«Cos'è successo?» disse lei, gridando infuriata. «Lasciami stare! Non capisco! Cos'è successo?»
«Per favore, calmati, per favore,» l'implorò lui, lasciandola andare. «Ci andiamo subito, così vedrai. Ma non è rimasto molto da vedere.»
Yoss camminò accanto a lui su gambe tremanti, mentre il Capo le raccontava cos'era successo. «Ma com'è cominciato?» gli chiese. «Com'è possibile?»
«Una scintilla. Hai lasciato il fuoco acceso? Certo, certo che sì, fa un tal freddo. Ma c'erano delle pietre mancanti dal camino, me ne sono accorto. Scintille, se c'era della legna nel fuoco… forse ha preso un'asse del pavimento, forse il canniccio. Poi ha preso fuoco tutto con questo clima secco, tutto è secco, niente piogge. Oh, Signore, Signore misericordioso, pensavo che fossi dentro. Pensavo fossi in casa. Ho visto il fuoco, ero sulla passerella… poi un attimo dopo sono arrivato alla porta, non so come, avrò volato, non so… ho spinto, era chiusa, allora ho aperto e ho visto tutta la parete in fondo e il soffitto che bruciavano, erano in fiamme. C'era tanto fumo che non ho capito se eri dentro, sono entrato, l'animaletto era rintanato in un angolo… ho pensato a quanto hai pianto quando è morto quell'altro, ho cercato di prenderlo, lui è uscito dalla porta come un razzo, e mi sono accorto che dentro non c'era più nessuno, così sono andato alla porta, poi è crollato il tetto.» Fece una risata selvaggia, trionfante. «M'ha beccato in testa, vedi?» Si chinò, ma lei non era lo stesso abbastanza alta da scorgergli la cima del capo. «Ho visto il tuo secchio, così ho cercato di gettare dell'acqua contro il muro per salvare qualcosa, poi ho capito che era una pazzia, stava bruciando tutto, non è rimasto niente. Quando mi sono avviato per il sentiero l'animaletto, il tuo micio, mi stava aspettando là, tutto tremante. Ha lasciato che lo prendessi in braccio, e non sapevo cosa farne, così sono tornato di corsa a casa mia e l'ho lasciato là. Ho chiuso la porta. Lì è al sicuro. Poi m'è venuto in mente che forse eri andata al villaggio, e sono tornato a cercarti.»
Erano arrivati al bivio. Yoss si spostò sul bordo della passerella per guardare in basso. Una chiazza di fumo, un monticello nero. Stecchi neri. Ghiaccio. Fu scossa da un brivido, e sentì una nausea tale che si dovette rannicchiare, inghiottendo saliva gelata. Il cielo e i canneti sfilavano da destra a sinistra, mulinando nei suoi occhi. Non riusciva a fermarli.
«Su, su, va tutto bene. Vieni con me.» Era consapevole della voce, delle mani e delle braccia, di un vasto calore che la sorreggeva. Gli camminò accanto a occhi chiusi. Dopo un po' li riuscì ad aprire per guardare con attenzione la strada.
«Oh, la mia sporta… l'ho lasciata là… è tutto quel che possiedo,» disse di colpo con una risatina, girandosi e quasi cadendo, perché quel movimento aveva di nuovo scatenato le vertigini.
«Ce l'ho io. Su, ormai ci siamo.» Portava la sua sporta in modo strano, nell'incavo del gomito. L'altro braccio era attorno a lei, per aiutarla a stare in piedi e camminare. Arrivarono alla casa del Capo, la casa scura sulla zattera. Era affacciata su uno spettacolare cielo giallo e arancio, con delle strisce rosa che salivano in cielo dal punto in cui il sole era tramontato. I capelli del sole, come li chiamavano quand'era bambina. Girarono le spalle a quello splendore, entrando nella casa buia.
«Gubu?» chiamò Yoss.
Ci misero del tempo a trovarlo. Era accucciato sotto il divano. Lo dovette tirar fuori a forza, perché non voleva saperne di uscire. Aveva il pelo pieno di polvere, che si sollevò mentre lo carezzava. Alla bocca aveva un filo di bava, e tremava ed era silenzioso tra le sue braccia. Yoss carezzò a lungo la schiena argentea picchiettata, i fianchi maculati, il pelo bianco e serico del ventre. Alla fine Gubu chiuse gli occhi, ma nell'istante stesso in cui Yoss si mosse appena, balzò giù, tornando a nascondersi sotto il divano.
Yoss si sedette e disse, «Scusami, scusami, Gubu, mi dispiace».
Sentendola parlare, il Capo rientrò nella stanza dal retrocucina. Si teneva le mani bagnate davanti al corpo, e lei si chiese perché mai non se le asciugava. «Sta bene?» le domandò.
«Ci metterà un po',» rispose Yoss. «L'incendio. E una casa sconosciuta. Sono… i gatti sono abitudinari. Non amano i posti strani.»
Non riusciva a coordinare pensieri o parole, uscivano a strappi, scollegati.
«È un gatto, allora?»
«Un gatto maculato, sì.»
«Questi animaletti appartenevano ai Boss, stavano nelle case dei Boss. Noi non ne avevamo.»
Lei lo prese per un rimprovero. «Sono arrivati da Werel coi Boss, certo. Come noi.» Appena quelle parole taglienti le furono uscite di bocca, le venne da pensare che forse lui l'aveva detto solo per giustificarsi della propria ignoranza.
Il Capo rimase immobile, con le mani protese. «Mi dispiace,» disse. «Credo che mi servano delle bende.»
Yoss mise a fuoco lentamente sulle mani.
«Te le sei ustionate,» gli disse.
«Non molto. Non saprei quando.»
«Fammi vedere.» Lui si avvicinò, girando le manone a palmo in su: una stria di vesciche rosso vivo sulla pelle azzurrina delle dita di una mano, e una ferita aperta e sanguinante alla base del pollice dell'altra.
«Me ne sono accorto solo mentre lavavo i piatti,» disse. «Non faceva male.»
«Fammi vedere la testa,» fece lei, ricordandosi di quel particolare. Lui s'inginocchiò, mostrandole una conformazione fuligginosa e irsuta tutta incrostata, con una bruciatura nera e rossa giusto in cima. «Ossignore,» esclamò Yoss.
Il nasone e gli occhi del Capo spuntarono da sotto quel viluppo grigiastro, vicini a lei, e la guardarono ansiosi. «So che m'è cascato addosso il tetto,» disse lui, e Yoss cominciò a ridere.
«Ci vuole ben più di un tetto che ti casca in testa!» fece. «Hai niente, che so, degli stracci puliti. Mi ricordo di aver lasciato degli strofinacci puliti nell'armadietto dell'acquaio. Disinfettanti?»
Continuò a parlare mentre puliva la ferita alla testa. «Non so nulla di ustioni, tranne che bisogna cercare di tenerle pulite e lasciarle scoperte perché si secchino. Dovremmo chiamare la clinica di Veo. Domani posso andare al villaggio.»
«Credevo fossi un dottore o un'infermiera.»
«Ero direttrice di una scuola!»
«Mi hai curato.»
«Perché sapevo cos'avevi. Di ustioni però non so nulla. Vado al villaggio a chiamare. Però non stasera.»
«Non stasera,» concordò lui. Poi fletté le mani, con una smorfia in viso. «Stavo per preparare la cena per noi,» disse. «Non immaginavo ci fosse qualcosa che non andava nelle mani. Non so quando può essere successo.»
«Quando hai salvato Gubu,» disse Yoss con voce pratica, poi cominciò a piangere. «Mostrami cosa volevi mangiare, ci penso io,» disse attraverso le lacrime.
«Mi rincresce per le tue cose,» disse il Capo.
«Non c'era niente di importante. Ho addosso quasi tutti i vestiti che possiedo,» rispose Yoss, sempre piagnucolando. «Non c'era nulla. Persino poco cibo. Solo l'Arkamye. E il mio libro sui mondi.» Pensò alle pagine che s'annerivano e s'arricciavano mentre il fuoco le leggeva. «Me l'aveva mandato un'amica dalla città, non ha mai approvato che io sia venuta qui, a far finta di bere acqua e stare in silenzio. Aveva ragione, dovrei tornare, non sarei mai dovuta venir qua. Che bugiarda che sono, che sciocca! Rubare legna! Rubare legna per farmi un bel fuocherello! Per stare calda e allegra! Così ho dato fuoco alla casa, così ho perso tutto, ho distrutto la casa di Kebi, il mio povero gattino, le tue mani, è tutta colpa mia. Mi sono dimenticata delle scintille del fuoco di legna, quel camino era fatto per il fuoco di torba, me ne sono scordata. Mi dimentico tutto, la testa mi tradisce, la mia memoria mente, io mento. Disonoro il Signore fingendo di rivolgermi a lui quando non posso rivolgermi a lui, quando non riesco a dimenticare il mondo. Allora lo brucio! Così la spada ti taglia le mani.» Gli prese le mani tra le sue e ci chinò sopra il capo. «Le lacrime disinfettano,» aggiunse. «Oh, scusami, scusami!»
Le grandi mani ustionate riposarono tra le sue. Il Capo si chinò a baciarle i capelli, carezzandoli con le labbra e la guancia. «Ti racconterò l'Arkamye,» le disse. «Adesso calmati. Dobbiamo mangiare qualcosa. Tu hai molto freddo. Secondo me, sei sotto shock. Siediti qua. Riesco ancora a mettere un tegame sul fuoco.»
Lei obbedì. Aveva ragione, sentiva un gran freddo. Si accucciò accanto al fuoco. «Gubu?» sussurrò. «Gubu, è tutto a posto. Vieni, vieni, piccolino.» Ma sotto il divano non si mosse nulla.
Abberkam le si fermò accanto, offrendole qualcosa. Un bicchiere. Era vino, vino rosso.
«Hai del vino?» gli domandò, stupita.
«Di solito bevo acqua e sto zitto. Certe volte bevo vino e parlo. Bevi.»
Lei prese umilmente il bicchiere. «Non ero sotto shock,» precisò.
«Nulla riesce a scioccare una donna di città,» fece lui serissimo. «Adesso mi dovresti aprire questo barattolo.»
«Come hai fatto a stappare il vino?» gli chiese mentre svitava il coperchio di un barattolo di pesce stufato.
«Era già aperto,» rispose il Capo con voce profonda, imperturbabile.
Per mangiare si sedettero di fronte al focolare, servendosi direttamente dal tegame appeso al gancio sul fuoco. Yoss tenne bassi, all'altezza del pavimento, dei pezzetti di pesce perché Gubu li vedesse da sotto il divano, e sussurrò al gatto, ma lui non ne volle sapere di uscire.
«Uscirà quando avrà molta fame,» disse Yoss. Era stanca di quel tremolio piagnucoloso della sua voce, del nodo alla gola, della vergogna. «Grazie per il cibo,» disse. «Adesso mi sento meglio.»
Si alzò per andare a lavare la pentola e i cucchiai. Dato che lei gli aveva detto che non si doveva bagnare le mani, il Capo non si offrì di aiutarla, ma rimase seduto immobile accanto al fuoco, come un grosso masso scuro.
«Vado di sopra,» disse Yoss quand'ebbe finito. «Forse riesco a prendere Gubu per portarmelo dietro. Posso avere un paio di coperte?»
Lui fece segno di sì. «Sono lassù. Ho acceso il fuoco,» aggiunse poi. Yoss non capiva. Era in ginocchio per guardare sotto il sofà. In quel mentre capì quanto doveva essere ridicola, una vecchia infagottata negli scialli con il culo all'aria, che sussurrava "Gubu! Gubu!" a un mobile. Ma poi sentì un fruscio, e Gubu le arrivò dritto in mano, aggrappandosi alla sua spalla con il naso nascosto sotto l'orecchio. Yoss si drizzò sui talloni e guardò raggiante Abberkam. «Eccolo!» disse, mentre si alzava in piedi con una certa difficoltà. «Buona notte.»
«Buona notte, Yoss,» fece lui. Yoss non osava prendere la lampada a olio, così risalì le scale al buio, tenendo stretto Gubu tra le mani fino a che non fu entrata nella stanza a occidente ed ebbe chiuso la porta. Poi rimase a bocca aperta. Abberkam aveva ripristinato il camino, e a un certo punto della serata aveva acceso la zolla di torba già pronta. Il bagliore rossastro guizzava contro le finestre basse e lunghe, nere per la notte, e l'odore era così dolce. Un lettone che prima si trovava in un'altra camera adesso occupava questa, ed era già preparato, con materasso e lenzuola e un nuovo panno bianco di lana. Sullo scaffale presso il camino vide una brocca e una bacinella. Il vecchio tappeto su cui si sedeva di solito era stato battuto e spazzolato, e adesso era steso presso il focolare, liso e pulito.
Gubu le fece forza con le zampe contro le braccia. Quando lo appoggiò a terra, il gatto filò di corsa sotto il letto. Lì sarebbe stato benone. Yoss versò nella bacinella un goccio d'acqua dalla brocca, poi la posò sulla pietra del focolare nel caso gli venisse sete. Per i bisogni poteva usare il mucchio di cenere. Qui c'è tutto quel che ci serve, pensò, ammirando ancora sbigottita la stanza immersa nella penombra, la luce soffusa che baciava le finestre dall'interno.
Poi uscì, chiudendosi la porta alle spalle, e scese dabbasso. Abberkam era ancora seduto davanti al camino. Le lanciò un'occhiata luminosa. Lei non sapeva cosa dire.
«T'è piaciuta la stanza?» le chiese.
Lei annuì.
«Hai detto che forse un tempo è stata la stanza di due amanti. Io ho pensato che forse poteva essere la stanza di due amanti futuri.»
Dopo qualche secondo lei rispose, «Forse».
«Non stanotte,» aggiunse lui con quel suo basso brontolio, che lei comprese essere una risata. Già una volta l'aveva visto sorridere, e adesso lo sentiva ridere.
«No, non stanotte,» disse recisa.
«Mi servono le mani,» fece lui. «Per quello, per te, mi serve tutto.»
Yoss non rispose, limitandosi a guardarlo.
«Per piacere, Yoss, siediti.» Lei si sedette sulla pietra del focolare di fronte ad Abberkam.
«Quand'ero malato ho riflettuto su molte cose,» le disse lui, sempre con un filo di retorica nella voce. «Ho tradito la mia causa, ho mentito e ho rubato in suo nome, perché non potevo ammettere di aver perso la fede. Temevo gli Alieni perché temevo i loro dèi. Quante divinità! Temevo potessero sminuire il mio Signore. Sminuire lui!» Rimase in silenzio per un minuto, per riprendere fiato. Yoss sentiva il rantolo nel profondo dei polmoni. «Ho tradito molte volte la madre di mio figlio. Lei, altre donne, me stesso. Non ho tenuto fede all'unica cosa nobile.» Spalancò le mani, con una piccola smorfia, per guardare le piaghe. «Tu invece non l'hai fatto.»
Qualche tempo dopo Yoss disse, «Sono rimasta con il padre di Safnan appena qualche anno. Ho avuto altri uomini. Ma adesso che importa?»
«Non è questo che intendo. Voglio dire che tu non hai tradito i tuoi uomini, tua figlia, te stessa. D'accordo, è acqua passata. Dirai, adesso che importa, non importa più nulla. Però anche adesso mi dài una possibilità, questa bella occasione, la dài a me, l'occasione di tenerti, di tenerti stretta.»
Lei non disse nulla.
«Sono arrivato qui coperto di vergogna,» proseguì lui. «E tu mi hai reso onore.»
«E perché io? Chi sono io per giudicarti?»
«"Fratello, io sono te."»
Lei lo guardò terrorizzata, appena uno sguardo, poi abbassò gli occhi sul fuoco. La fiamma della torba era bassa e calda, ed emanava appena un fil di fumo. Yoss pensò al calore, alla tenebra del corpo di quell'uomo.
«Ci sarà mai pace tra noi?» chiese alla fine.
«Hai bisogno di pace?»
Dopo un po' Yoss fece un mezzo sorriso.
«Farò del mio meglio,» rispose Abberkam. «Fermati in questa casa.»
Lei assentì.
IL GIORNO DEL PERDONO
Solly era stata una monella dello spazio, la figlia di un Mobil, passando da un'astronave all'altra, da un mondo all'altro. Aveva viaggiato per cinquecento anni luce ancor prima di compiere i dieci anni. All'età di venticinque anni s'era ritrovata nel bel mezzo di una rivoluzione su Alterra. Aveva imparato l'aiji su Terra e l'arte del pre-pensiero da un vecchio Hilfer su Rokanan, aveva completato in fretta le scuole su Hain ed era sopravvissuta a una missione come osservatrice su Kheakh, posto terribile e morente, saltando in questo modo un altro mezzo millennio quasi alla velocità della luce. Era giovane ma aveva visto un sacco di cose.
Era stufa che la gente dell'ambasciata di Voe Deo le dicesse in continuazione di stare attenta a questo, di ricordare quello. In fondo anche lei era diventata un Mobil. Werel aveva le sue stravaganze come tutti gli altri mondi, no? Aveva studiato, sapeva quando inchinarsi e quando non doveva ruttare, e viceversa. Era un sollievo starsene finalmente per conto proprio in questa splendida cittadina, in questo splendido piccolo continente, la prima e sola inviata dell'Ekumene nel divino regno del Gatay.
Da giorni si sentiva girare la testa a causa dell'altitudine, del piccolo sole brillante che inondava di luce verticale ie strade affollate, delle cime che si stagliavano incredibili dietro ogni palazzo, del cielo blu scuro dove le stelle vicine risplendevano tutto il giorno, delle notti abbaglianti sotto sei o sette mozziconi ballonzolanti di luna, della gente alta e nera con gli occhi scuri, teste strette, piedi e mani lunghi e magri, gente bellissima, la sua gente! Lei li amava tutti, anche se ne vedeva sin troppi.