«Sto bene» rispose Shadow. «Aspetta.» Aprì la portiera e uscì stirandosi gli arti rattrappiti e il collo. Poi strofinò le mani una contro l’altra per far circolare il sangue e riscaldarle.
«Cavoli. Sei altissimo.»
«Così dicono» rispose Shadow. «Tu chi sei?»
«Mi chiamo Sam» disse la voce.
«Sam maschio o Sam femmina?»
«Sam femmina. Prima scrivevo Sammi con la i, e sopra la i disegnavo una faccina sorridente, ma poi mi sono stufata perché lo facevano assolutamente tutti, così ho smesso.»
«Va bene, Sam femmina. Adesso vai là in fondo e guarda la strada.»
«Perché? Sei un folle assassino o qualcosa del genere?»
«No» rispose Shadow, «devo fare pipì e mi piacerebbe un momento di privacy.»
«Ah. Bene. D’accordo. Ho capito. Non c’è problema. Anch’io sono come te. Non posso fare pipì nemmeno se c’è qualcuno nel gabinetto vicino. È una forma grave di sindrome della vescica timida.»
«Allora?»
La ragazza si allontanò e Shadow fece qualche passo verso i campi, abbassò la cerniera dei jeans e orinò contro un palo della recinzione per un tempo molto lungo. Poi tornò alla macchina. L’ultima fioca luce dell’imbrunire aveva ceduto alla notte.
«Sei ancora lì?» le chiese.
«Sì» rispose lei. «La tua vescica deve avere la capienza del lago Erie. Nel tempo che hai impiegato a fare pipì sono sorti e caduti alcuni imperi. Il rumore si sentiva fin qui.»
«Grazie. Volevi qualcosa?»
«Be’, volevo sapere se stavi bene. Cioè, se eri morto o qualcosa del genere avrei chiamato la polizia. Ma siccome i finestrini erano appannati ho pensato che fossi ancora vivo.»
«Abiti da queste parti?»
«No. Sono venuta in autostop da Madison.»
«Non è una cosa sicura da fare.»
«Sono tre anni che lo faccio, cinque volte l’anno. Sono ancora viva. Tu dove sei diretto?»
«Arrivo fino a Cairo.»
«Perfetto» disse lei. «Io vado a El Paso. A passare le vacanze da mia zia.»
«Non ti posso portare fin là» disse Shadow.
«Non a El Paso in Texas. L’altro, quello in Illinois. È a poche ore a sud. Sai dove siamo, adesso?»
«No» rispose Shadow. «Non ne ho idea. Da qualche parte sull’autostrada Cinquantadue?»
«La prossima uscita è Perù» disse Sam. «Non quella in Perù. Quella in Illinois. Fatti annusare. Piegati.» Shadow si piegò e la ragazza gli annusò l’alito. «Va bene. Non sento odore di alcol. Puoi guidare. Andiamo.»
«Perché ti dovrei dare un passaggio?»
«Perché sono una donzella in difficoltà» disse lei. «E tu sei un cavaliere in… in una macchina molto sporca. Sai che qualcuno ha scritto "Lavami!" sul lunotto?» Shadow salì a bordo e aprì la portiera per la ragazza. La lucina che normalmente si accende in questi casi non funzionava.
«No» rispose. «Non lo sapevo.»
Sam salì. «Sono stata io» disse. «L’ho scritto io. Quando c’era ancora abbastanza luce.»
Shadow mise in moto, accese i fari e tornò verso la strada da cui era venuto. «Gira a sinistra» gli suggerì lei provvidenziale. Shadow svoltò a sinistra e continuò a guidare. Dopo qualche minuto il riscaldamento si mise in funzione e un piacevole tepore invase l’abitacolo.
«Non hai ancora detto niente» riprese Sam. «Di’ qualcosa.»
«Sei umana? Un autentico essere umano fatto di carne e ossa e nato da uomo e donna?»
«Certo.»
«Va bene. Era solo una domanda. Allora, che cosa vuoi che ti dica?»
«Qualcosa di rassicurante, direi. Improvvisamente mi è venuta quella sensazione tipo "oh merda, sono nella macchina sbagliata con l’uomo sbagliato".»
«Ah sì» disse lui. «La conosco. E cos’è che troveresti rassicurante?»
«Be’, sapere che non sei un evaso o un pluriomicida o roba del genere.»
Shadow rifletté per un momento. «Non sono niente del genere, davvero.»
«Però ci hai dovuto pensare.»
«Mi hanno rilasciato. Non ho mai ucciso nessuno.»
«Ah.»
Entrarono in una cittadina con le strade illuminate e le case coperte di decorazioni natalizie e Shadow gettò un’occhiata alla sua destra. La ragazza aveva i capelli neri, corti e arruffati e una faccia che risultava al tempo stesso attraente e leggermente mascolina, come se i suoi tratti fossero stati scolpiti nella roccia. Anche lei lo stava osservando.
«Perché sei stato in prigione?»
«Ho fatto molto male a un paio di persone. Ero arrabbiato.»
«Se lo meritavano?»
Shadow rifletté, prima di rispondere. «All’epoca pensavo di sì.»
«Lo rifaresti?»
«No, accidenti. Ho perso tre anni della mia vita in galera.»
«Mmm. Hai sangue indiano, nelle vene?»
«Non che io sappia.»
«Sembrerebbe.»
«Mi spiace deluderti.»
«Figurati. Hai fame?»
Shadow annuì. «Potrei mettere qualcosa sotto i denti» disse.
«Dopo il prossimo semaforo c’è un posto dove si mangia bene per poco.»
Shadow si fermò nel parcheggio. Scesero dalla macchina. Non si preoccupò di chiuderla ma infilò le chiavi in tasca. Poi prese qualche moneta per comperare un giornale. «Ti puoi permettere di mangiare qui?» chiese.
«Sì» rispose lei alzando il mento. «Posso pagarmi la cena.»
Shadow annuì. «Facciamo una cosa. Facciamo testa o croce» disse. «Testa mi inviti tu, croce pago io per tutti e due.»
«Fammi vedere la moneta» rispose lei con aria sospettosa. «Un mio zio ne aveva una truccata.»
Esaminò la moneta di Shadow, soddisfatta di scoprire che non aveva niente di strano. Lui la lanciò in modo che roteasse su se stessa, poi la prese al volo, la fece cadere sul dorso della mano sinistra e alzò la destra per scoprirla.
«Croce» disse lei tutta contenta. «Paghi tu.»
«Vabbè» rispose Shadow. «Bisogna saper perdere.»
Ordinò il polpettone, mentre Sam scelse le lasagne, poi sfogliò il giornale per vedere se parlavano dei cadaveri sul treno merci. Non ne parlavano. L’unica storia di qualche interesse era in copertina: la città era infestata da un numero straordinario di corvi. I coltivatori della zona pensavano di appenderne alcuni esemplari morti in cima agli edifici pubblici più alti per spaventare gli altri, ma secondo gli ornitologi quel sistema non avrebbe funzionato perché gli animali vivi si sarebbero limitati a mangiarseli. I contadini erano determinati. «Quando vedranno i loro amici morti» dichiarò il portavoce dei coltivatori «capiranno che qui non ce li vogliamo.»
Arrivarono i piatti colmi di cibo fumante, porzioni più generose di quelle che chiunque avrebbe potuto affrontare.
«Allora, che cosa c’è a Cairo?»
«Non ne ho idea. Ho ricevuto dal mio capo il messaggio di andarci.»
«Che lavoro fai?»
«Lavoro per mio zio.»
Sam sorrise. «Be’» disse, «con l’aspetto che hai e il rottame che guidi non puoi certo essere della mafia. A proposito, perché la tua macchina puzza di banana?»
Shadow scrollò le spalle e continuò a mangiare.
Sam socchiuse gli occhi. «Forse sei un contrabbandiere di banane» disse. «Non mi hai ancora chiesto che cosa faccio io.»
«Frequenterai l’università.»
«U.W. Madison.»
«Dove sicuramente studi storia dell’arte, storia del movimento femminile e, con ogni probabilità, ti fondi da sola le tue sculture in bronzo. Ah, forse per pagare l’affitto fai la cameriera in un bar.»
La ragazza appoggiò la forchetta sul tavolo; aveva le narici frementi, gli occhi sbarrati. «Come cazzo fai a saperlo?»
«Cosa? Adesso tu devi dire, no, in realtà frequento i corsi di letteratura romanza e di ornitologia.»
«Vuoi dire che hai tirato a indovinare?»
«Cosa?»
Lei lo fissò con occhi cupi. «Sei un tipo molto strano, signor… Non so come ti chiami.»
«Mi chiamano Shadow».
La ragazza fece una smorfia, come se avesse assaggiato qualcosa con un cattivo sapore. Smise di parlare, chinò la testa e finì il piatto di lasagne.
«Ma tu lo sai perché si chiama Little Egypt?» chiese Shadow quando la ragazza ebbe finito.
«La zona intorno a Cairo? Sì. Perché si trova sul delta dell’Ohio e del Mississippi. Come Il Cairo in Egitto, sul delta del Nilo.»
«Sembra ragionevole.»
Sam si appoggiò allo schienale, ordinò un caffè e una fetta di torta con crema e cioccolato e si ravviò i capelli con le dita. «Sei sposato, signor Shadow?» E poi, dopo un attimo di esitazione: «Cavoli. Devo aver fatto un’altra domanda sbagliata».
«L’hanno sepolta giovedì» rispose lui scegliendo con cura le parole. «È morta in un incidente automobilistico.»
«Oddio santo. Cavoli. Mi dispiace.»
«Anche a me.»
Seguì una pausa imbarazzata, poi Sam disse: «La mia sorellastra ha perso il figlio, mio nipote, alla fine dell’anno scorso. È dura.»
«Sì. Lo è. Di cosa è morto?»
Sam sorseggiò il caffè. «Non lo sappiamo. In effetti non sappiamo neanche se è veramente morto. E scomparso nel nulla. Aveva tredici anni. Nel cuore dell’inverno. Mia sorella è ancora a pezzi.»
«Nessuna traccia?» Parlava come un poliziotto in un telefilm. Provò a fare di meglio. «C’è il sospetto di violenza?» Così era addirittura peggio.
«Si è sospettato di quello stronzo irresponsabile di mio cognato, il padre del bambino. Uno capace di rapirlo. E probabilmente è andata così. Ma tutto questo è successo in una cittadina nei North Woods. Una bella cittadina gentile dove nessuno chiude la porta di casa.» Sospirò e scosse la testa. Teneva la tazza di caffè con tutte e due le mani. «Sei sicuro di non avere un po’ di sangue indiano?»
«Non che io sappia. È possibile. Non so molto sul conto di mio padre. La mamma me l’avrebbe detto se fosse stato un nativo. Però non si può mai sapere.»
Sam fece un’altra smorfia e a metà del dolce decise di rinunciare: le avevano servito una fetta grande come metà della sua testa. Allungò il piatto verso Shadow. «La vuoi?» Lui sorrise, disse: «certo», e la mangiò tutta.
Quando la cameriera portò il conto Shadow pagò.
«Grazie» gli disse Sam.
Ora faceva più freddo e prima di mettersi in moto il motore tossicchiò un paio di volte. Shadow ritornò sulla strada e riprese a guidare verso sud. «Hai mai letto Erodoto?» chiese.
«Cosa?»
«Erodoto. Hai mai letto le sue Storie?»
«Sai una cosa» disse lei in tono sognante, «io non ti capisco. Non capisco come parli né le parole che usi. Prima sembri un gigante tonto, il momento dopo mi leggi nel pensiero, e adesso siamo qui a parlare di Erodoto. Comunque no. Non l’ho letto. So chi è. Ne ho sentito parlare alla radio, in una trasmissione educativa, credo. Non è quello che chiamano il padre delle menzogne?»
«Credevo che quello fosse il diavolo.»
«Sì, anche. Ho sentito parlare di Erodoto a proposito delle formiche giganti e dei grifoni a guardia delle miniere d’oro, tutte cose che aveva inventato.»
«Non credo che inventasse. Scriveva quello che gli veniva raccontato. Scriveva storie, insomma, in genere storie molto interessanti, con un sacco di dettagli strani: tipo, lo sapevi che in Egitto se moriva una ragazza particolarmente bella o la moglie di un signore aspettavano tre giorni prima di farla imbalsamare? Lasciavano il corpo a decomporsi un po’ al sole.»
«Perché? Aspetta. Sì, ho capito. Oh, ma è disgustoso.»
«Nelle sue storie Erodoto racconta battaglie, e un sacco di altri eventi. E poi ci sono gli dèi. Un tizio torna di corsa a fare rapporto sugli esiti di una battaglia; corre, corre, e in una radura incontra il dio Pan. Pan gli dice: "Di’ alla tua gente di erigermi un tempio in questo punto". L’uomo risponde va bene e ricomincia a correre. Riferisce le notizie sulla battaglia e poi aggiunge: "Oh, a proposito, Pan vuole che gli costruiate un tempio". Così, come se fosse una cosa naturale, capisci?»
«Quindi ci sono storie che parlano di dèi. Che cosa stai cercando di dire? Che quella gente aveva le allucinazioni?»
«No» rispose Shadow. «Assolutamente no.»
Sam si mordicchiò la pellicina di un’unghia. «Ho letto un libro sul cervello. Ce l’aveva la mia compagna di stanza e continuava a sbandierarlo in giro. Parlava di quando cinquemila anni fa i lobi del cervello si sono fusi mentre prima la gente pensava che quando il lobo destro diceva qualcosa fosse la voce di un dio a ordinargli di fare questo e quello. È solo una questione di cervello, insomma.»
«Preferisco la mia teoria» disse Shadow.
«E quale sarebbe?»
«Che una volta alla gente capitava di incontrare gli dèi, ogni tanto.»
«Ah.» Silenzio. La macchina sferragliava, si sentivano il rombo del motore e i borbottii poco rassicuranti della marmitta. Poi: «Pensi che siano ancora lì?».
«Dove?»
«In Grecia, in Egitto. Nelle isole. In quei posti lì. Pensi che ripercorrendo le strade percorse da quegli uomini li vedremmo anche noi?»
«Forse. Ma credo che non li riconosceremmo.»
«Scommetto che li scambieremmo per alieni» disse lei. «Di questi tempi la gente vede gli alieni. Una volta vedevano gli dèi. Forse gli alieni vengono dal lato destro del cervello.»
«Secondo me gli dèi non facevano esplorazioni rettali per studiare gli abitanti della terra. Né uccidevano gli animali personalmente. Avevano esseri umani che svolgevano certi lavoretti per loro.»
Lei ridacchiò. Proseguirono per qualche minuto in silenzio e poi Sam disse: «Ehi, questo mi fa venire in mente una delle mie storie di dèi preferite, dal corso di religione comparata del primo anno. Vuoi che te la racconti?».
«Certo.»
«D’accordo. Parla di Odino. Il dio degli antichi scandinavi, hai presente? Allora, c’è un re vichingo su una nave vichinga — siamo all’epoca dei vichinghi, ovviamente — e siccome sono bloccati dalla bonaccia, il re dice che sacrificherà uno dei suoi uomini a Odino se il dio manda un vento che li porti fino a terra. Una volta arrivati tirano a sorte per decidere chi dev’essere sacrificato… — e tocca al re. Be’, il re non è contento, così si inventano di impiccarlo in effigie, in modo da risparmiarlo. Prendono le viscere di un vitello e gliele avvolgono intorno al collo, mentre fissano l’altra estremità su un rametto sottile, poi con un giunco, al posto della lancia, lo pungolano nel fianco dicendo: "Ecco, sei stato impiccato, il sacrificio a Odino sì è compiuto".»
La strada curvò: Another Town (300 ab.), patria dei secondi arrivati nel campionato di pattinaggio in velocità under 12, due enormi imprese di pompe funebri a prezzi popolari sui due lati della strada, e di quante imprese di pompe funebri si può aver bisogno, si domandò Shadow, con trecento abitanti…
«bene. Appena pronunciano il nome di Odino il giunco si trasforma in una lancia e apre una ferita nel fianco del re, l’intestino del vitello diventa una corda spessa, il rametto diventa un grosso ramo che lo tira su, e la terra sfugge ai piedi del re che rimane lì appeso a morire con una ferita nel fianco e la faccia che diventa nera. Fine della storia. I bianchi hanno degli dèi fuori di testa, signor Shadow.»
«Sì» rispose lui. «Tu non sei bianca?»
«Sono cherokee.»
«Cento per cento?»
«No. Cinquanta. La mamma era bianca. Mio padre era un vero indiano della riserva. È venuto da questa parte del mondo, ha sposato mia madre, sono nata io e quando si sono separati è tornato in Oklahoma.»
«È tornato nella riserva?»
«No. Con dei soldi presi in prestito ha aperto un locale, un’imitazione di Taco Bell che ha chiamato Taco Bill’s. Se la passa bene. Io non gli piaccio. Dice che sono una mezzosangue.»
«Peccato.»
«È un fesso. Io sono orgogliosa del mio sangue indiano. Mi permette anche di pagare la retta universitaria. Un giorno mi servirà perfino a trovare un lavoro, se non riuscirò a vendere i miei bronzi.»
«Già, le tue sculture.»
Si fermarono a El Paso, Illinois (2500 ab.) per far scendere Sam davanti a una casa male in arnese alla periferia della città. Nel cortile c’era la grossa sagoma metallica di una renna coperta di luci natalizie. «Vuoi entrare?» chiese lei. «La zia ti prepara volentieri un caffè.»
«No» rispose Shadow. «Devo andare.»