A Okzat-Ozkat, i menu dei piccoli ristoranti per i lavoratori erano un bell’esempio della sopravvivenza oscura ma fiorente di consuetudini illecite. Il menu era scritto in alfabeto moderno su un tabellone accanto alla porta. Oltre all’akakafi, comprendeva i generi alimentari prodotti dall’Azienda e pubblicizzati, distribuiti e venduti in tutto il pianeta dal Ministero della Sanità e della Nutrizione: prodotti delle grandi agrifabbriche, ad alto tenore proteico, integrati con vitamine, confezionati, che andavano solo riscaldati. I ristoranti avevano disponibili alcune di quelle vivande, liofilizzate, in scatola, o surgelate, e certe persone le ordinavano. La maggior parte di coloro che andavano in quei piccoli ristoranti, però, non ordinava nulla. Si sedevano, salutavano il cameriere, e aspettavano che fossero serviti i cibi freschi e le bevande adatti a quel giorno, all’ora del giorno, alla stagione e al tempo, secondo una teoria e una pratica alimentare antichissime, il cui scopo era di far vivere a lungo e bene con una buona digestione. O con un cuore sereno. Le due espressioni si equivalevano in rangma, la lingua locale.
In una delle lunghe sedute serali di registrazione, nel pieno dell’autunno, accovacciata sul tappeto rosso nella stanza silenziosa, Sutty definì nel proprio noter il sistema akano come una religione-filosofia analoga al buddismo o al taoismo, che aveva studiato sulla Terra: quella che gli hainiani, con la loro predilezione per liste e categorie, chiamavano "una religione di processo". «Non esistono parole akane per indicare dio, dei, il divino» disse Sutty al noter. «I burocrati dell’Azienda hanno inventato una parola che significa dio e hanno instaurato un teismo di stato quando hanno scoperto che un concetto di divinità era importante nei mondi presi come modelli. Hanno capito che la religione è uno strumento utile per chi è al potere. Ma qui non esisteva nessun teismo o deismo indigeno. Su Aka, "dio" è una parola senza referente. Niente lettere maiuscole. Nessun creatore, solo il creato. Nessun padre eterno che premi e punisca, che giustifichi l’ingiustizia, stabilisca la crudeltà, offra la salvezza. L’eternità non è un punto estremo, bensì una continuità. La divisione primaria dell’essere in materiale e spirituale solo come "due in uno", o uno in due aspetti. Nessuna gerarchia di Natura e Soprannaturale. Nessun elemento binario tipo Tenebre/Luce, Male/Bene, Corpo/Anima. Nessuna vita ultraterrena, nessuna rinascita, nessuna anima immortale disincarnata o reincarnata. Nessun paradiso, nessun inferno. Il sistema akano è una disciplina spirituale con fini spirituali, i quali però sono gli stessi che persegue mirando al benessere fisico ed etico. L’azione giusta è fine a se stessa. Dharma senza karma.»
Era arrivata a una definizione della religione akana. Per un minuto, si sentì completamente soddisfatta della definizione e di sé.
Poi si accorse che stava pensando a una serie di miti che Ottiar Uming aveva raccontato. La figura centrale, Ezid, uno strano personaggio romantico che a volte appariva come un giovane bello e gentile, a volte come una giovane bella e impavida, era chiamato "l’Immortale". Sutty aggiunse un appunto: «E "Ezid l’Immortale", allora? Questo significa che credono in una vita ultraterrena? Ezid è una persona, due persone, o molte? "Immortale / che vive per sempre" sembra significare: intenso, ripetuto molte volte, famoso… forse ha anche un significato particolare e indica: in perfetta salute fisico-spirituale, che vive saggiamente. Verificare questo punto».
Più volte nei suoi appunti, dopo ogni conclusione, c’era quel: "Verificare questo punto". Le conclusioni portavano a nuovi inizi. I termini cambiavano, venivano corretti, corretti di nuovo. Poco tempo dopo, Sutty non era per nulla contenta della propria definizione del sistema come religione; non sembrava una definizione errata, ma non era del tutto adeguata. Il termine "filosofia" era ancor meno appropriato. Riprese a chiamarlo "il sistema", "il Grande Sistema". Poi lo chiamò "la Foresta", perché scoprì che nell’antichità era chiamato "la via attraverso la foresta". Lo chiamò "la Montagna" quando scoprì che alcuni dei suoi insegnanti definivano quello che le insegnavano "la via verso la montagna". Alla fine, lo chiamò "la Narrazione". Questo, però, dopo avere conosciuto maz Elyed.
Fece lunghe discussioni con il proprio noter per stabilire se nel dovzano, o nel lessico antico e in parte non dovzano usato dalla gente istruita, ci fosse qualche parola che potesse significare "sacro" o "santo". C’erano parole che lei traduceva come "potere", "mistero", "non controllato dalla gente", "parte dell’armonia". Quei termini non erano mai riservati a un luogo o a un tipo d’azione particolari. Sembrava, anzi, che nel vecchio modo di pensare akano qualsiasi luogo, qualsiasi atto, se percepito in modo corretto, fosse in effetti misterioso e potente, potenzialmente sacro. E la percezione sembrava comportare la descrizione: parlare del luogo, o dell’atto, o dell’evento, o della persona. Parlarne, farne una storia.
Quelle storie, tuttavia, non erano vangelo. Non erano la Verità. Erano tentativi di verità. Barlumi, scorci di sacralità. Non si era tenuti a credere, solo ad ascoltare.
«Be’, è così che ho imparato la storia» diceva la gente, dopo avere raccontato una parabola o un episodio storico o un’antica leggenda familiare. «Be’, ecco cosa dice questa storia.»
I personaggi santi delle storie raggiungevano la santità, ammesso che lo fosse, in mille modi diversi, nessuno dei quali pareva particolarmente santo a Sutty. Non c’erano regole, come povertà o castità o obbedienza, oppure il baratto dei propri beni terreni con una ciotola da mendicante, o l’isolamento in cima a una montagna. Alcuni eroi e maz famosi protagonisti delle storie erano ricchi sfondati; a quanto sembrava, la loro virtù era stata la generosità: costruire umyazu splendidi e imponenti in cui collocare i loro tesori, o andare in processione con centinaia di compagni, tutti in sella a eberdin con finimenti d’argento. Alcuni eroi erano guerrieri, alcuni capi potenti, altri calzolai, altri ancora bottegai. Certi personaggi santi delle storie erano amanti appassionati, e la storia riguardava la loro passione. Molti erano coppie. Non c’erano regole. C’era sempre un’alternativa. I narratori, quando commentavano le leggende e le storie raccontate, potevano far notare che quello era stato "un" buon modo o "un" modo giusto di fare qualcosa, ma non dicevano mai che era "il" modo giusto. E "buono" era sempre un aggettivo: buon cibo, buona salute, buon sesso, buon clima. Niente lettere maiuscole. Mai buono nel senso di bontà, di bene. Il Bene o il Male come entità, forze contrastanti, mai.
Quel sistema non era affatto una religione, disse Sutty al noter, con entusiasmo crescente. Certo, aveva una dimensione spirituale. Infatti, era la dimensione spirituale della vita per coloro che lo seguivano. Ma la religione come istituzione che imponesse un credo e affermasse una propria autorità, la religione come comunità formata da una conoscenza di divinità estranee o istituzioni in competizione, non era mai esistita su Aka.
Fino all’epoca attuale, forse.
Le terre abitabili di Aka erano un unico enorme continente con un lunghissimo arcipelago al largo della costa orientale. Dovza era l’estrema regione sudoccidentale del grande continente. Non essendo divisi da oceani, gli akani fisicamente appartenevano a un unico tipo, con lievi variazioni locali. Tutti gli Osservatori avevano rilevato tale caratteristica, tutti avevano fatto notare l’omogeneità etnica, la mancanza di diversità sociale e culturale, ma nessuno di loro si era reso conto appieno che tra gli akani non c’erano stranieri. Non c’era mai stato nessuno straniero, finché non erano arrivate le navi dell’Ekumene.
Era un fatto semplice, ma difficilissimo da comprendere per la mente terrestre. Niente stranieri. Niente "altri", nel senso letale di alterità esistente sulla Terra, l’implacabile divisione fra tribù, i confini arbitrari e invalicabili, gli odi etnici nutriti per secoli e millenni. Lì, "gente" non significava "la mia gente", ma "la gente"… tutti, l’umanità. "Selvaggio" non indicava un forestiero incomprensibile, ma una persona incolta. Su Aka, tutta la competizione era famigliare. Tutte le guerre erano guerre civili.
Uno dei grandi poemi epici che stava registrando un po’ alla volta riguardava una lunga e sanguinosa contesa per una valle fertile, iniziata come litigio tra un fratello e una sorella per un’eredità. Le lotte tra regioni e città-stato per il dominio economico si erano susseguite in tutta la storia akana, sfociando spesso in conflitto armato. Ma in quelle guerre e in quegli scontri combattevano soldati di professione, su campi di battaglia. Era molto raro, e condannato nelle storie e negli annali come sbagliato, vergognoso e punibile, che i soldati distruggessero città o campagne, o che facessero del male ai civili. Gli akani si scontravano per avidità e sete di potere, non per odio o in nome di un credo. Combattevano secondo regole precise. Avevano le stesse regole. Erano un unico popolo. Il loro modo di pensare e di vivere era universale. Avevano cantato tutti una sola canzone, anche se a molte voci.
Gran parte di quello spirito unitario comune, a giudizio di Sutty, era dipeso dalla scrittura. Prima della rivoluzione culturale dovzana esistevano parecchie lingue principali e innumerevoli dialetti, ma usavano tutti gli stessi ideogrammi, che ognuno era in grado di comprendere. Per quanto sotto certi aspetti fossero scomode e arcaiche, le scritture non alfabetiche potevano unire e conservare — come avevano fatto sulla Terra gli ideogrammi cinesi — un gran numero di lingue e dialetti diversi; e grazie alle scritture non alfabetiche, testi scritti migliaia di anni addietro erano leggibili senza traduzione, anche se i suoni delle parole erano cambiati fino a diventare irriconoscibili. Sì, per i riformatori dovzani, forse quello era stato proprio il motivo principale che li aveva convinti a sbarazzarsi della vecchia scrittura: oltre a intralciare il progresso, era pure una forza conservatrice attiva. Manteneva in vita il passato.
A Dovza City, Sutty non aveva conosciuto nessuno in grado di leggere la vecchia scrittura, o che ammettesse di saperlo fare. Le sue poche domande iniziali a quel riguardo avevano suscitato una tale disapprovazione, dinieghi così recisi, che aveva imparato subito a tacere, a non dire a nessuno che lei sapeva leggere i vecchi caratteri. E i funzionari con cui aveva a che fare non le avevano mai chiesto nulla. La vecchia scrittura non veniva più usata da decenni; probabilmente non si erano mai resi conto che, a causa dei fenomeni temporali relativi ai viaggi spaziali, era proprio quella la scrittura che Sutty aveva imparato.
Non era stata del tutto sciocca a chiedersi, là a Dovza City, se poteva essere davvero l’unica persona del pianeta capace di leggerla adesso, e non era stata del tutto sciocca a provare sgomento a quell’idea. Se portava l’intera storia di un popolo, non il suo popolo, nella testa, bastava dimenticare una parola, un carattere, un segno diacritico, e una parte di tutte quelle vite, di tutti quei secoli di pensiero e sentimento, sarebbe andata perduta per sempre…
Era stato un enorme sollievo trovare, lì a Okzat-Ozkat, molte persone, vecchi e giovani, perfino bambini, che portavano e si ripartivano quel carico prezioso. I più sapevano leggere e scrivere alcune decine di caratteri, o alcune centinaia, e molti studiavano per completare l’apprendimento. Nelle scuole dell’Azienda, i bambini imparavano l’alfabeto di derivazione hainiana e venivano educati come produttori-consumatori; a casa o in lezioni illegali in stanzette dietro un negozio, un laboratorio, o un magazzino, imparavano gli ideogrammi. Si esercitavano scrivendo i caratteri su piccole lavagne che si potevano cancellare in un attimo. I loro insegnanti erano lavoratori, padroni di casa, negozianti, gente comune della cittadina.
Quegli insegnanti della vecchia lingua e delle vecchie usanze, i "colti", erano chiamati maz. Yoz era un termine che indicava rispettosa uguaglianza; maz, come appellativo, indicava maggiore rispetto. Come titolo o nome significava — capì a poco a poco Sutty — una funzione o una professione che non era definibile come prete, insegnante, dottore o studioso, ma conteneva aspetti di ognuna di esse.
Tutti i maz che Sutty conobbe — e col passare delle settimane conobbe la maggior parte dei maz di Okzat-Ozkat — vivevano in condizioni di povertà più o meno agiata. Di solito avevano un mestiere per arrotondare quello che percepivano come maz per insegnare, dispensare medicamenti e consigli sull’alimentazione e la salute, celebrare cerimonie quali matrimoni e funerali, e leggere e parlare nelle riunioni serali, le narrazioni. I maz erano poveri non perché le vecchie consuetudini stessero morendo o fossero care solo agli anziani, ma perché la gente che pagava i maz era povera. Quella era una cittadina marginale, che arrancava fra tante asperità, senza ricchezza. Gli abitanti, però, sostenevano i maz, pagavano i loro insegnamenti "a parola", per usare l’espressione locale. La sera, andavano a casa di un maz ad ascoltare le storie e le discussioni, e pagavano regolari parcelle in monete di rame o banconote di piccolo taglio. Non c’era nulla di vergognoso in quella transazione, né da parte di chi pagava né da parte di chi percepiva; non c’era l’ipocrisia di una "donazione": si pagavano in contanti le prestazioni di un professionista.
Molti bambini partecipavano a quelle riunioni serali, e ascoltavano, più o meno, le narrazioni, o si addormentavano tranquilli. I bambini assistevano gratis fino ai quindici anni, età in cui cominciavano a pagare le stesse parcelle degli adulti. Gli adolescenti prediligevano le sedute di certi maz specializzati nella recita o nella lettura di poemi epici e racconti avventurosi, come La guerra della valle e le storie di Ezid la Meraviglia. I corsi di esercizio fisico di tipo più vigoroso e marziale erano frequentatissimi da giovani di ambo i sessi.
I maz, comunque, erano per la maggior parte di mezza età o vecchi, non perché stessero estinguendosi come gruppo, ma perché, come dicevano, ci voleva una vita per imparare a camminare nella foresta.
Sutty voleva scoprire perché diventare colti fosse un lavoro interminabile, ma anche scoprirlo sembrava un’impresa interminabile. Cosa credeva quella gente? Cosa considerava sacro? Sutty continuò a cercare il nocciolo della questione, le parole al centro della Narrazione, i libri sacri da studiare e memorizzare. Li trovò. Ne trovò molti, non uno fondamentale. Nessuna bibbia. Nessun corano. Dozzine di upanishad, un milione di surra. Ogni maz le diede qualcosa di diverso da leggere. Aveva già letto o sentito innumerevoli testi: scritti, orali, scritti e orali; molti, se non la maggior parte, esistevano in più di una versione. Gli argomenti delle narrazioni sembravano infiniti, anche adesso che tanto materiale era stato distrutto.
All’inizio dell’inverno, Sutty pensò di avere trovato i testi principali del sistema in una raccolta di poesie e trattati chiamata Il pergolato. Tutti i maz ne parlavano con grande rispetto, ne citavano brani. Sutty lo studiò per settimane. A quanto era in grado di stabilire, era stato scritto in prevalenza dai millecinquecento ai mille anni addietro nella regione centrale del continente, durante un periodo di prosperità materiale e di fermento artistico e intellettuale. Era un vasto compendio di raffinati ragionamenti filosofici su essere e divenire, forma e caos, meditazioni mistiche sulla Creazione e il Creato, e splendide e complesse poesie metafisiche riguardanti l’Uno che è Due, i Due che sono Uno, il tutto collegato, illuminato, e complicato dai commentari e dalle annotazioni in margine dei secoli successivi. La nipote di zio Hurree, la studiosa pedante, si lanciò con entusiasmo in quella giungla di significati, disposta a smarrirsi per anni nell’intrico. Fu riportata alla realtà solo dalla propria coscienza, che le stette dietro portando il greve fardello del buonsenso, rimproverandola: "Ma questo non è la Narrazione, è solo una parte della Narrazione, solo una piccola parte…".