«Ovunque vada la mia gente, là io ho occhi e orecchi» disse lei. «Sta’ attento, bello…» Seguì un momento di silenzio, poi all’apparecchio tornò il signor Ibis. «Mike?»
«Sì.»
«C’è qualche difficoltà a rintracciare tuo zio. Sembra impossibilitato a muoversi. Comunque cercherò di far arrivare un messaggio a Nancy. Buona fortuna.» Riattaccò.
Shadow sedette ad aspettare il ritorno di Chad nell’ufficio vuoto, rimpiangendo che non ci fosse niente a distrarlo. Con riluttanza riprese in mano il Minutes, lo aprì a caso e cominciò a leggere.
Un’ordinanza presentata e approvata con otto voti contro quattro nel dicembre del 1876 proibiva di sputare e di gettare tabacco sui marciapiedi e sul pavimento dei luoghi pubblici.
Il 13 dicembre 1876 Lemmi Hautala, dodici anni, "era fuggita, si temeva, in preda a un delirio. Le ricerche erano scattate subito ma la tormenta di neve le aveva fatte sospendere". Il consiglio comunale aveva votato all’unanimità una mozione per inviare le condoglianze alla famiglia.
L’incendio scoppiato nelle stalle e nelle scuderie Olsen la settimana successiva era stato spento senza danni per uomini e cavalli.
Shadow cercò nelle colonne di testo fitto e molto piccolo ma non trovò altre notizie su Lemmi Hautala.
E poi, mosso non soltanto dal capriccio, andò a vedere le pagine che riguardavano l’inverno del 1877 e trovò ciò che cercava. Era un appunto nei verbali di gennaio: Jessie Lovat, di età imprecisata, una "bambina negra", era scomparsa la notte del 28 dicembre. Si riteneva che fosse stata "rapita dai cosiddetti venditori ambulanti". Alla famiglia Lovat non erano state mandate le condoglianze dell’amministrazione.
Shadow stava studiando i verbali dell’inverno 1878 quando Chad Mulligan entrò, dopo aver bussato, con l’aria di un bambino che torni a casa con una pagella piena di brutti voti.
«Ainsel» disse. «Mike. Sono desolato. Personalmente mi piaci. Però questo non cambia le cose, capisci?»
Shadow rispose che capiva.
«Non posso far altro che arrestarti per violazione della libertà vigilata.» Gli lesse i suoi diritti, riempì alcuni moduli, gli prese le impronte digitali e lo accompagnò lungo il corridoio, fino al gruppo di celle che si trovavano dall’altra parte dell’edificio.
C’era un lungo banco, alcune porte su un lato della stanza, due celle e un’altra porta. Una delle celle era occupata da un uomo che dormiva sul pavimento di cemento sotto una coperta sottile. L’altra era vuota.
Dietro il banco una donna dall’aria assonnata con un’uniforme marrone guardava Jay Leno su un piccolo televisore portatile bianco. Lesse i documenti e firmò. Chad si trattenne a riempire altre carte. La donna venne da questa parte del banco, perquisì Shadow, gli prese tutto — portafogli, monete, chiavi, libro, orologio — e l’appoggiò sul banco, poi gli diede un sacchetto di plastica che conteneva la divisa arancione e gli disse di andare a cambiarsi nella cella aperta. Poteva tenersi i calzini e la biancheria intima. Shadow entrò nello stanzino, indossò la divisa carceraria e le pantofole. C’era una puzza tremenda. La casacca arancione che infilò dalla testa aveva sulla schiena una scritta a grandi lettere nere: LUMBER COUNTY JAIL.
Il gabinetto intasato era pieno fino all’orlo di un liquame scuro, feci liquide e piscio acre di bevitori di birra.
Quando uscì diede i suoi indumenti alla donna che li infilò in un sacco di plastica con tutti i suoi averi. Prima di consegnarle il portafogli le disse: «C’è tutta la mia vita, qui dentro». La donna lo prese e lo tranquillizzò dicendo che sarebbe stato al sicuro. Chiese a Chad di confermare e il poliziotto, alzando la testa dall’ultimo foglio, rispose che Liz diceva la verità, non avevano mai perso niente di proprietà dei detenuti.
Shadow era riuscito a nascondere nei calzini le quattro banconote da cento dollari che aveva sfilato dal portafogli, insieme al dollaro d’argento fatto sparire mentre si svuotava le tasche.
«Senti» disse uscendo dalla cella dove si era cambiato, «non potrei finire di leggere il libro?»
«Mi dispiace, Mike, le regole sono regole» rispose Chad.
Liz andò a riporre gli effetti personali di Shadow in uno sgabuzzino e Chad lo salutò dicendo che lo affidava all’ottimo agente Bute. Liz lo guardò con l’aria stanca, per niente lusingata. Chad uscì. Squillò il telefono e Liz — l’agente Bute — rispose. «Okay» disse. «Okay. Nessun problema. Okay. Nessun problema. Okay.» Riagganciò il ricevitore facendo una smorfia.
«Qualche problema?»
«Sì. Be’, non proprio. Una specie. Mandano qualcuno a prenderti da Milwaukee.»
«Perché dovrebbe essere un problema?»
«Perché devo tenerti qui dentro per tre ore con me» rispose la donna. «E quella cella» — indicò la più vicina alla porta, con l’uomo che dormiva sul pavimento — «è occupata. Il fermato è sotto controllo perché ha tentato il suicidio. Non posso metterti con lui. Però per tre ore non vale la pena di portarti nella prigione della contea.» Scosse la testa. «E non puoi certo stare lì dentro» — questa volta indicò la cella dove si era cambiato — «perché il cesso è rotto. La puzza è tremenda, vero?»
«Sì, insopportabile.»
«Lo farei per chiunque. Non vedo l’ora di andare nella nuova sede. Ieri abbiamo avuto una donna in quella cella, deve aver buttato dentro un assorbente. Le avverto sempre: ci sono i contenitori appositi. Gli assorbenti intasano lo scarico. Ogni stramaledetto assorbente giù per quel cesso costa alla contea cento dollari di idraulico. Quindi ti posso tenere qui con me ma devo metterti le manette. Oppure te ne stai nella cella puzzolente.» Lo guardò. «Scegli tu.»
«Sceglierò le manette, anche se non mi piacciono.»
L’agente Bute ne staccò un paio dalla cintura e batté una mano sulla fondina, come per ricordargli che era armata. «Metti le mani dietro la schiena.»
Le manette stringevano, Shadow aveva i polsi grandi. Poi gli mise i ceppi alle caviglie e lo fece sedere su una panca all’altra estremità del banco, contro il muro. «Adesso» disse, «se tu non dai fastidio a me io lascio tranquillo te.» Girò il televisore in modo che potesse vederlo anche lui.
«Grazie.»
«Quando avremo gli uffici nuovi» spiegò l’agente Bute «questi casini non succederanno più.»
Il Tonight Show terminò e cominciò un episodio di Cheers. Shadow non aveva l’abitudine di guardarlo, ma la puntata in cui la figlia di Coach arriva al bar l’aveva vista molte volte. Secondo lui si finisce per vedere sempre lo spesso episodio dei programmi che uno non segue, anno dopo anno; doveva essere una specie di legge cosmica.
L’agente Liz Bute si assopì davanti allo schermo. Non era profondamente addormentata, ma nemmeno sveglia, quindi non si accorse che a un certo punto i personaggi di Cheers avevano smesso di recitare le loro battute per mettersi a fissare Shadow.
Diane, la barista bionda che si crede un’intellettuale, fu la prima a rivolgergli la parola. «Shadow» disse, «eravamo così preoccupati per te. Sei scomparso dalla circolazione. Mi fa tanto piacere vederti, anche se in ceppi e couture penitenziaria.»
«Quello che dovresti fare, secondo me» pontificò quel seccatore di Cliff, «è di evadere durante la stagione della caccia, quando si vestono tutti d’arancione.»
Shadow rimase in silenzio.
«Ah, il gatto ti ha mangiato la lingua, a quanto pare» disse Diane. «Be’, ci hai fatto fare proprio un bell’inseguimento!»
Shadow distolse lo sguardo. L’agente Liz aveva cominciato a russare debolmente. La cameriera Carla sbottò: «Ehi, stronzo! Abbiamo interrotto la puntata per farti vedere qualcosa che te la farà fare addosso. Sei pronto?».
L’immagine vacillò e lo schermo diventò nero. La parola DIRETTA pulsava in bianco nell’angolo in basso a sinistra. Una sommessa voce femminile fuori quadro disse: «Non è ancora tardi per passare dalla parte dei vincitori. Comunque sei libero di restare dove sei. Essere americano significa poter scegliere. Questo è il miracolo americano. Libertà di fede significa essere liberi di credere nella cosa sbagliata, in fondo. Esattamente come la libertà di parola ti dà il diritto di tacere».
Adesso sullo schermo si vedeva l’immagine di una strada. La telecamera avanzò a sobbalzi come in un documentario girato con una cinepresa a spalla.
Un uomo con i capelli radi, l’abbronzatura e l’aria avvilita, riempì lo schermo. Era in piedi accanto a un muro e sorseggiava caffè da un bicchiere di plastica. Guardò in macchina e disse: «I terroristi si nascondono dietro definizioni astute come "combattenti per la libertà". Voi e io sappiamo che sono soltanto una banda di assassini».
Shadow riconobbe la voce. Una volta era stato dentro la testa di quell’uomo. Anche se dall’interno la voce del signor Town gli era sembrata diversa — più profonda, con più risonanza — era certo di non sbagliarsi.
Le telecamere si allontanarono mostrando Town davanti a un edificio di mattoni in una strada americana. Sopra la porta c’era un’insegna: una squadra a triangolo e un compasso intorno alla lettera G.
«Posizione» disse una voce fuori campo.
«Vediamo se dentro stanno girando» ribatté la voce femminile fuori quadro.
La parola DIRETTA continuava a lampeggiare nell’angolo sinistro dello schermo. Adesso si vedeva una piccola sala male illuminata. In fondo c’era un tavolo con due uomini seduti. Uno dei due dava la schiena alla telecamera che all’improvviso fece una strana zoomata. Per un momento i due andarono fuori fuoco, poi vennero ripresi in un’inquadratura perfetta. L’uomo che guardava in macchina si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro come un orso in gabbia. Era Wednesday. In un certo senso sembrava che si stesse divertendo. Quando vennero inquadrati entrò, con un pop, anche il sonoro.
L’uomo che dava la schiena alla telecamera stava dicendo «… stiamo offrendo è la possibilità di mettere fine a questa storia seduta stante, senza ulteriore spargimento di sangue, senza altre violenze, altre sofferenze, altre vite sprecate. Non merita forse qualche concessione?»
Wednesday si fermò e si voltò. Aveva le narici dilatate dall’ira. «Prima di tutto» ruggì «voi dovete capire che mi state chiedendo di parlare a nome degli altri, il che è palesemente irragionevole. E poi cosa diavolo ti fa pensare che io creda alla tua parola?»
L’uomo che dava le spalle alla telecamera mosse la testa. «Fai un torto a te stesso» disse. «È ovvio che non avete capi. Però i tuoi ascoltano te. Ti danno retta. E in quanto al fatto che io mantenga o meno la mia parola, queste trattative preliminari sono filmate e trasmesse in diretta.» Indicò la telecamera. «Qualcuno dei tuoi in questo momento ci sta guardando. Altri vedranno le videocassette. La telecamera non mente.»
«Tutti e tutto mentono» rispose Wednesday.
Shadow riconobbe la voce dell’uomo che dava le spalle alla macchina. Era il signor World, quello che aveva parlato con Town al cellulare mentre Shadow era nella testa di Town.
«Tu non credi» disse World «che manterremo la nostra parola?»
«Io credo che le vostre promesse siano fatte per non essere mantenute e i vostri giuramenti per essere rinnegati. Invece io ho una parola sola.»
«Un salvacondotto è un salvacondotto» disse World, «e abbiamo concordato una tregua. A proposito, devo dirti che il tuo giovane protégé è di nuovo nelle nostre mani.»
Wednesday sbuffò. «No» disse. «Non è vero.»
«Stavamo parlando di come affrontare l’imminente cambio di paradigma. Non dobbiamo essere necessariamente nemici. Non credi?»
Wednesday sembrava turbato. Disse: «Farò qualsiasi cosa in mio potere per…».
Shadow notò qualcosa di strano nell’immagine di Wednesday. Un puntino rosso nell’occhio sinistro, quello di vetro. Muovendosi il puntino lasciava un’aura fosforescente. Lui non sembrava rendersene conto.»
«È un grande paese» disse Wednesday con l’aria di chi si sforzi di mettere ordine nei propri pensieri. Mosse la testa e il puntolino rosso del laser scivolò sulla guancia. Poi ritornò sull’occhio. «C’è spazio per…»
Si sentì un bang, attutito dagli altoparlanti del televisore, e la metà sinistra della testa di Wednesday esplose. Il suo corpo ricadde all’indietro con un tonfo.
World si alzò, sempre dando la schiena alla macchina, e uscì dall’inquadratura.
«Rivediamo la scena al rallentatore» disse in tono rassicurante la voce dell’annunciatrice.
La parola DIRETTA venne sostituita da REPLAY. Molto lentamente il pallino rosso centrò l’occhio di vetro e ancora una volta metà della faccia di Wednesday si dissolse in una nuvola di sangue. Ci fu un fermo immagine.
«Sì, è ancora la Terra di Dio» disse l’annunciatore, lo speaker del telegiornale incaricato di pronunciare la battuta finale, «ma la domanda è: di quale dio stiamo parlando?»
Un’altra voce — quella di World, secondo Shadow, perché ne riconosceva l’intonazione vagamente familiare che aveva già notato la prima volta — disse: «Adesso torniamo alla nostra programmazione regolare».
In Cheers Coach tranquillizzò la figlia dicendole che era davvero bellissima, proprio come sua madre.
Squillò il telefono e l’agente Liz si svegliò di soprassalto. Alzò il ricevitore. Disse: «Okay. Okay. Sì. Okay». Riagganciò. Si alzò. «Devo metterti dentro» disse a Shadow. «Non usare il gabinetto. Ti stanno venendo a prendere dal dipartimeno dello sceriffo di Lafayette.»
Gli tolse le manette e i ceppi alle caviglie e lo rinchiuse nella cella. La puzza era ancora più forte con la porta chiusa.
Shadow sedette sulla branda di cemento, sfilò il dollaro d’argento della Libertà dal calzino e cominciò a farlo scivolare da un dito all’altro, da una mano all’altra, concentrato soltanto nel non farlo vedere a nessun eventuale curioso. Era un modo per passare il tempo, per stordirsi.
Sentiva la mancanza di Wednesday. Una nostalgia improvvisa e profonda. Gli mancavano la sua sicurezza, il suo modo di fare. Le sue convinzioni.
Aprì la mano, guardò la Signora Libertà, il profilo argenteo. Chiuse le dita intorno alla moneta e strinse forte. Si chiese se sarebbe diventato uno di quelli che finiscono condannati a morte per un reato che non hanno commesso. Sempre che fosse arrivato al processo. Da quanto sembrava, World e Town ci avrebbero impiegato un attimo a farlo fuori. Magari sarebbe finito vittima di un disgraziato incidente, mentre lo portavano a destinazione. Potevano sparargli perché aveva cercato di fuggire. Non era improbabile.
Nella stanza dall’altra parte del vetro c’era un certo movimento. Entrò l’agente Liz, premette un pulsante e una porta che Shadow non poteva vedere si aprì: un uomo di pelle scura con l’uniforme marrone dello sceriffo entrò e si avvicinò svelto al banco.
Shadow infilò il dollaro d’argento nel calzino.
Il nuovo arrivato diede alcuni documenti a Liz che li lesse in fretta e firmò. Arrivò Chad Mulligan, scambiò qualche parola con l’uomo, aprì la porta della cella e si rivolse a Shadow:
«Ecco. Sono venuti a prenderti. A quanto pare sei una questione di sicurezza nazionale. Lo sapevi?»
«Una bella storia per la prima pagina del "Lakeside News".»
Chad lo guardò inespressivo. «Cosa, che un balordo è stato arrestato per aver violato i termini di libertà vigilata? Non è granché, come storia.»
«È di questo che si tratta?»
«Così dicono a me» rispose Chad Mulligan. Shadow incrociò le mani davanti, questa volta, e Chad lo ammanettò. Poi gli mise i ceppi e fissò la catena tra questi e le manette.
Mi porteranno fuori, pensò Shadow. Forse potrei tentare la fuga, con i ceppi, le manette e tutto vestito di arancione sulla neve, ma l’idea gli sembrò stupida e disperata già mentre la formulava.
Chad lo riportò nell’ufficio. Liz aveva spento il televisore. L’uomo di colore lo guardò dall’alto in basso. «È un omone grande e grosso» disse rivolto a Chad. Liz gli consegnò il sacchetto di carta che conteneva tutti gli effetti personali di Shadow e l’uomo firmò.
Chad guardò prima Shadow, poi l’altro e a voce bassa, ma non abbastanza perché Shadow non sentisse, disse: «Senta, questo modo di procedere non mi piace».