La salvezza di Aka - Le guin Ursula Kroeber 3 стр.


«Sì. Sì, giustissimo. Non possiamo introdurre nessuna delle cose che non vogliono più nel loro mondo.»

«Mi è dispiaciuto moltissimo farlo. Mi è sembrato di agire in collusione con loro.»

«Il margine tra collusione e rispetto può essere esiguo» disse Tong. «Per nostra sfortuna, noi occupiamo proprio quel margine, qui.»

Per un attimo, Sutty percepì nel chiffewariano una cupa gravità. Tong Ov si era estraniato, aveva lo sguardo perduto lontano, molto lontano. Poi tornò da lei, gioviale e sereno.

«D’altra parte» disse, «ci sono parecchi frammenti di vecchia scrittura dipinti qui e là nella città, no? Senza dubbio è considerata innocua, dato che adesso nessuno è in grado di leggerla… E le cose tendono a sopravvivere nei posti fuori mano. Una sera mi trovavo nel quartiere fluviale… una zona malfamata… non avrei dovuto esserci, ma di tanto in tanto in una città di queste dimensioni si può andare a zonzo senza che i padroni di casa lo sappiano. Almeno, io faccio finta che non lo sappiano. Comunque, ho sentito della musica insolita. Strumenti di legno. Intervalli illegali.»

Sutty assunse un’espressione interrogativa.

«Lo Stato Azienda obbliga i compositori a usare quella che io conosco come l’ottava terrestre.»

Sutty assunse un’espressione stupida.

Tong le cantò un’ottava.

Sutty cercò di assumere un’aria intelligente.

«La chiamano la Scala Scientifica degli Intervalli, qui» spiegò Tong. Vedendo che lei pareva ancora piuttosto perplessa, le chiese sorridendo: «La musica akana ti sembra più familiare di quanto non ti aspettassi?».

«Non ci avevo pensato… non so. Non ho orecchio per la musica. Non so cosa siano le tonalità.»

Il sorriso di Tong si allargò. «Stando alla musica akana che ho avuto modo di ascoltare, nemmeno loro sanno cosa siano le tonalità. Be’, quello che ho sentito nel distretto fluviale era completamente diverso dalla musica diffusa in giro dagli altoparlanti. Intervalli differenti. Armonie molto strane. "Musica curativa"… così la chiamava la gente del posto. Ho dedotto che la musica curativa è suonata da guaritori, stregoni. E in qualche modo, alla fine sono riuscito a fare una chiacchierata con uno di quei guaritori. Mi ha detto: "Conosciamo alcune delle vecchie canzoni e delle vecchie medicine. Non conosciamo le storie. Non possiamo raccontarle. Le persone che raccontavano le storie sono scomparse". Io ho insistito un po’, e lui ha detto: "Forse, alcuni di loro vivono ancora nell’interno, risalendo il fiume. Su nelle montagne".» Tong Ov sorrise di nuovo, ma era un sorriso malinconico. «Ero ansioso di saperne di più, ma naturalmente la mia presenza costituiva un rischio per quell’uomo.» Fece una pausa piuttosto lunga. «A volte si ha la sensazione che…»

«Che sia tutta colpa nostra.»

Dopo un istante di esitazione, Tong annuì. «Sì. È colpa nostra. Ma dal momento che siamo qui, dobbiamo cercare di tenere un atteggiamento discreto.»

I chiffewariani si assumevano la responsabilità, però non coltivavano la colpa come facevano invece i terrestri. Sutty si rese conto di averlo frainteso. Capì di averlo sorpreso, dicendo quelle parole. Ma lei non sapeva che farsene della discrezione. Non disse nulla.

«Cosa credi che intendesse dire lo stregone, a proposito delle storie e della gente che le raccontava?»

Sutty cercò di concentrarsi sulla domanda, ma non ci riuscì. Non era più in grado di seguire Tong Ov. Conosceva il significato del detto: tirare troppo la corda. La sua corda adesso la soffocava, le serrava la gola.

Disse: «Pensavo mi avessi convocata per comunicarmi il mio trasferimento».

«Mandarti via dal pianeta? No! No, no» fece Tong, con stupore e pacata gentilezza.

«Mandarmi qui è stato un errore.»

«Perché dici questo?»

«Ho fatto tirocinio come linguista ed esperta di letteratura. Su Aka non è rimasta che una lingua, e la letteratura non esiste più. Volevo diventare una storica. Ma com’è possibile, su un mondo che ha distrutto la propria storia?»

«Non è facile» disse Tong, con sincera emozione. Si alzò per controllare il registratore di file. «Per favore, Sutty, dimmi una cosa. L’omofobia istituzionalizzata è molto difficile per te?»

«Sono cresciuta circondata dall’omofobia.»

«Sotto gli Unisti.»

«Non solo gli Unisti.»

«Capisco» fece Tong. Rimanendo in piedi, parlò scegliendo con cura le parole, guardandola; lei abbassò lo sguardo. «So che hai vissuto un grande sconvolgimento religioso. E considero la Terra un mondo con una storia condizionata dalle religioni. Quindi, per me, sei la più adatta del nostro gruppo per compiere un’indagine sulle vestigia della religione di questo pianeta, sempre che esistano. Ki Ala non ha nessuna esperienza in fatto di religione, e Garru non è per nulla obiettivo nei confronti di essa.» S’interruppe di nuovo. Sutty non proferì parola. Tong riprese: «La tua esperienza non ha favorito certo un atteggiamento distaccato da parte tua. Aver vissuto tutta la vita sotto la repressione teocratica, e il disordine e la violenza degli ultimi anni di Unismo…».

Sutty doveva parlare, adesso. Disse gelida: «Credo, grazie alla mia formazione, di essere in grado di osservare un’altra cultura senza eccessivi pregiudizi».

«Grazie alla tua formazione e al tuo carattere… sì. Ne sono convinto anch’io. Ma le pressioni di una teocrazia aggressiva, tutto quello che hai dovuto subire, potrebbero benissimo avere lasciato in te un residuo di diffidenza, di resistenza. Quindi, se ti sto chiedendo di osservare qualcosa che detesti, ti prego di dirmelo.»

Trascorsi alcuni istanti che le parvero molto lunghi, lei disse: «La musica non è proprio il mio campo».

«Penso che la musica sia solo un piccolo elemento di qualcosa di molto grande» replicò Tong, lo sguardo mite, implacabile.

«Non c’è problema, allora» disse Sutty. Aveva freddo; si sentiva artificiosa, sconfitta. Le faceva male la gola.

Tong attese un po’, caso mai lei avesse qualcosa da aggiungere, poi accettò le sue parole come una risposta definitiva. Raccolse il microcristallo contenente la registrazione e glielo porse. Sutty lo prese automaticamente.

«Leggilo e ascolta la musica qui in biblioteca, per favore, poi cancellalo» le disse. «La cancellazione è un’arte che dobbiamo apprendere dagli akani. Davvero! Non scherzo. Gli hainiani vogliono tenersi stretto tutto. Gli akani vogliono buttare via tutto. Forse c’è una via di mezzo, eh? Comunque, per la prima volta abbiamo la possibilità di andare in una zona dove forse la storia non è stata del tutto cancellata.»

«Non so se saprò riconoscere quello che vedo, quando lo vedrò. Ki Ala è qui da dieci anni. Tu hai fatto esperienza su altri quattro mondi.» Sutty gli aveva detto che non c’era problema. Aveva detto di essere in grado di svolgere il compito assegnatole. Ma si rese conto che stava ancora frignando, che stava ancora cercando di tirarsi indietro. Sbagliato. Vergognoso.

«Non ho mai vissuto il dramma di una grande rivoluzione sociale» replicò Tong. «E neppure Ki Ala. Noi siamo figli della pace, Sutty. Ho bisogno di una figlia del conflitto. In ogni modo, Ki Ala è analfabeta. Io sono analfabeta. Tu sai leggere.»

«Lingue morte in caratteri proibiti.»

Tong la guardò di nuovo a lungo, in silenzio, con una tenerezza autentica, impersonale, intellettuale. «Credo che tu tenda a sottovalutare le tue capacità, Sutty» disse infine. «Gli Stabili ti hanno scelta, hanno voluto che tu fossi uno dei quattro rappresentanti dell’Ekumene su Aka. Devi renderti conto che la tua esperienza e le tue conoscenze sono indispensabili per me, per il nostro lavoro qui. Per favore, rifletti su quanto ti ho appena detto.»

Attese, finché lei non disse: «D’accordo, lo farò».

«Prima che tu parta per le montagne, sempre che accetti, voglio anche che consideri i rischi. O meglio, che tenga presente che non sappiamo quali possono essere i rischi. Gli akani non sembrano gente violenta, ma è difficile stabilirlo dalla nostra posizione isolata. Non so perché all’improvviso ci abbiano dato il permesso di fare questo viaggio. Avranno sicuramente qualche motivo, qualche scopo, ma noi possiamo scoprirlo solo approfittandone.» Fece una pausa, continuando a guardarla. «Non hanno parlato di accompagnatori, guide, sorveglianti. Forse sarai proprio sola. Forse no. Non lo sappiamo. Nessuno di noi sa com’è la vita fuori dalle città. Tutte le diversità o le uguaglianze, tutto quello che vedi, tutto quello che leggi, tutto quello che registri, sarà importante. So già che sei un’osservatrice sensibile e imparziale. Se su Aka è rimasta qualche traccia di storia, sei il membro della mia squadra più adatto a trovarla. Ad andare in cerca di quelle "storie", o delle persone che le conoscono. Quindi, per favore, ascolta queste canzoni, e poi va’ a casa e pensaci, e comunicami la tua decisione domani. Okay?»

Pronunciò la vecchia parola terrestre un po’ impettito, con un certo orgoglio per quella conoscenza linguistica.

Sutty provò a sorridere. «Okay» annuì.

Due

Rincasando in monorotaia, Sutty all’improvviso scoppiò in lacrime. Nessuno le badò. Accalcata nella vettura, stanca dopo il lavoro e intontita dal lungo tragitto tutto scossoni, la gente se ne stava seduta a osservare l’olo propagandistico sopra il corridoio: centinaia di bambini in divisa rossa che scalciavano e saltavano all’unisono seguendo un motivetto allegro che risuonava stridulo nell’aria.

Mentre saliva le numerose rampe di scale che portavano al suo appartamento, Sutty pianse ancora. Non c’era motivo di piangere. Doveva esserci un motivo. Doveva avere qualche malanno. La sofferenza che provava era paura, una paura maledetta che sfociava nel panico. Terrore. Terrore puro. Era pazzesca l’idea di farle compiere quel viaggio da sola. Tong era folle a pensare una cosa simile. Lei non sarebbe mai riuscita a farcela. Si sedette alla scrivania per inviargli una richiesta ufficiale di ritorno sulla Terra. Le parole hainiane, però, non le venivano. Erano tutte sbagliate.

Le doleva la testa. Si alzò per cercare qualcosa da mangiare. Non c’era nulla nella dispensa, assolutamente nulla. Quand’era che aveva mangiato l’ultima volta? Non a mezzogiorno. Non quella mattina. Non la sera prima.

«Cosa mi succede?» chiese all’aria. Non c’era da meravigliarsi se le faceva male lo stomaco. Non c’era da meravigliarsi se aveva attacchi di pianto e di panico. In vita sua, non si era mai dimenticata di mangiare. Perfino in quel periodo, il periodo successivo, quando era tornata in Cile, perfino allora si era cucinata i pasti e li aveva mangiati, cacciandosi in gola il cibo condito di lacrime salate, giorno dopo giorno.

«Non lo farò» disse. Non sapeva cosa intendeva dire. Si rifiutò di continuare a piangere.

Ridiscese le scale, mostrò il codice d’identità all’uscita, percorse dieci isolati fino al negozio di alimentari più vicino, un negozio della catena globale, mostrò il codice d’identità all’ingresso. Tutti i generi alimentari erano confezionati, trattati, surgelati, comodi: niente di fresco, niente da cucinare. La vista delle sfilze di roba impacchettata le fece sgorgare di nuovo le lacrime. Furiosa e umiliata, comperò un panino imbottito caldo al banco del "Già Pronto". L’uomo che la servì era troppo occupato per guardarla in faccia.

Si fermò fuori dal negozio, per strada, evitando di guardare i passanti, si ficcò in bocca il cibo bagnato di lacrime salate, e si sforzò di mandarlo giù, come aveva fatto allora, in quell’altro posto. Allora si era resa conto che doveva vivere. Era il suo compito. Continuare a vivere anche dopo la gioia. Lasciare dietro di sé amore e morte. Andare avanti. Andare avanti da sola e lavorare. E adesso voleva chiedere di essere rimandata sulla Terra? Alla morte?

Masticò e inghiottì. Dai veicoli che transitavano le giungevano raffiche smozzicate di musica e slogan. A quattro isolati, il semaforo di un incrocio si era guastato, e i clacson dei robotaxi strombazzavano più assordanti della musica. Gente a piedi — i produttori-consumatori dello Stato Azienda, in uniformi color ruggine, marrone chiaro, blu, verdi, o in calzoni, casacche e giacche standard fabbricate dall’Azienda, tutti con scarpe di tela StarMarch — le sfilava accanto accalcandosi, uscendo dai garage sotterranei, affrettandosi verso i condomini.

Sutty masticò e inghiottì l’ultimo boccone coriaceo di cibo, dolce e salato. Non sarebbe tornata indietro. Avrebbe continuato. Avrebbe continuato il suo lavoro, da sola. Tornò a casa, mostrò il codice d’identità all’entrata, e salì le otto rampe di scale. Le avevano assegnato un appartamento all’ultimo piano, ampio, vistoso, un appartamento ritenuto adatto a un ospite onorevole dello Stato Azienda. L’ascensore non funzionava da un mese.

Per poco non perse il battello. Il robotaxi si smarrì cercando di trovare il fiume. La portò all’Acquario, quindi al Dipartimento delle Risorse Idriche, poi di nuovo all’Acquario. Sutty dovette bloccare il controllo automatico e riprogrammare il mezzo tre volte. Mentre attraversava di corsa la banchina, l’equipaggio del Traghetto Otto del fiume Ereha stava già ritirando la passerella. Sutty gridò, gli uomini riabbassarono la passerella, e lei salì a bordo trafelata. Buttò i bagagli nella piccola cabina e tornò in coperta a osservare la città che le scorreva accanto.

Lì vicino all’acqua, sovrastata dalle pareti a strapiombo dei palazzoni commerciali e governativi, la città presentava un lato più squallido e tranquillo. Sotto enormi argini di cemento, c’erano pontili e magazzini di legno, anneriti dal tempo, un andirivieni di piccole imbarcazioni simili a tanti insetti acquatici, impegnate in attività che senza dubbio non erano degne dell’attenzione del Ministero del Commercio, e comunità di case galleggianti inghirlandate di rampicanti fioriti, e tanfo di liquami.

Un torrente scorreva in un alveo di cemento tra alte pareti scure e si gettava nel grande fiume. Sopra di esso, appoggiato al parapetto di un ponte a schiena d’asino, c’era un pescatore: una sagoma semplice, immobile, fuori del tempo… l’immagine di un disegno in uno dei libri akani che avevano parzialmente recuperato dalla trasmissione sabotata.

Con quanta reverenza si era accostata a quelle poche pagine di immagini, versi poetici, frammenti di prosa, con quanta attenzione le aveva esaminate, là a Valparaíso, cercando di capire da quelle pagine come fossero gli abitanti di quest’altro mondo, desiderosa di conoscerli. Non era stato facile cancellare le copie dal suo noter, lì su Aka, e nonostante quello che diceva Tong, secondo lei era stata una cosa sbagliata, una capitolazione al nemico. Aveva studiato le copie nel suo noter un’ultima volta, con amore, con dolore, cercando di assimilarle prima di distruggerle. "E non ci sono orme nella polvere dietro di noi…" Aveva chiuso gli occhi mentre cancellava quella poesia. Facendolo, le era sembrato di cancellare tutte le sue struggenti speranze di scoprirne il significato, una volta giunta su Aka.

Però ricordava i quattro versi della poesia, e la speranza e lo struggimento erano ancora vivi.

I motori silenziosi del Traghetto Otto borbottavano sommessi. Col passare delle ore, gli argini artificiali si fecero sempre più bassi, più vecchi, interrotti con maggior frequenza da scale e approdi. Alla fine, scomparvero del tutto, lasciando il posto a fango e canne e sponde cespugliose, e l’Ereha si allargò sempre più, scorrendo sorprendentemente ampio attraverso una piatta distesa di campi verdi e giallo-verdi.

Per cinque giorni il battello navigò verso est su quel placido corso d’acqua, sotto un sole mite e nella mite oscurità stellata, stagliandosi come la cosa più alta nel paesaggio circostante. Di tanto in tanto giungeva a una città fluviale, attraccava a un vecchio molo sovrastato da nuovi palazzoni commerciali e residenziali, e prendeva a bordo provviste e passeggeri.

Sutty scoprì che era incredibilmente facile parlare con la gente sul battello. A Dovza City, tutto contribuiva a determinare in lei un atteggiamento riservato e taciturno. Anche se i quattro extraplanetari disponevano di appartamenti privati e di una certa libertà di movimento, l’Azienda organizzava la loro vita in modo molto rigoroso, fissando appuntamenti, programmando e sorvegliando il loro lavoro e gli svaghi. Non che fossero gli unici a essere tanto controllati: il repentino e gigantesco progresso tecnologico di Aka era sostenuto da una rigida disciplina, fatta osservare universalmente e accettata da tutti. Sembrava che tutti in città lavorassero sodo, per parecchie ore, dormissero poco, mangiassero in fretta. Ogni ora era programmata. Tutte le persone dei Ministeri della Poesia e dell’Informazione con cui Sutty era stata in contatto sapevano esattamente cosa volevano che facesse e in che modo doveva farlo, e non appena lei cominciava a eseguire le istruzioni ricevute, i suoi interlocutori se ne andavano in fretta per i fatti loro, lasciando che lei si occupasse dei propri.

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