American Gods - Neil Gaiman 6 стр.


Un uomo vestito di scuro — un dipendente delle pompe funebri, secondo Shadow — disse: «Vuole firmare il libro delle condoglianze e dei ricordi?», e gli indicò un volume rilegato in pelle aperto su un piccolo leggio.

Scrisse SHADOW e la data con la sua calligrafia precisa, poi, lentamente, aggiunse (CUCCIOLO) rinunciando ad arrivare in fondo alla sala dove c’era la gente e la bara e quella cosa dentro la bara color crema che non era più Laura.

Una donna minuscola entrò e si fermò esitante sulla porta. Aveva i capelli color rame, era tutta vestita di nero, abiti molto costosi. La vedova in gramaglie, pensò Shadow, che la conosceva bene. Era Audrey Burton, la moglie di Robbie.

Stringeva tra le mani un mazzo di violette avvolto nella carta di alluminio. Il tipo di mazzolino che una bambina potrebbe cogliere in giugno, pensò lui. Però adesso le violette erano fuori stagione.

Quando attraversò la sala per avvicinarsi alla bara Shadow la seguì.

Laura giaceva con gli occhi chiusi e le braccia incrociate sul petto. Indossava un elegante tailleur blu che lui non le aveva mai visto. I lunghi capelli castani erano pettinati ordinatamente, lontani dagli occhi. Era la sua Laura e al tempo stesso non lo era: la cosa più innaturale, pensò, era quel modo di riposare in pace, perché Laura dormiva sempre sonni agitati.

Audrey le posò le violette sul petto. Poi contrasse le labbra e le sputò con determinazione sulla faccia.

Lo sputo cadde sulla guancia e cominciò a scivolare verso l’orecchio.

Audrey si stava già avviando alla porta. Shadow la rincorse.

«Audrey?»

«Shadow? Sei scappato? O ti hanno fatto uscire?»

Lui si domandò se Audrey fosse sotto l’effetto dei tranquillanti. Parlava in tono distante, distaccato.

«Mi hanno rilasciato ieri. Sono un uomo libero. Che cosa diavolo significa, quella scena?»

In corridoio lei si fermò. «Le violette? Sono sempre state il suo fiore preferito. Una volta le raccoglievamo insieme.»

«No, non le violette.»

«Ah, quello.» disse. Si ripulì un’invisibile macchietta all’angolo della bocca. «Be’, credevo che fosse ovvio.»

«Non per me, Audrey.»

«Non te l’hanno detto?» La sua voce era fredda e calma. «Tua moglie è morta con l’uccello di mio marito in bocca.»

Shadow tornò nella sala. Qualcuno aveva già ripulito lo sputo.

Dopo pranzo — mangiò da Burger King — ci fu il funerale. La bara color crema venne interrata nel piccolo cimitero non confessionale e senza recinzione al confine della città: un prato collinare coperto di lastre tombali di granito nero e marmo bianco.

Arrivò al cimitero a bordo del carro funebre insieme alla madre di Laura. La signora McCabe sembrava credere che la morte della figlia fosse colpa di Shadow. «Se fossi stato a casa» disse, «non sarebbe successo. Non so perché ti abbia sposato. Io gliel’avevo detto. Gliel’avevo ripetuto all’infinito. Ma non si dà mai retta alla mamma, vero?» Si interruppe per guardare più da vicino la faccia del genero. «Hai fatto a botte?»

«Sì.»

«Barbaro» disse lei, poi irrigidì le labbra, alzò la testa fino a far tremare il mento e fissò dritto davanti a sé.

Shadow si stupì di vedere anche Audrey Burton al cimitero, un po’ in disparte. La breve funzione terminò e la bara venne fatta calare nella terra fredda. Tutti se ne andarono via.

Shadow si fermò lì. Rimase in piedi con le mani in tasca, a rabbrividire, a fissare la fossa.

Sopra di lui il cielo era color grigio ferro, una superficie monotona e piatta come uno specchio. Continuava a nevicare, in modo irregolare, in fiocchi spettrali.

C’era qualcosa che voleva dirle, e avrebbe aspettato il tempo necessario a capire cosa fosse. Il mondo cominciava piano piano a perdere luminosità e colore. Gli sembrava di non avere più sensibilità nei piedi, le mani e la faccia gli dolevano per il freddo. Affondò le mani nelle tasche per riscaldarle e strinse le dita intorno alla moneta d’oro.

Si avvicinò alla tomba.

«Tieni, è per te» disse.

Sul coperchio della bara era stata rovesciata qualche palata di terra, ma la fossa era tutt’altro che piena. Dopo aver gettato la moneta nella tomba buttò dentro un altro po’ di terra, per nascondere il luccichio dell’oro agli occhi di eventuali becchini ladri. Si ripulì le mani e disse: «Buona notte, Laura». Poi aggiunse: «Mi dispiace». Guardò le luci della città e si incamminò verso Eagle Point.

Il motel si trovava ad almeno tre chilometri di strada, ma dopo tre anni in prigione Shadow era attratto dall’idea di poter camminare liberamente, anche per sempre, se avesse voluto. Avrebbe potuto continuare a camminare verso nord, fino in Alaska, oppure dirigersi a sud, fino al Messico o ancora più in là. Volendo sarebbe potuto arrivare in Patagonia o nella Terra del Fuoco.

Si avvicinò una macchina. Il finestrino si abbassò.

«Vuoi un passaggio?» chiese Audrey Burton.

«No. E non da te.»

Proseguì. Audrey gli si affiancò, procedendo a sei chilometri all’ora. I fiocchi di neve cadevano danzando tra i raggi di luce dei fanali.

«Credevo che fosse la mia migliore amica» disse Audrey. «Ci sentivamo tutti i giorni. Quando io e Robbie litigavamo lei era la prima a saperlo… andavamo da Chi-Chi a bere un margarita e a raccontarci quanto sono canaglie gli uomini. E intanto alle mie spalle se lo scopava.»

«Vai via, per favore.»

«Volevo solo spiegarti che avevo le mie buone ragioni per fare quello che ho fatto.»

Shadow non rispose.

«Ehi!» gridò Audrey. «Ehi! Sto parlando con te!»

Lui si voltò. «Vuoi che ti dica che hai fatto bene a sputarle in faccia? Vuoi che ti dica che non mi ha ferito? Oppure dovrei dirti che le tue parole mi fanno provare più odio che nostalgia per mia moglie? Non te lo dirò mai, Audrey.»

Lei continuò a procedere a passo d’uomo per un minuto, senza parlare, poi disse: «Allora, com’era la prigione?».

«Non male. Ti ci saresti sentita a casa.»

A quel punto Audrey schiacciò il pedale dell’acceleratore e con un rombo del motore si allontanò.

Una volta spariti i fari dell’automobile il mondo diventò buio, mentre il crepuscolo cedeva alla tenebra. Shadow continuava a sperare di riscaldarsi, camminando, di sentir arrivare il calore fino alle mani e ai piedi gelati, ma era sempre più intirizzito.

Ancora in prigione, Low Key Lyesmith un giorno si era riferito al piccolo cimitero carcerario dietro l’infermeria come all’Orto delle Ossa, e l’immagine aveva messo radici dentro Shadow. Quella notte aveva sognato un orto sotto la luna, scheletrici alberi bianchi, con i rami che terminavano in mani scarnificate, le radici affondate nelle tombe. Crescevano frutti su quegli alberi nell’Orto delle Ossa, nel sogno, e c’era qualcosa che lo inquietava in quei frutti onirici, ma al risveglio non era riuscito a ricordare di che cosa si trattasse esattamente, né del perché li avesse trovati tanto repellenti.

Le automobili gli passavano accanto. Avrebbe preferito camminare su un marciapiede. Inciampò in qualcosa che non aveva visto a causa dell’oscurità e finì nel fossato, la mano destra che affondava nel fango freddo per parecchi centimetri. Si rialzò e si ripulì le mani sui pantaloni. Rimase lì in piedi, a disagio. Fece appena in tempo a rendersi conto di non essere solo e di una cosa bagnata che gli veniva premuta contro naso e bocca; sentì un odore acre, chimico.

Questa volta il fossato gli sembrò tiepido, e comodo.

L’impressione era che le tempie gli fossero state riattaccate al cranio con dei grossi chiodi. Aveva le mani legate dietro la schiena con un laccio ed era seduto sul sedile rivestito di pelle di un’automobile. Per un istante si chiese se non ci fosse qualcosa che non andava nella sua percezione della distanza e poi capì che no, l’altro sedile era davvero molto lontano.

C’era qualcuno dietro di lui, ma non era in grado di girarsi a guardare.

Il giovanotto grasso all’altra estremità della lunga limousine prese dal bar una lattina di Diet Coke e l’aprì. Indossava una lunga giacca nera di un materiale setoso e non dimostrava nemmeno vent’anni: su una guancia c’era addirittura un accenno d’acne. Sorrise, vedendo che Shadow si era svegliato.

«Ciao, Shadow» disse. «Non fare il furbo con me.»

«Va bene. D’accordo. Mi puoi lasciare al Motel America sull’Interstate?»

«Colpiscilo» disse il giovanotto alla persona seduta a sinistra di Shadow. Shadow ricevette un pugno nel plesso solare che gli tolse il respiro e lo fece piegare in due. Si raddrizzò lentamente.

«Ti ho detto di non fare il furbo. Quello era fare il furbo. Rispondi con poche parole e a tono, altrimenti ti ammazzo. O magari no. Magari dico ai ragazzi di spaccarti le ossa a una a una. Ne hai duecentosei. Quindi non fare il furbo.»

«Ricevuto» disse Shadow.

Le luci dentro la limousine cambiarono dal viola all’azzurro e poi dal verde al giallo.

«Tu lavori per Wednesday» disse il giovanotto.

«Sì.»

«Che cosa cazzo vuole? Cioè, che cosa ci fa qui? Deve avere uno schema. Qual è lo schema del gioco?»

«Ho cominciato a lavorare per il signor Wednesday stamattina» rispose Shadow. «Sono il suo uomo di fatica.»

«Stai dicendo che non sai niente?»

«Esatto.»

Il ragazzo aprì la giacca e dalla tasca interna prese un portasigarette d’argento. Lo aprì e offrì a Shadow una sigaretta. «Fumi?»

Shadow pensò di chiedergli di liberargli le mani, poi decise di non farlo. «No, grazie.»

Era una sigaretta fatta a mano, e quando il ragazzo l’accese con uno Zippo nero satinato, l’odore che sprigionò assomigliava a quello di fili elettrici bruciati.

Il giovanotto inspirò profondamente e trattenne il fumo nei polmoni. Lo lasciò uscire dalla bocca e lo inspirò di nuovo dal naso. Shadow sospettava che prima di eseguire quel numero in pubblico si fosse esercitato parecchio davanti allo specchio. «Se mi hai mentito» disse come da molto lontano «ti ammazzo, cazzo. Lo sai.»

«Sì, me l’hai detto.»

Il ragazzo fece un altro lungo tiro dalla sigaretta. «Dici che stai al Motel America?» Picchiò sul vetro che separava l’abitacolo dall’autista. Il vetro si abbassò. «Ehi. Al Motel America, su all’Interstate. Dobbiamo accompagnare il nostro ospite.»

L’autista annuì e il vetro venne rialzato.

Le luci a fibre ottiche dentro la limousine cambiavano colore ciclicamente passando per tutte le gamme più tenui della tavolozza. A Shadow sembrava che scintillassero anche gli occhi del giovane, verdi come i monitor dei vecchi computer.

«Di’ a Wednesday questo, amico. Digli che è un dinosauro. Vecchio. Superato. Dimenticato. Digli che il futuro siamo noi e che non ce ne frega niente né di lui né dei suoi simili. È stato consegnato alla discarica della storia mentre quelli come me viaggiano a bordo di limousine lungo le superautostrade del futuro.»

«Riferirò» disse Shadow. Cominciava a girargli la testa. Si augurava di non vomitare.

«Digli che abbiamo riprogrammato la realtà. Digli che il linguaggio è un virus, la religione un sistema operativo e le preghiere sono junk mail. Diglielo altrimenti ti ammazzo» disse dolcemente dalla sua nuvola di fumo.

«Ricevuto» rispose Shadow. «Puoi farmi scendere qui. Cammino volentieri.»

Il giovane annuì. «Parlare con te è stato un piacere» disse. Il fumo lo aveva addolcito. «Voglio che tu sappia che se ti ammazziamo ti cancelliamo. Hai capito? Un clic e al tuo posto si possono scrivere a caso degli uno e degli zero. Il ripristino del testo non è possibile.» Picchiò sul vetro: «Scende qua». Poi si rivolse a Shadow e indicò la sigaretta che stava fumando. «Pelle di rospo sintetica. Lo sapevi che adesso si può sintetizzare la bufotenina?»

L’automobile si fermò e qualcuno aprì la portiera. Shadow scese goffamente. Gli vennero tagliati i lacci intorno ai polsi. Quando si voltò vide che l’abitacolo della limousine era diventato una nuvola vorticante di fumo in cui brillavano due luci color rame, come i begli occhi di un rospo. «Il problema è il paradigma dominante, Shadow. Nient’altro conta. E, a proposito, ho sentito della tua signora, mi dispiace.»

La portiera si richiuse e la lunga limousine si allontanò silenziosa. Shadow si trovava più o meno a duecento metri dal motel e si avviò, respirando l’aria fredda, passando davanti alle insegne al neon gialle e blu che reclamizzavano ogni tipo di fast food possibile e immaginabile, purché in forma di hamburger, e raggiunse il motel senza ulteriori incidenti.

3

Ogni ora fa male. L’ultima uccide.

Vecchio adagio

Dietro il banco del Motel America c’era una ragazza dai lineamenti delicati. Gli comunicò che alla registrazione aveva già provveduto il suo amico e gli diede la chiave della stanza, un rettangolo di plastica. Aveva i capelli biondo chiaro e un tratto da roditore che si accentuava quando assumeva un’aria sospettosa, e scompariva quando sorrideva. Si rifiutò di dirgli il numero della camera di Wednesday e insistette per avvisarlo al telefono del suo arrivo.

Wednesday spuntò da una stanza in fondo al corridoio e gli fece un cenno di saluto.

«Com’era, il funerale?» chiese.

«E finito.»

«Vuoi parlarne?»

«No.»

«Bene.» Wednesday sorrise. «Si parla troppo, oggigiorno. Parole parole parole. Questo paese andrebbe molto meglio se la gente imparasse a soffrire in silenzio.»

Wednesday fece strada fino alla sua stanza, dall’altra parte dell’atrio rispetto a quella di Shadow. C’erano cartine geografiche dappertutto, aperte sul letto, appese alle pareti, ed erano tutte coperte di segni fatti con pennarelli dai colori vivaci, verde fosforescente, rosa accecante e arancione acceso.

«Sono stato sequestrato da un ragazzo ciccione» disse Shadow. «Vuole che ti dica che sei stato consegnato alla pattumiera della storia mentre quelli come lui viaggiano in limousine lungo le superautostrade della vita. Qualcosa del genere.»

«Moccioso.»

«Lo conosci?»

Wednesday scrollò le spalle. «So chi è.» Si lasciò cadere pesantemente sull’unica sedia della stanza. «Non hanno la minima idea» disse. «Non ce l’hanno, cazzo. Quanto devi trattenerti in città?»

«Non so. Una settimana, forse. Devo occuparmi di un sacco di cose. Pensare alla casa, liberarmi dei suoi vestiti, quelle cose lì. Sua madre diventerà pazza ma se lo merita.»

Wednesday annuì con il suo testone enorme. «Be’, prima finisci prima ce ne andiamo. Buona notte.»

Shadow attraversò il corridoio. La sua stanza era identica a quella di Wednesday, compresa la stampa di un tramonto rosso sangue appesa sopra il letto. Ordinò una pizza con formaggio e polpette, poi aprì l’acqua nella vasca versando dalle bottigliette di plastica tutto lo shampoo e il sapone liquido per fare più schiuma possibile.

Era troppo grande per potersi sdraiare nella vasca, ma cercò ugualmente di godersela anche da seduto. Aveva promesso a se stesso un bagno, appena fuori di prigione, e Shadow era uno che manteneva le promesse.

Non appena fu uscito dalla vasca arrivò la pizza, che mangiò bevendoci sopra una bibita frizzante.

Sdraiato a letto, pensò: Questa è la mia prima giornata da uomo libero, e il pensiero gli procurò meno piacere di quanto avesse immaginato. Lasciò le tende scostate per vedere le luci delle automobili che passavano e le insegne dei fast food di là della finestra, trovando conforto nel sapere che fuori c’era il mondo, un mondo che, volendo, avrebbe potuto raggiungere in ogni momento.

Avrebbe potuto essere nel letto di casa sua, pensò, nell’appartamento in cui aveva abitato con Laura, in quel letto che avevano condiviso. Ma il pensiero di esserci senza di lei, circondato dalle sue cose, dal suo profumo, dalla sua vita, era davvero troppo doloroso…

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