American Gods - Neil Gaiman 47 стр.


L’uomo annuì. «Deve fare reclamo presso le autorità competenti. Il nostro compito è portarlo in sede.»

Chad era irritato. Si voltò verso Shadow. «D’accordo» disse. «L’uscita sulla rampa è di là.»

«Come?»

«Di là. Si arriva direttamente alla macchina.»

Liz aprì con le chiavi. «Faccia in modo che quest’uniforme arancione torni da dove è venuta» disse. «La divisa dell’ultimo delinquente che abbiamo spedito a Lafayette non è più tornata. La contea le paga.» Spinsero Shadow oltre la soglia dove li aspettava una macchina con il motore acceso. Era una berlina nera, non l’automobile del dipartimento dello sceriffo. Un altro agente, brizzolato e con i baffi, stava fumando una sigaretta in piedi vicino alla macchina. Vedendoli arrivare la spense sotto una scarpa e aprì la portiera posteriore per far salire Shadow.

Salì a fatica, impacciato dalle manette e dai ceppi. Non c’era nessuna griglia divisoria nell’abitacolo.

I due uomini dello sceriffo salirono davanti. Quello di colore si era messo al volante. Aspettava che gli aprissero il portone.

«Dai, sbrigati» disse, tamburellando con le dita sul volante.

Chad Mulligan picchiò su un finestrino. L’agente bianco diede un’occhiata al collega e poi abbassò il vetro. «Non si fa così» disse Chad. «Volevo soltanto dire questo.»

«Abbiamo preso nota delle sue opinioni e le trasmetteremo a chi di dovere» rispose l’uomo al volante.

Le porte sul mondo esterno si spalancarono. Stava ancora nevicando, una macchia confusa alla luce dei fanali. L’agente alla guida accelerò e imboccò la strada che portava su Main Street.

«Hai saputo di Wednesday?» chiese. Adesso la sua voce suonava diversa, più vecchia, e familiare. «E morto.»

«Sì. Lo so» rispose Shadow. «L’ho visto alla Tv.»

«Quei bastardi» disse l’agente di razza bianca. Erano le sue prime parole, pronunciate con una voce roca e un forte accento, una voce familiare come quella dell’autista. «Te lo dico io cosa sono quelli, bastardi e figli di puttana.»

«Grazie di essere venuti a prendermi.»

«Figurati» disse l’uomo al volante. Alla luce dei fanali di un’automobile che veniva in senso contrario sembrava già più vecchio. E più piccolo. L’ultima volta che Shadow l’aveva visto indossava un paio di guanti giallo limone e una giacca a quadretti. «Eravamo a Milwaukee. Quando è arrivata la chiamata di Ibis ci siamo messi a correre come matti.»

«Credi che gli permetteremmo di sbatterti dentro e spedirti sulla sedia elettrica quando io sono ancora qui che aspetto di spaccarti la testa con la mia mazza?» chiese tetramente l’altro mentre rovistava in una tasca in cerca delle sigarette. Aveva un accento dell’Europa dell’Est.

«Il vero casino scoppierà tra meno di un’ora» disse il signor Nancy, sempre più simile a se stesso ormai, «quando arriveranno a prenderti davvero. Usciamo prima di imboccare la Highway 53: ti leviamo quei cosi e tu ti rivesti.» Chernobog mostrò la chiave per aprire le manette e i ceppi e sorrise.

«Mi piace con i baffi» gli disse Shadow. «Le stanno bene.»

Chernobog li accarezzò con un polpastrello giallo di nicotina. «Grazie.»

«È proprio morto, Wednesday? Non è uno scherzo, vero, o qualcosa del genere?»

Si rese conto solo in quel momento di essersi aggrappato a una speranza, una folle speranza. Ma l’espressione di Nancy gli disse tutto quello che c’era da sapere e anche l’ultima speranza svanì.

L’arrivo in America

14.000 a.C.

Quando ebbe la visione faceva freddo ed era buio, perché all’estremo Nord la luce era un grigiore fugace a metà di giornate che cominciavano, e finivano, tutte uguali: un interludio tra due oscurità.

Non si potevano definire, secondo i parametri di allora, una tribù numerosa: erano i nomadi delle Pianure Settentrionali. Avevano un dio, il cranio di un mammut, e la sua pelle, trasformata in un rozzo mantello. Nunyunnini, lo chiamavano. Quando non erano in viaggio lo tenevano su una piattaforma di legno, ad altezza d’uomo.

Lei era la sacerdotessa, guardiana dei segreti della divinità, e si chiamava Atsula, la volpe. Atsula precedeva i due uomini che portavano il dio su lunghi bastoni, avvolto in pelli d’orso perché occhi profani non lo vedessero in epoche considerate poco propizie.

Piantavano le loro tende ovunque, nella tundra. La più bella, fatta con pelli di caribù, era la tenda sacra e in quel momento accoglieva quattro membri della tribù: Atsula la sacerdotessa, Gugwei l’anziano, Yanu, il capo dei guerrieri, e Kalanu la guida. Li aveva convocati Atsula il giorno dopo aver avuto la visione.

Con la mano sinistra rattrappita, Atsula gettò dei licheni nel fuoco, e poi qualche foglia secca: il fumo che si alzò dalle fiamme faceva lacrimare gli occhi e aveva un odore acre e strano. Poi prese una tazza di legno dalla piattaforma e la porse a Gugwei. Dentro c’era un liquido giallo scuro.

Atsula aveva trovato i funghi pungh — ogni esemplare dotato di sette macchie, come solo una sacerdotessa sapeva trovare — li aveva raccolti nelle notti senza luna, e li aveva fatti essiccare su una striscia di cartilagine di daino.

La sera precedente, prima di dormire, ne aveva mangiati tre. I suoi sogni erano stati confusi, spaventosi, popolati di luci violente e improvvise, di montagne rocciose con lampi puntati verso il cielo come ghiaccioli. Durante la notte si era svegliata immersa in un bagno di sudore. Accovacciata sopra la tazza di legno l’aveva riempita di urina. Poi aveva messo la tazza fuori, nella neve, ed era tornata a dormire.

Al risveglio aveva tolto lo strato di ghiaccio dalla tazza dove era rimasto un liquido molto concentrato.

Era quel liquido che stava offrendo agli altri, prima a Gugwei, poi a Yanu e Kalanu. Ne presero tutti un gran sorso, poi toccò a lei. Versò ciò che restava per terra davanti al dio, una libagione a Nunyunnini.

Rimasero seduti nella tenda fumosa in attesa che la divinità parlasse. Fuori, nelle tenebre, il vento gemeva e ansimava.

Kalanu, la guida, era una donna che vestiva e si comportava come un maschio: si era perfino presa Dalani, una fanciulla di quattordici anni, in moglie. Kalanu chiuse le palpebre con forza, poi si alzò e si avvicinò al cranio del mammut. Si infilò sotto il mantello in modo da entrare con la testa nel teschio.

«C’è il male nella nostra terra» disse Nunyunnini con la voce di Kalanu. «Un male di tale portata che se resterete nella terra delle vostre madri e delle madri delle vostre madri perirete tutti.»

I tre che ascoltavano reagirono con un borbottio.

«Sono i mercanti di schiavi? Oppure i grandi lupi?» chiese Gugwei dai lunghi capelli bianchi, con il volto rugoso come la corteccia grigia di un biancospino.

«Non sono i mercanti di schiavi» rispose Nunyunnini, antico idolo. «Non sono i grandi lupi.»

«È una carestia? Sta arrivando un’epoca di carestia?» insisté Gugwei.

Nunyunnini taceva. Kalanu uscì dal cranio e dal mantello e aspettò con gli altri.

Toccò a Gugwei nascondersi sotto il manto e infilare la testa dentro il teschio.

«Non è una carestia come ne avete conosciute» disse Nunyunnini attraverso la bocca di Gugwei, «anche se la carestia verrà.»

«Allora cosa sarà?» domandò Yanu. «Io non ho paura. L’affronterò. Abbiamo lance, e pietre. Avremo la meglio anche su cento guerrieri invincibili. Li condurremo negli acquitrini e lì, con le nostre pietre, spaccheremo loro la testa.»

«Non è faccenda d’uomini» disse Nunyunnini con la vecchia voce di Gugwei. «Arriverà dal cielo, e né le tue lance né le tue pietre potranno niente.»

«Come faremo a proteggerci?» chiese Atsula. «Ho visto fiamme nel cielo. Ho udito rumori più assordanti del tuono. Ho visto foreste rase al suolo e fiumi in ebollizione.»

«Ahi…» disse Nunyunnini, ma non aggiunse altro. Gugwei uscì dal cranio del mammut piegandosi a fatica, perché era un uomo anziano, con le articolazioni gonfie e rigide.

Seguì un lungo silenzio. Atsula gettò altre foglie tra le fiamme e il fumo fece lacrimare gli occhi a tutti e quattro.

Poi fu Yanu a introdurre la testa nel cranio, a stringersi il mantello intorno alle spalle possenti. La sua voce rimbombò nella tenda. «Dovete mettervi in cammino» disse Nunyunnini. «Dovete viaggiare in direzione del sole. Là dove sorge il sole, troverete una nuova terra e sarete salvi. Sarà un lungo viaggio: la luna nascerà e morirà due volte, incontrerete mercanti di schiavi e belve feroci, ma io vi guiderò e vi proteggerò, se viaggerete verso il sole.»

Atsula sputò sul pavimento fangoso e disse «No.» Sentiva su di sé lo sguardo del dio. «No» ripeté. «Sei una divinità cattiva se ci ordini di partire. Moriremo. Moriremo tutti e allora chi rimarrà per trasportarti da una piattaforma all’altra, per montare la tua tenda, per ungere di grasso le tue grandi zanne?»

Il dio non rispose. Atsula prese il posto di Yanu e fissò dalle orbite vuote e ingiallite del mammut.

«Atsula non ha fede» disse Nunyunnini con la voce della sacerdotessa. «Atsula morirà prima che il resto della tribù entri nella nuova terra, ma la tribù vivrà. Abbiate fede in me: a oriente c’è una terra disabitata. Sarà la vostra terra e la terra dei vostri figli e dei figli dei vostri figli per sette generazioni e sette volte sette. Se Atsula non avesse dubitato sarebbe stata vostra per sempre. Al mattino raccoglierete le vostre tende e i vostri averi e partirete verso il sole.»

E Gugwei, Yanu e Kalanu chinarono il capo e inneggiarono alla potenza e alla saggezza di Nunyunnini.

La luna divenne piena e calò, rinacque e calò nuovamente. La gente della tribù camminava verso oriente, verso il sole nascente, lottando contro i venti gelidi che bruciavano la pelle. Nunyunnini aveva promesso il vero: durante il viaggio non persero nessun membro della tribù eccetto una donna che morì di parto, ma le partorienti appartengono alla luna, non a Nunyunnini.

Attraversarono il ponte che univa i continenti.

Kalanu era partita alle prime luci dell’alba per esplorare il terreno. Adesso era buio e non era ancora tornata, il cielo era popolato di stelle che pulsavano luminose, vive e in movimento, bianche e verdi, viola e rosse. Atsula e la sua gente avevano già visto l’aurora boreale e ne avevano ancora paura, ma questo era uno spettacolo perfino più spaventoso.

Kalanu tornò quando le luci inondavano il cielo.

«Ci sono momenti» disse ad Atsula «in cui mi pare che potrei spalancare le braccia e volare in cielo.»

«Perché sei una guida» le rispose la sacerdotessa. «Quando morirai andrai in cielo e diventerai una stella che ci guiderà come ci hai guidato in vita.»

«A oriente ci sono montagne di ghiaccio, molto alte» disse Kalanu dai lunghi capelli corvini secondo la foggia maschile. «Possiamo scalarle, ci vorranno molti giorni.»

«Ci condurrai al sicuro» disse Atsula, «io morirò ai piedi di una montagna, e la mia morte sarà il sacrificio per il vostro passaggio nella nuova terra.»

A occidente, nelle terre da cui erano venuti, dove il sole era tramontato già da ore, il cielo fu squarciato da una luce spaventosamente gialla, più violenta del lampo, più intensa del sole. Un’esplosione di puro fulgore che spinse tutti quelli che stavano attraversando il ponte a coprirsi gli occhi, sputando e gridando. I bambini piangevano.

«Quella è la disgrazia da cui ci aveva messo in guardia Nunyunnini» disse Gugwei l’anziano. «È un dio saggio e potente.»

«Il migliore degli dèi» disse Kalanu. «Nella nuova terra gli innalzeremo un’alta piattaforma e lucideremo le sue zanne e il suo cranio con olio di pesce e grasso animale, e racconteremo ai nostri figli e ai figli dei nostri figli e ai figli dei figli per sette generazioni che Nunyunnini è l’onnipotente e che non dovrà mai essere dimenticato.»

«Gli dèi sono grandi» disse Atsula con lentezza, come se stesse comunicando un segreto terribile. «Però il nostro cuore è più grande ancora. Poiché è dai nostri cuori che essi nascono, e ai nostri cuori faranno ritorno…»

E non possiamo dire quante altre parole blasfeme avrebbe aggiunto a queste, perché fu interrotta con una violenza che non ammetteva repliche.

Il rombo che arrivò da occidente era così forte da far sanguinare le orecchie e lasciò tutti sordi per qualche momento, temporaneamente ciechi e sordi ma vivi, consapevoli di essere stati più fortunati delle tribù che non si erano spinte altrettanto a oriente.

«È una buona cosa» disse la sacerdotessa senza riuscire a sentir» le proprie parole.

Atsula morì ai piedi della montagna quando il sole di primavera era allo zenit. Non riuscì a vedere il Nuovo Mondo, e la sua tribù raggiunse la nuova terra senza sacerdotessa.

Scalarono le montagne dirigendosi verso sud e verso occidente, fino a quando non trovarono una valle dove scorreva acqua limpida, e dove pesci argentei nuotavano in abbondanza nei fiumi, una valle popolata da cervi che non conoscevano l’uomo ed erano talmente mansueti che prima di ucciderli si doveva sputare e chiedere perdono al loro spirito.

balani mise al mondo tre maschi, e qualcuno disse che Kalanu era riuscita a compiere la più difficile delle magie e a ingravidare la sua sposa, e altri dissero che Gugwei non era troppo vecchio per tenere compagnia a una donna, quando il marito era lontano, e certamente, dopo la morte di Gugwei, Dalani non ebbe più figli.

La glaciazione cominciò e finì e la gente si sparse sul territorio dando vita a nuove tribù che scelsero nuovi totem: corvi e volpi e orsi e grandi felini e bufali, ogni animale contrassegnava l’identità di ciascuna tribù, e tutti erano dèi.

Nella nuova terra i mammut erano più grandi e più lenti, più sprovveduti dei mammut delle pianure siberiane, e i funghi pungh dalle sette macchie risultarono introvabili e Nunyunnini non parlò più agli uomini della sua tribù.

Poi, al tempo dei nipoti di Dalani e Kalanu, un manipolo di guerrieri di una ricca e numerosa tribù che tornavano a casa da una spedizione a settentrione a caccia di schiavi, capitarono nella vallata dove si era stabilito il popolo originario: uccisero quasi tutti gli uomini e fecero prigionieri donne e bambini.

Nella speranza di ottenere clemenza uno dei bambini li portò in una caverna nella montagna dove trovarono il cranio di un mammut, ciò che restava della sua pelle, una tazza di legno e il teschio di Atsula l’oracolo.

Alcuni guerrieri avrebbero voluto prendere gli oggetti sacri, rubando gli dèi del Popolo Originario e assorbendone il potere, ma altri si opposero, dicendo che ciò avrebbe portato soltanto sfortuna, scatenando le ire dei loro dèi (perché questi erano i membri della tribù dei corvi, e i corvi sono divinità gelose).

Così gettarono tutto in un profondo dirupo e portarono con sé i sopravvissuti del Popolo Originario nel loro lungo viaggio verso sud. Le tribù dei corvi e le tribù delle volpi diventarono ancora più potenti in quella terra e ben presto Nunyunnini fu completamente dimenticato.

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