American Gods - Neil Gaiman 32 стр.


«E allora scappa?»

Il vecchio annuì con gravità. «Per me la colpa è della televisione che fa vedere ai ragazzi cose che non dovrebbero mai vedere, come Dallas e Dynasty e tutte quelle altre stupidaggini. Io non ho un televisore dall’autunno dell’83, solo uno in bianco e nero che tengo nell’armadio in caso qualcuno di fuori volesse vedere una partita importante.»

«Posso offrirle qualcosa, Hinzelmann?»

«Niente caffè. Mi dà acidità di stomaco. Solo acqua.» Il vecchio scosse la testa. «Il problema più grosso in questa parte del paese è la miseria. Non la miseria della Depressione, qualcosa di più… qual è la parola per dire che si infila dappertutto come gli scarafaggi?»

«Insidiosa?»

«Sì ecco, insidiosa. Il legname non dà più lavoro. Le miniere non danno più lavoro. I turisti non vanno più a nord di Dells, eccetto qualche raro cacciatore e i ragazzini che fanno campeggio sui laghi, però non spendono certo soldi nei negozi e nei locali della città.»

«Lakeside sembra una prospera cittadina.»

Il vecchio chiuse e aprì rapidamente le palpebre. «E non è un’impresa da poco. Credimi. È una bella città ed è l’energia di tutti a renderla bella. Non che la mia famiglia non fosse povera, quand’ero piccolo. Chiedimi che infanzia povera ho avuto.»

Shadow assunse l’espressione seria di chi sta al gioco e disse: «È stata un’infanzia povera la sua, signor Hinzelmann?».

«Solo Hinzelmann, Mike. Eravamo così poveri che non potevamo nemmeno permetterci di accendere il camino. Per festeggiare la notte di Capodanno mio padre succhiava una mentuccia e noi bambini ci mettevamo intorno con le mani tese ad aspettare che la facesse succhiare un pochino anche a noi.»

Shadow fece un fischio di incredulità. Hinzelmann infilò la maschera da sci, abbottonò l’enorme giacca scozzese, prese dalla tasca le chiavi dell’automobile e infine tirò fuori i guanti pesanti. «Se ti annoi vieni a cercarmi in negozio. Ti faccio vedere la mia collezione di mosche da pesca legate a mano. Ti annoierò talmente che dopo tornare quassù ti sembrerà un sollievo.» La voce arrivava soffocata ma comprensibile.

«Verrò» disse Shadow. «Come sta Tessie?»

«È in letargo fino a primavera. Stammi bene, Mike Ainsel.» Uscendo si chiuse la porta alle spalle.

Dopodiché, l’appartamento sembrò ancora più freddo.

Shadow si infilò la giacca e i guanti. Poi gli stivali. Dalle finestre non si riusciva a vedere quasi niente perché lo strato di ghiaccio sulla parte interna dei vetri trasformava il panorama lacustre in un dipinto astratto.

Il suo respiro formava nuvolette nell’aria.

Uscì sul portico di legno e bussò alla porta dei vicini. Sentì una voce femminile gridare a qualcuno di tacere e abbassare il volume della televisione… un bambino, pensò, perché in genere gli adulti non si rivolgono ad altri adulti urlando in quel modo. La porta si aprì e una donna dall’aria stanca con i capelli molto lunghi e molto neri lo fissò con circospezione.

«Sì?»

«Sono Mike Ainsel, signora. Il nuovo vicino.»

La donna rimase impassibile. «Sì?»

«Signora, nel mio appartamento si muore di freddo. Quel po’ di calore che arriva dalla grata non riscalda per niente.»

Lei lo guardò dall’alto in basso, poi l’ombra di un sorriso le sfiorò gli angoli della bocca. «Entri, prego. Se non entra si gelerà anche da noi.»

Shadow entrò. Il pavimento era disseminato di giocattoli di plastica colorati e accanto a un muro c’era un mucchio di carte da regalo strappate dai pacchetti natalizi. Un bambino incollato alla televisione guardava la videocassetta di Hercules, dove al momento un satiro saltellava gridando. Shadow cercò di dare la schiena allo schermo.

«Allora» cominciò la donna, «deve fare così: prima di tutto sigilli le finestre con una specie di striscia adesiva, la trova giù da Hennings. La incolli lungo gli infissi e se vuole fare le cose davvero bene ci passi sopra il phon, così non si stacca più per tutto l’inverno. Questo è il sistema migliore per impedire dispersioni di calore. Poi comperi un paio di termoconvettori. La caldaia del palazzo è vecchia e quando diventa così freddo non ce la fa. Ultimamente abbiamo avuto inverni abbastanza miti, dovremmo esserne contenti, immagino.» Poi gli tese la mano destra. «Sono Marguerite Olsen.»

«Piacere di conoscerla» disse Shadow. Si sfilò un guanto e ricambiò la stretta. «Sa una cosa? Ho sempre pensato che Olsen fosse un cognome per persone più bionde di lei.»

«Il mio ex marito era biondo come da manuale. Biondo e roseo. Non si abbronzava nemmeno sotto la minaccia di un’arma da fuoco.»

«Missy Gunther mi ha detto che lei scrive per il giornale locale.»

«Missy Gunther racconta tutto a tutti. Non capisco che bisogno ci sia di un giornale locale, con lei intorno.» Annuì. «Comunque sì. Raccolgo qualche notizia qui e là, anche se è il caporedattore a fare la cronaca. Io curo la rubrica della natura, quella di giardinaggio, tutte le domeniche la rubrica dei lettori e le "Notizie della Comunità", dove si racconta, con un’abbondanza di dettagli estenuante, chi è uscito a cena con chi nel raggio di venti chilometri.»

Quando lei lo guardò con i suoi occhi neri, Shadow sperimentò un istante di puro déja vu. Sono già stato qui, pensò.

No, lei mi ricorda qualcuno.

«Comunque se vuole riscaldare la casa deve fare come le ho detto.»

«Grazie. Quando sarà calda venga a trovarmi con il bambino.»

«Si chiama Leon. Piacere di averla conosciuta, signor… scusi…»

«Ainsel» disse Shadow. «Mike Ainsel.»

«Che tipo di nome è Ainsel?»

Shadow non ne aveva la minima idea. «Il mio» rispose. «Temo di non essermi mai interessato troppo alla storia di famiglia.»

«Norvegese, forse?»

«Non che io sappia» disse. Poi gli tornò in mente lo zio Emerson Borson e aggiunse: «Dal lato paterno, perlomeno».

Prima che arrivasse Wednesday, Shadow aveva sigillato tutte le finestre, sistemato un termoconvettore nel salotto e un altro in camera da letto. L’appartamento era quasi confortevole.

«Che cosa cazzo è quella porcheria rossa che guidi?» chiese Wednesday come formula di saluto.

«Be’, tu ti sei preso la mia porcheria bianca. A proposito, dov’è?»

«L’ho scambiata con un’altra a Duluth. La prudenza non è mai troppa. Non preoccuparti… quando abbiamo finito ti darò la tua parte.»

«Che cosa ci faccio qui?» chiese Shadow. «A Lakeside, voglio dire. Non al mondo.»

Wednesday sorrise in quel suo modo speciale che a Shadow faceva venire voglia di tirargli un cazzotto. «Sei venuto a vivere qui perché è l’ultimo posto dove verrebbero a cercati. A Lakeside ti posso tenere al riparo da sguardi indiscreti.»

«Chi dovrebbe cercarmi? I berretti neri?»

«Esattamente. Ho paura che ormai per noi la House on the Rock sia territorio proibito. È un momento difficile, comunque ce la faremo. Si tratta soltanto di battere i piedi, agitare i gagliardetti e fare qualche capriola prima che l’azione vera e propria cominci, leggermente più tardi del previsto. Credo che aspetteranno la primavera. Fino ad allora non dovrebbe succedere niente di grosso.»

«Come mai?»

«Perché possono anche blaterare discorsi su micromillisecondi e mondi virtuali e slittamenti paradigmatici e quello che ti pare, ma abitano in questo pianeta e sono pur sempre vincolati al ciclo delle stagioni. Questi sono i mesi morti. Una vittoria ottenuta adesso sarebbe una vittoria morta.»

«Non so di cosa stai parlando» disse Shadow. Non era del tutto vero. Una vaga idea ce l’aveva, ma sperava che fosse sbagliata.

«Sarà un inverno duro, e noi due impiegheremo il tempo nel modo più saggio, radunando le truppe e scegliendo il campo di battaglia.»

«D’accordo» disse Shadow. Sapeva che Wednesday gli stava dicendo la verità, o quantomeno una parte di verità. La guerra era vicina. No, non era esatto: la guerra era già cominciata, adesso stava per iniziare lo scontro finale. «Mad Sweeney mi ha detto che quando ci siamo incontrati la prima volta lui lavorava per te. Me l’ha detto prima di morire.»

«Avrei forse dovuto assumere qualcuno che non era neanche in grado di gestire una rissa da bar? Non temere, hai ripagato abbondantemente la fiducia che avevo riposto in te. Sei mai stato a Las Vegas?»

«Las Vegas nel Nevada?»

«Esatto.»

«No.»

«Ci andiamo questa sera da Madison con un aereo privato, un volo notturno per alti papaveri. Mi sono spacciato per uno di loro e li ho convinti a farci salire.»

«Non ti stanchi mai di dire bugie?» domandò Shadow in tono cortese, per pura curiosità.

«Assolutamente mai. Comunque è la verità. La posta in gioco è molto alta, e noi lavoriamo per i pezzi grossi. Le strade sono pulite, per arrivare a Madison non dovremmo impiegare più di due ore. Spegni le stufe e chiudi la porta. Sarebbe orribile se durante la tua assenza il palazzo finisse in cenere.»

«Da chi andiamo, a Las Vegas?»

Wednesday glielo disse.

Shadow spense i termoconvettori, infilò qualche indumento di ricambio in una borsa da viaggio, si voltò e disse: «Guarda, mi sento un po’ stupido. So che mi hai appena detto chi stiamo andando a trovare, ma inspiegabilmente l’ho già dimenticato. Una specie di vuoto di memoria. Me lo ripeti?».

Wednesday glielo disse di nuovo.

Questa volta gli sembrava di averlo afferrato. Il nome era lì, sulla punta della memoria. Rimpianse di non aver fatto più attenzione. Poi abbandonò il pensiero.

«Chi guida?»

«Tu» rispose Wednesday. Uscirono di casa, scesero la scala di legno e si diressero lungo il sentiero ghiacciato verso la Lincoln nera parcheggiata vicino al marciapiede.

Shadow si mise al volante.

Chi entra in un casinò viene assalito da richiami invitanti, richiami invitanti che solo un uomo di pietra, senza cuore, senza cervello e stranamente sprovvisto di cupidigia potrebbe declinare. Senti: il rumore a mitraglia delle monete d’argento che rotolano e si rovesciano nel vassoietto delle slot machine e a volte finiscono sui tappeti monogrammati viene sostituito dal clangore allettante delle monete introdotte nelle fessure, dalle musichette stridule inghiottite dall’enorme salone, soffocato in un confortevole ronzio di sottofondo quando si arriva ai tavoli da gioco, suoni distanti, perfetti per far scorrere l’adrenalina nelle vene del giocatore.

I casinò possiedono un segreto, un segreto che custodiscono e proteggono e stimano come il più sacro dei loro misteri. La maggior parte della gente non gioca per vincere, come in genere viene pubblicizzato, venduto, dichiarato e sognato. È una facile bugia che dà alla gente l’alibi per entrare da quelle enormi porte sempre aperte.

Il segreto è questo: la gente gioca per perdere. Vengono nei casinò per fare l’esperienza di quell’istante in cui si sentono vivi, in groppa alla ruota della roulette, quando vengono girati come le carte o quando, insieme alle monete, smarriscono nelle fessure anche se stessi. Magari si vantano di qualche vincita, di quella certa notte in cui hanno sbancato il casinò, ma custodiscono come un tesoro, un tesoro prezioso, tutte le volte in cui hanno perso. È una specie di sacrificio rivolto a qualche divinità.

I soldi scorrono in un ininterrotto flusso color verde e argento, passano di mano in mano, dal giocatore al croupier al cassiere alla direzione alla sicurezza per finire nel sancta sanctorum, il luogo più segreto, l’ufficio contabile. Ed è qui, nell’ufficio contabilità del casinò, che vieni a riposare, qui dove i bigliettoni verdi vengono contati, impilati, schedati, in uno spazio che diventa ben presto ridondante man mano che il denaro fluito attraverso il casinò diventa immaginario: una sequenza elettrica di on e off, sequenze che scorrono lungo le linee telefoniche.

Nell’ufficio contabilità vedi tre uomini che contano i soldi sotto l’occhio vitreo delle telecamere di cui sono a conoscenza e sotto lo sguardo da insetto di minitelecamere la cui presenza invece ignorano. Durante il suo turno ogni uomo conta più denaro di quanto ne potrà mai guadagnare in una vita intera. Ognuno di loro, quando dorme, sogna di contare le banconote, di impilarle e legarle con le fascette e di vederne sempre di più che vengono smistate e si perdono. Ognuno di loro almeno una volta alla settimana si è futilmente chiesto se esiste un modo per eludere i controlli di sicurezza del casinò e sparire con tutto quello che riuscirebbe ad arraffare; ognuno di loro ha analizzato il sogno, ha stabilito che è irrealizzabile e si è accontentato di uno stipendio sicuro, evitando lo spettro della prigione e di una tomba senza nome.

E qui, nel sancta sanctorum, ci sono i tre uomini che contano i soldi, e le guardie di sicurezza che li sorvegliano e portano i soldi avanti e indietro; e poi c’è un’altra persona. Il suo abito grigio scuro è impeccabile, anche i capelli sono scuri, è ben rasato e sia il suo volto sia il suo atteggiamento risultano in ogni senso facili da dimenticare. Nessuno degli altri si è accorto della sua presenza e se l’hanno notato l’hanno dimenticato immediatamente.

Quando si arriva alla fine del turno si aprono le porte e l’uomo con l’abito grigio esce dalla stanza e si avvia con gli agenti di sicurezza lungo i corridoi; i passi risuonano ovattati sui tappeti con il monogramma. Le casseforti con il denaro vengono spinte sui carrelli fino a un’area di carico interna dove sono trasferite su furgoni blindati. Quando il cancello della rampa si spalanca per permettere ai veicoli blindati di immettersi nelle strade di Las Vegas all’alba, l’uomo con l’abito grigio varca la soglia senza essere visto, salta sulla rampa e arriva al marciapiede. Non si degna nemmeno di alzare lo sguardo, alla sua sinistra, verso l’imitazione di New York.

Las Vegas è diventata l’interpretazione onirica di una città uscita da un libro di fiabe: qui un castello tratto da un racconto per bambini, lì una piramide nera con la sfinge e luci bianche che fendono l’oscurità come il raggio di un Ufo in manovra d’atterraggio, e dappertutto oracoli al neon e schermi rotanti su cui scorrono messaggi di felicità e fortuna, annunci di cantanti, attori e maghi che si esibiscono stabilmente o in tournée, e luci che scintillano invitanti. Ogni ora un vulcano ha un’eruzione di luci e fiamme. Ogni ora una nave pirata affonda una nave da guerra.

L’uomo in grigio cammina lentamente, a suo agio sui marciapiedi, e sente il denaro fluire per la città. Durante l’estate le strade sono roventi, e passando davanti ai negozi l’impianto di aria condizionata soffia una ventata d’inverno nel clima tropicale che gli ghiaccia il sudore sulla faccia. Adesso, nell’inverno desertico, tira un vento secco che gli piace. Nella sua mente il movimento del denaro forma una delicata struttura reticolare, una specie di ripiglino tridimensionale di luce e movimento. Ciò che lo incanta di questa città nel deserto è la velocità, il modo in cui il denaro si sposta da un punto all’altro e passa di mano in mano: per lui è come uno sballo, l’effetto di una droga che lo spinge, come un tossicomane, a scendere per strada.

Un taxi lo segue a passo d’uomo, a debita distanza. Lui non se ne accorge; non gli viene neanche in mente; ci si accorge così di rado di lui che l’idea di poter essere seguito gli risulta quasi inconcepibile.

Sono le quattro del mattino ed è attirato da un albergo con casinò passato di moda da trent’anni, ancora aperto per un giorno o per sei mesi, fino a quando non lo faranno implodere, non lo abbatteranno per costruire al suo posto un palazzo di divertimenti e dimenticarlo per sempre. Nessuno lo conosce, nessuno si ricorda di lui, ma il bar dell’albergo è sciatto e tranquillo e il fumo delle sigarette ha colorato l’aria d’azzurro e a un piano di sopra c’è qualcuno che in una saletta privata sta per perdere parecchi milioni di dollari a poker. L’uomo in grigio prende posto al bar molti piani sotto, ignorato dalla cameriera. Risuonano subliminali le note di una versione filodiffusa di Why Can’t He Be You? Cinque imitatori di Elvis Presley, ciascuno con una tuta da paracadutista di diverso colore, guardano alla Tv una partita di calcio in differita notturna.

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