette sulla soglia per bere una tazza di latte e osservò l’ombra del Monte di Gont ritirarsi progressivamente dal mare. Non c’era molta aria, per una rupe come quella, sempre spazzata dai venti, e la brezza aveva qualcosa di estivo, di ricco e di morbido, che profumava di erba. C’era una particolare dolcezza nell’aria, un cambiamento.
«Tutto è cambiato!» aveva sussurrato il vecchio prima di morire. E l’aveva sussurrato con gioia. Prendendole la mano, le aveva fatto il dono, il suo nome.
«Aihal!» mormorò Tenar. Per tutta risposta, un paio di capre si mise a belare: una dietro la capanna della mungitura, in attesa che arrivasse Erica, faceva «Be-eh!», mentre l’altra, in tono più profondo e metallico, lanciava il suo «Ble-eh! Ble-eh!» Quando c’è da rovinare qualcosa puoi sempre contare sulle capre, diceva Selce, ma lui era un allevatore di pecore e odiava le capre. Ged invece badava alle capre, da ragazzo, in quella stessa isola.
Entrò in casa e vide che Therru era ferma davanti al malato e lo stava osservando. Le passò un braccio intorno alle spalle, e la bambina, anche se in genere si ritraeva da quel genere di contatti o li accettava passivamente, questa volta si appoggiò leggermente a Tenar.
Ged continuava a dormire, sopraffatto dalla stanchezza. Era girato dall’altra parte, e si scorgevano le quattro cicatrici pallide che gli solcavano la guancia. «L’hanno bruciato?» sussurrò Therru.
Tenar non rispose subito. Non aveva mai saputo dove Ged si fosse procurato quelle cicatrici. Tempo addietro, nella Sala Dipinta del Labirinto di Atuan, gli aveva chiesto, per celia: «Un drago?» E lui aveva risposto con grande serietà:
«Non un drago. Uno dei Senza Nome; ma io ho poi scoperto il suo nome.» Tenar non aveva mai saputo altro. Ma sapeva che cosa intendesse la bambina, nel dire «bruciato».
«Sì», rispose.
Therru continuò a osservare l’uomo addormentato. Aveva piegato la testa per osservarlo con l’unico occhio sano, e questo la faceva assomigliare a un uccellino: un passero o una cinciallegra.
«Vieni con me, passerotto», le disse Tenar, «lui ha bisogno di dormire, tu hai bisogno di una pesca. Ce ne sarà qualcuna matura, questa mattina?»
Therru uscì per andare a vedere; Tenar la seguì.
Mentre mangiava la sua pesca, la bambina continuò a studiare il punto dove aveva piantato il nocciolo il giorno prima. Era chiaramente delusa dal fatto di non vedere alcun alberello, ma non disse nulla.
«Continua a bagnarlo», le suggerì Tenar.
Zia Muschio arrivò a metà mattino. Una delle sue abilità di strega tuttofare era la fabbricazione di cestini con i giunchi dello stagno, e Tenar le aveva chiesto di insegnarle a farli. Da bambina, ad Atuan, Tenar aveva appreso l’arte di imparare. E da forestiera, a Gont, aveva scoperto che alla gente piaceva insegnare. Aveva constatato che, se permetteva agli altri di insegnarle, veniva accettata più facilmente, le veniva perdonata la sua origine straniera.
Ogion le aveva insegnato le sue conoscenze, e poi Selce le aveva insegnato le sue. Era un’abitudine di tutta la vita, per Tenar, quella di imparare. Pareva sempre che ci fossero moltissime cose da imparare, più di quante non pensasse quando era un’apprendista sacerdotessa o l’allieva di un mago.
I giunchi erano rimasti a lungo nell’acqua, e quella mattina dovevano spezzarli: un compito noioso, ma non difficile, che non richiedeva eccessiva attenzione.
«Zia», disse Tenar, dopo che si furono sedute sulla soglia di casa, con la vasca dei giunchi ammollati fra loro e davanti una stuoia per posarvi quelli divisi. «Come fai a capire se un uomo è un mago?»
Come sempre, Muschio non affrontò direttamente l’argomento, ma prima fece una lunga digressione, passando per le solite frasi sentenziose e oscure. «Il profondo riconosce il profondo», disse, con voce grave, e aggiunse: «Ciò che c’è non può fare a meno di rispondere». Poi le raccontò la storia della formica che aveva raccolto sul pavimento del palazzo del re un minuscolo peluzzo ed era corsa a portarlo nel formicaio. Nella notte quel formicaio, posto sottoterra, brillava come una stella, perché il peluzzo non era altro che un capello caduto dalla testa del grande mago Brost. Ma solo i sapienti potevano vedere il formicaio luminescente. Agli occhi delle persone comuni era buio come prima.
«Allora, è una cosa che si impara», disse Tenar.
Sì e no, fu il succo dell’enigmatica risposta di Muschio. «Qualcuno nasce con quel dono», disse. «Anche se loro non sanno di averlo, il dono c’è. Come il capello del mago nel buco sottoterra, il dono risplende.»
«Sì», disse Tenar, «l’ho visto anch’io.» Suddivise prima in due parti, poi in quattro, uno dei giunchi, e posò i pezzi sulla stuoia. «Come fai a sapere, allora, che un uomo non è un mago?»
«Lo so perché non c’è», rispose Muschio. «Non c’è il dono, cara. Non c’è il Potere. Ascolta. Se ho gli occhi posso vedere che anche tu li hai, vero? E se sei cieca, me ne accorgo. E anche se hai un occhio solo, come la povera piccola, o se ne hai tre, io li vedo, no? Ma se non ho neppure un occhio per vedere, non saprò mai che hai gli occhi, finché tu stessa non me lo dirai. Se invece li ho, li vedo da sola. È il terzo occhio!» Si toccò la fronte e fece una risata forte e chioccia, come il verso della gallina che annuncia trionfalmente di avere fatto l’uovo. Era contenta di avere trovato le parole esatte con cui esprimere il suo pensiero. Tenar cominciava a sospettare che quel modo di parlare oscuro e spesso astruso fosse semplicemente dovuto alla scarsità di parole e di idee. Nessuno le aveva mai insegnato a pensare in modo rigoroso. Nessuno aveva mai ascoltato quello che aveva da dire. Quel che ci si aspettava da lei, quel che si voleva da lei, era vaghezza, mistero, formulette, rituali. Zia Muschio era una strega di paese. Non aveva niente a che vedere con i significati chiari.
«Capisco», disse Tenar. «Allora… ma forse non vorrai rispondere a questa domanda… quando guardi una persona servendoti del tuo terzo occhio, del tuo Potere, vedi il suo Potere, oppure no?»
«È più una conoscenza che non qualcosa di visibile», rispose Muschio. «’Vedere’ è solo un modo di dirlo. Non è come vedere te o questo giunco o quella montagna. È una conoscenza. So che cosa c’è in te e invece non c’è in quella povera testa vuota di Erica. So che cosa c’è nella povera bambina e non nell’uomo che c’è dentro la casa. So…» Non riuscì a proseguire; mormorò uno scongiuro e sputò in terra. «Qualsiasi strega che valga una forcina da un soldo sa riconoscere un’altra strega!» disse infine, con ira.
«Vi riconoscete tra voi.»
Muschio confermò. «Sì, è la parola giusta. Ci riconosciamo.»
«E un mago riconoscerebbe il tuo Potere, vedrebbe la tua magia…»
Ma Muschio le sorrideva. Un sorriso sdentato in mezzo a una ragnatela di rughe. «Cara», chiese, «intendi un uomo, un mago? Che importanza vuoi che abbia, io, per un uomo con un grande Potere?»
«Ogion, però…»
«Lord Ogion era gentile», disse Muschio, senza ironia.
Per qualche tempo, si limitarono a spezzare i giunchi, senza parlare.
«Attenta a non tagliarti un dito, cara», l’avvertì Muschio.
«A me», disse Tenar, riprendendo il discorso di prima, «Ogion ha insegnato la sua arte. Come se non fossi stata una donna. Come se fossi stato il suo apprendista, come Sparviero. Mi ha insegnato la Lingua della Creazione, Muschio. Qualsiasi cosa gli chiedessi, me la insegnava.»
«Non c’è mai stato un altro come lui», commentò la strega.
«Sono stata io a non voler imparare altro. L’ho lasciato. Che cosa me ne facevo, dei suoi libri? A che cosa mi servivano? Volevo vivere, volevo un marito, volevo dei figli, volevo una vita mia.»
Infilò l’unghia nello stelo del giunco e, senza sforzo, lo divise nel senso della lunghezza.
«E l’ho avuta», aggiunse.
«Con una mano si prende, con l’altra si getta via», disse la strega. «Be’, cara, che ti posso dire? Più di una volta mi sono messa nei guai, per stare con un uomo. Ma non ho mai voluto sposarmi, mai! No, no, non fa per me!»
«Perché?» chiese Tenar.
Presa alla sprovvista, Muschio rispose semplicemente: «Be’, dove lo trovi, un uomo disposto a sposare una strega?» E poi, muovendo di lato la mascella come fa la pecora che sposta il suo bolo: «E dove la trovi, una strega disposta a sposarsi?»
Continuarono a spezzare i giunchi.
«Che cosa c’è che non va negli uomini?» chiese Tenar, cautamente.
E con altrettanta cautela, abbassando la voce, Muschio rispose: «Non saprei, cara. Me lo sono chiesto molte volte. La migliore risposta che ho trovato potrebbe essere questa: un uomo sta dentro la sua pelle come una noce nel suo guscio». Sollevò la mano e gliela mostrò, curvando le dita lunghe e bagnate come se tenesse una noce fra il pollice e l’indice. «Il guscio è duro e robusto, ed è pieno di lui. Pieno della sua polpa di uomo, della sua personalità. E nient’altro. Dentro il guscio c’è solo lui e nient’altro.»
Tenar rifletté su quelle parole e infine chiese: «Ma se è un mago…?»
«Allora, dentro c’è solo il suo Potere. Il suo Potere è lui, devi capire. Per un mago, è così. Quando il suo Potere sparisce, sparisce anche lui. Resta un guscio vuoto.» Fece finta di schiacciare la noce immaginaria e di gettare via i pezzi. «Non resta niente.»
«E per una donna, allora?»
«Oh, be’, cara, per una donna è completamente diverso. Chi può dire dove inizia e dove finisce una donna? Ascolta, io ho radici più profonde di quest’isola. Più profonde del mare, più antiche della creazione della terraferma. Io risalgo fino alle Tenebre.» Gli occhi arrossati della strega brillavano in modo strano, e la sua voce vibrava come uno strumento musicale. «Io risalgo alle Tenebre! Esistevo prima che esistesse la luna. Nessuno sa che cosa sono, nessuno lo può dire, nessuno sa che cosa sia una donna, una donna di Potere, né il Potere delle donne, che è più profondo delle radici degli alberi, più profondo delle radici delle isole, più antico della Creazione, più antico della luna. Chi oserà mai rivolgere domande alle Tenebre? Chi oserà mai chiedere alle Tenebre il loro nome?»
La vecchia dondolava la testa e parlava come se salmodiasse una formula magica, persa nel suo incantesimo; ma Tenar rizzò la schiena e con l’unghia tagliò un altro giunco.
«Lo farò io», disse.
Spezzò un altro giunco.
«Sono vissuta abbastanza a lungo nelle Tenebre», aggiunse.
Tenar si alzò: come faceva di tanto in tanto si diresse verso casa per controllare se Sparviero dormiva ancora. Una volta tornata a sedersi vicino a Muschio, preferì non riprendere il discorso di prima, perché la vecchia aveva l’aria imbronciata e severa. Disse, invece: «Questa mattina, quando mi sono alzata, mi è sembrato che si fosse levato un vento diverso dal solito. Che ci fosse stato un cambiamento. Forse è solo il tempo. Tu l’hai sentito?»